martedì 31 marzo 2009

Il passato che non passa

Ricordate le foto delle ragazzine afgane che tornavano a scuola sorridenti nel 2002, dopo la prima fase della guerra in Afganistan, quando i talebani sembravano sconfitti? Ricordo la gioia di quelle immagini, ricordo di averle mostrate alle mie nipotine per far loro capire che andare a scuola poteva essere una libertà grandissima. Sette anni dopo, si succedono le notizie di donne sfregiate con l'acido perché osano andare a lavorare, di bambine assassinate mentre vanno a scuola. L'idea di una sia pur minima uguaglianza fra i sessi è annegata nella violenza più selvaggia. E noi ci facciamo di nuovo poco caso. Come si può discutere, stringere patti, fare contratti economici con chi tiene in catene le sue mogli e le sue figlie? La condizione delle donne nei paesi islamici non appartiene al campo delle usanze, delle differenze culturali, ma a quello dei diritti umani essenziali. La tragedia della guerra che alcuni paesi islamici conducono contro le loro figlie è un problema di tutti noi.

Anna Foa - storica

lunedì 30 marzo 2009

Testamento biologico

In questo paese il principio del noli me tangere non esiste più

di Emma Bonino

Quello che segue è l’intervento di Emma Bonino al Senato il 26 marzo, nel corso del dibattito sulla legge sul testamento biologico.

Signor Presidente, intervengo brevemente sugli emendamenti che mirano a sopprimere l'articolo sul ruolo del medico, nonché sugli emendamenti che seguono in cui si propone una serie di riformulazioni in considerazione del fatto che l'articolo in esame è tra i più pasticciati di questo disegno di legge.

Cominciamo con il dire che al comma 1 si prevede che il medico prende attentamente in considerazione quanto scritto, come se i medici normalmente non prendessero attentamente in considerazione nulla. Non mi pare un grande dato di elogio al senso di responsabilità dei medici.

Al comma 2 si precisa poi che le indicazioni sono valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza: quella scienza e coscienza che avete negato ai cittadini e che attribuite solamente al medico o al fiduciario.

Inoltre, avendo scelto che a decidere non sono i cittadini, decidete poi che, in caso di conflitto tra fiduciario e medico, decide una commissione di cinque esperti stabilita dal Governo: si va dal neurofisiologo al medico legale e, se non è presente nella Regione, si passa al neuroradiologo o ancora al medico con professionalità equivalente - si spera - o al medico curante e quant'altro.

All'articolo 8 si precisa poiche, nel caso in cui ancora non sia stato trovato un accordo, intervengono ovviamente i giudici. Dal punto di partenza, volto a negare il diritto ai cittadini, si è arrivati a dare responsabilità indebite ad una serie di categorie per arrivare, alla fine, a dire che decidono i giudici. Mi sembra un giro a trecentosessanta gradi di grande rilevanza.
Per questo motivo, signor Presidente, nel momento in cui quest'Aula ha deciso che il principio del noli me tangere non esiste più in questo Paese e decide del pari che se sono cosciente posso disporre di me, ma un anno o un giorno dopo, magari a seguito di un trauma cranico, non posso più disporre di me (dunque non è un problema di principio ma di tempi), mi consentirete nella solennità di quest'Aula, così sorda a qualunque possibilità di suggerimento persino in senso migliorativo rispetto ai pasticci che scrivete, di lasciare agli atti il mio testamento biologico.

Lo lascio con grande sofferenza. Lo lascio perché mi sembra l'unico luogo rimasto in cui poter forse consegnare questo documento, che dovrebbe essere un documento così intimo e così privato. Lo lascio perché penso che nel Paese si stia organizzando una vera e propria campagna di disobbedienza civile, lo lascio perché questa campagna rispecchia la dignità che ognuno di noi vuole non solo per sé ma anche per voi, quando ne avrete bisogno.
Questa è l'ultima cosa che volevo dire: state togliendo a voi stessi e a tutti l'essenza della dignità della persona, la sua capacità di decidere, e l'attribuite ai medici. Quante cose devono fare i medici in questo Paese: occuparsi dei clandestini, denunciarli,sostituire le mie volontà, insomma un nuovo ruolo poliziesco anche per tutelare - dite voi - il bene collettivo e certamente a fin di bene.

Voi non ascoltate, non sentite più nulla, come se davvero un dato ideologico, reazionario, avesse offuscato qualunque capacità di dialogo in quest'Aula. (Applausi dal Gruppo PD).

venerdì 27 marzo 2009

Vergogna

SUDAFRICA, IL NO AL DALAI LAMA
La dignità perduta

di Franco Venturini

La decisione del governo sudafricano di negare il visto d’ingresso al Dalai Lama non è purtroppo senza precedenti, ma è più inaccettabile di tutte le altre per almeno due motivi. Il primo riguarda la storia del Sudafrica. Una storia marchiata a fuoco dalla tragedia dell’apartheid, dalla discriminazione fatta sistema come in nessuna altra parte del mondo. Il Sudafrica moderno e multirazziale, quello di oggi, nasce dalla riconciliazione nazionale ma anche da un ripudio collettivo di quell’esperienza, si specchia in Nelson Mandela ex perseguitato e poi presidente, trova la sua identità nell’appartenenza a quella comunità di valori (l’Occidente) che sanzionò l’apartheid fino ad abbatterlo. Chi ha una storia del genere dovrebbe sentirsi obbligato a restarle fedele. Ed è per questo che la scelta del governo di Pretoria di non accogliere il leader spirituale di una minoranza oppressa assume i contorni di una vergognosa auto-sconfessione, di una fuga dalla propria insanguinata e sofferta identità.
Il secondo motivo che pesa sulla decisione sudafricana si chiama minacce cinesi, quelle alle quali Pretoria ha ceduto. Da qualche anno ormai la Cina conduce una strisciante ri-colonizzazione dell’Africa. Ovunque esistano fonti di energia — e in Africa ce ne sono in abbondanza — i cinesi investono, costruiscono, sottoscrivono contratti pluridecennali, offrono copertura politica ai governi. Le influenze americana o francese, per tanti anni rivali, oggi sono soltanto un ricordo. È evidente che questo stato di cose garantisce alla Cina una capacità d’interdizione particolarmente efficace in tutto il Continente Nero. Così come è assai probabile che i sudafricani, nella loro scelta, non abbiano dimenticato che la Cina è il principale partner commerciale di Pretoria. Ma questi dati di fatto, se rendono più comprensibili i motivi che hanno ispirato la decisione, non la giustificano. Al contrario. Proprio in quanto Stato africano che si richiama ai valori libertari dell’Occidente, il Sudafrica non dovrebbe ragionare esclusivamente con il pallottoliere dei commerci e dimenticare i valori assai diversi che la Cina porta nel continente: dal Congo dei massacri fino al caso tragico del Darfur, i cinesi si disinteressano totalmente del rispetto dei diritti umani e puntano al sodo. Cioè a sfruttare le fonti di energia e a sostenere i governi compiacenti.
Da ieri, il governo sudafricano si è iscritto a questa categoria forse conveniente ma di sicuro poco onorevole. E noi insistiamo a credere che ci abbia rimesso. In termini di immagine perché il Dalai Lama veniva a parlare dei mondiali di calcio che il Sudafrica ospiterà nel 2010 e dei rapporti tra sport e tolleranza (a proposito, la Fifa tacerà?). In termini di credibilità politica perché un Occidente che alterna «audaci» incontri con il Dalai Lama (Sarkozy) a distratte ipocrisie governative (anche in Italia), mai è giunto a negare il visto d’ingresso al premio Nobel tibetano. I commerci valgono di più, dirà qualcuno. E aggiungerà che parlare di rispetto dei diritti umani, nel mondo d’oggi, è soltanto una perdita di tempo. Noi crediamo invece che non farlo sia una perdita: di dignità.

(Fonte: Corriere della Stella)

giovedì 26 marzo 2009

Dr. Hesam Firouzi


Medico e blogger detenuto, il Dr. Hesam Firouzi è stato il primo a informare, attraverso il suo avvocato, della morte del blogger Omid Reza Mir Sayafi [it] avvenuta pochi giorni fa nel carcere di Evin, a Tehran. Il medico sostiene di aver sollecitato gli ufficiali della prigione a mandare in ospedale il detenuto in condizioni critiche, ma che questi si sarebbero rifiutati.
Secondo [in] Human Rights Watch, Hesam Firouzi è stato a lungo considerato un medico affidabile da prigionieri politici come Ahmad Batebi, Akbar Gangi, Ayatollah Burujirdi, AbolFazl Jahandar, Akbar Mohammadi senior e molti altri.
I suoi reati, secondo la sesta circoscrizione del Tribunale rivoluzionario iraniano, comprendono attività contro la sicurezza nazionale, provocazione dell'opinione pubblica, diffusione di notizie false, aver offerto rifugio e trattamento medico a prigionieri politici.
Firouzi sta scontando una sentenza di 15 mesi di detenzione. Il medico ha pubblicato [fa] l'ultimo post poco prima di andare in prigione. Dove parlava di volere la libertà per l'Iran e pubblicava una foto della figlia.
Ava, la figlia di sette anni, ha poi scritto [fa] la seguente poesia rivolta a quanti hanno preso in custodia il padre.
“Vogliamo il mondo reale. Questo non è il mondo vero perché ci sono tanti conflitti. Adesso sono le cinque del pomeriggio, basta con la tortura. Questa poesia è rivolta a chi sta interrogando mio padre, perché voglio che non lo arrestino un'altra volta.”
Sul suo blog Behzad Mehrani, attivista a sostegno dei diritti umani, pubblica [fa] una lettera per Ava:
شاید در مدرسه به تو بیاموزند که زندان جای انسان های خطا کار است. به تو دروغ نگفته اند اما همه ی حقیقت را نیز نگفته اند. پدرت زندانی است چون انسانی شرافتمند است،
Forse a scuola ti hanno insegnato che la prigione è riservata a chi ha fatto qualcosa di male. Non ti hanno mentito, ma non ti hanno nemmeno detto la verità. Tuo padre è in galera perché è un uomo rispettabile.
È stata lanciata [in] una petizione in favore del Dr. Firouzi. Parecchi blogger, attivisti per i diritti umani e associazioni studentesche hanno già aderito all'iniziativa.
Oltre due anni fa, Firouzi fu incarcerato [in] per circa tre settimane, accusato di aver nascosto un prigioniero politico evaso e aver rilasciato interviste a media stranieri.
Dopo essere stato rilasciato, pubblicò [in] sul suo blog una lettera aperta indirizzata alle autorità governative, in cui descriveva la propria esperienza in prigione. Il blogger raccontò di essersi trovato in una cella di 15-20 metri quadrati con 19-20 prigionieri. Aggiungendo che in certe braccia del carcere, si potevano comprare facilmente droghe, soprattutto il crack.



articolo originale di Hamid Tehrani
tradotto da Paolo d'Urbano · vai all'articolo originale

mercoledì 25 marzo 2009

Omid Reza Mir Sayafi


Omid Reza Mir Sayafi, blogger e giornalista iraniano di ventinove anni, è morto il 18 marzo nella prigione di Evin, a Teheran. A dicembre il blogger era stato condannato [in] a due anni e mezzo di reclusione perchè ritenuto colpevole di aver insultato dei leader religiosi, e aver fatto propaganda contro la Repubblica Islamica di Iran. Mir Sayafi attendeva ancora l'esito di un altro processo per “aver insultato l'Islam”.
Secondo il sito degli Attivisti per i Diritti Umani in Iran, in prigione Omid Reza soffriva di un'acuta forma di depressione, e avrebbe abusato dei farmaci che gli erano stati prescritti. Il dottor Hesam Firouzi, attivista per i diritti umani in carcere, afferma [fa] di aver sollecitato le autorità ad autorizzare il trasferimento di Omid Reza in una struttura ospedaliera al di fuori del carcere, ma i medici della prigione si sarebbero opposti, e non avrebbero nemmeno effettuato semplici accertamenti.
Su Facebook è partita una campagna [in] perchè “l'Iran si assuma le responsabilità della morte in carcere di Mirsayafi”.
Il blogger Mojtaba Saminejad racconta [fa] di avergli detto due giorni prima e che probabilmente nei prossimi giorni le autorità gli avrebbero concesso di uscire di prigione per recarsi in ospedale. Mojtaba aggiunge di aspettarsi di ricevere notizie assai migliori di questa.
In un'intervista [fa] realizzata dall'associazione Attivisti per i Diritti Umani in Iran pochi giorni prima del suo arrivo in carcere, Omid Reza aveva spiegato che il suo blog era di tipo culturale e non intendeva offendere nessuno.



articolo originale di Hamid Tehrani
tradotto da Stefano Ignone · vai all'articolo originale

martedì 24 marzo 2009

Presidio Safilo stabilimenti friulani


Arriva in rete la volontà di operaie e operai di non mollare, di non rassegnarsi alla chiusura degli stabilimenti con conseguente perdita del posto di lavoro. Una lotta che ha raccolto la solidarietà di molti, ma che ha bisogno di tutto il nostro sostegno. Passa al Presidio.

lunedì 23 marzo 2009

Tashi Sangpo


Tibet: suicidio di un giovane monaco


Dharamsala; 21 marzo 2009.
Tashi Sangpo, ventotto anni, residente nel monastero di Golok Ragya, nella contea di Machen, regione del Qinghai, si è tolto la vita gettandosi nel fiume Machu. Nei giorni precedenti il 10 marzo, nel monastero, da giorni sotto il costante controllo della polizia, erano stati trovati numerosi volantini di protesta e una grande bandiera tibetana era stata fatta sventolare sul tetto della principale sala di preghiera. Alcuni monaci erano stati arrestati e il monastero completamente isolato. Le forze di sicurezza hanno affermato di aver trovato sia i volantini sia la bandiera nella stanza di Tashi Sangpo. Il giovane monaco, piuttosto che subire l’arresto, si è allontanato furtivamente dal monastero e si è suicidato gettandosi nel fiume.Non appena si è diffusa la notizia della sua morte, gli abitanti di Ragya sono scesi nelle strade con bandiere e striscioni, al grido di “Indipendenza per il Tibet” e “Lunga vita al Dalai Lama”.Il 22 marzo, l’agenzia di stato cinese Xinhua ha pubblicato la notizia dell’arresto di novantadue monaci, tutti appartenenti al monastero di Ragya (La’gyab, il nome riportato da Xinhua). Sei di loro sono stati arrestati e 89 si sono arresi alle forze dell’ordine dopo aver assalito i poliziotti e i funzionari governativi. Secondo Xinhua, i disordini sono iniziati quando si è diffusa la notizia che un monaco, arrestato per aver inneggiato all’indipendenza del Tibet, è fuggito dalla prigione senza essere stato ritrovato. Ma, come riferisce la BBC riprendendo la notizia apparsa su un sito tibetano, (Phayul), il monaco “scomparso” è Tashi Sangpo, morto annegato nelle acque del fiume Machu.

(Phayul/BBC)

Negli ultimi giorni sono proseguiti, in tutto il Tibet, le manifestazioni di protesta ad opera sia di singoli individui sia di piccoli gruppi. Due rudimentali ordigni sono stati fatti esplodere rispettivamente contro un’auto delle forze di sicurezza e contro la stazione di polizia, a Golok e a Batang. Quattro tibetani sono stati arrestati a Kardze e sei a Nyarang per aver inneggiato all’indipendenza. Il 12 marzo, un contestatore è stato arrestato a Lithang. Infine, in data odierna, si ha notizia dell’arresto, a Kardze, di una monaca ventunenne, Lhobsang Khandro, portata via dopo essere stata picchiata per aver gridato slogan indipendentisti.

(Fonte: italiatibet.org)

venerdì 20 marzo 2009

Mario Vargas Llosa. Italia e altrove.

«all'estero si tende a sottovalutarlo. ha dimostrato un talento politico eccezionale»
«Silvio ultimo caudillo, ma democratico»
Lo scrittore Vargas Llosa: «Ha saputo unificare la destra. La sinistra? È anacronistica»

MADRID—Mario Vargas Llosa, Grande Vecchio della letteratura mondiale e del liberalismo, sta lavorando al prossimo romanzo, ambientato tra l’Africa e Londra, al tempo del genocidio rimosso dei belgi in Congo. Sul tavolo ha i giornali europei che danno conto del nuovo partito fondato da Silvio Berlusconi. L’occasione per una disamina politico- culturale sull’Italia e non solo, nell’anno della crisi.
Qual è il suo giudizio sulla figura di Berlusconi?
È davvero un uomo di destra?
«Berlusconi è un caudillo. Una figura scomparsa da tempo, di cui nessuno si attendeva il ritorno sulla scena della storia. Non solo: Berlusconi è un caudillo sui generis. Un caudillo democratico. Non ha nulla dell’autoritarismo di Mussolini. Il suo tratto pubblico è semmai l’ilarità, la battuta, la barzelletta. È un istrione che a volte si presenta come un clown. Ma gli va riconosciuto uno straordinario olfatto politico. Così come bisogna riconoscere che si è mosso dentro i parametri democratici; centrando i suoi obiettivi. Ha unificato per la prima volta la destra, da sempre divisa in fazioni che non si riconoscevano le une con le altre. E ha sconfitto più volte la sinistra italiana, vale a dire la più poderosa dell’Occidente».
A dire il vero, la sinistra italiana di sconfitte ne ha collezionate molte.
«Ma ha sempre esercitato un’egemonia culturale. Aveva dalla sua parte alcuni tra gli intellettuali e gli artisti più importanti d’Europa. E, nel ’94, pareva sul punto di prendere il potere. Ma sulla sua strada ha incontrato Berlusconi».
Lo storico Piero Melograni sostiene che Berlusconi è l’uomo che chiude la Guerra fredda italiana, con la sconfitta definitiva del comunismo nostrano, e chiude la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite. Condivide?
«Sì. Guardi, come avrà capito, a me Berlusconi non è simpatico...»
L’ha mai incontrato?
«Una volta sola, al matrimonio tra Agag e la figlia di Aznar, ma non ci siamo parlati. All’estero si tende a sottovalutarlo: pare impossibile che un personaggio superficiale, poco colto, che offre poche credenziali sul piano etico, abbia governato per tre volte un paese sofisticato come l’Italia. All’inizio pareva un opportunista, mosso dall’istinto del potere e dell’interesse personale. Però devo riconoscere che Berlusconi ha dimostrato un talento politico eccezionale. I suoi governi hanno garantito all’Italia ordine, stabilità, continuità. E hanno mandato all’opposizione una sinistra che avrebbe fatto del male al Paese».
Il centrosinistra si è unificato nel Partito democratico, ma non vede crescere i propri voti. È un esperimento già fallito?
«La sinistra italiana è un anacronismo. Non si è accorta di vivere in un mondo completamente mutato. È vecchia. I suoi uomini sono sempre gli stessi. Le sue idee sono state pensate in tempi remoti. Ha bisogno di un rinnovamento profondo. La sua debolezza è un guaio per Berlusconi e per il Paese. Senza un’opposizione forte, la democrazia è in grave pericolo».
I critici di Berlusconi ricordano che non ha ancora sciolto il conflitto di interessi, che fa di lui l’unico capo di governo a possedere tv e giornali. I suoi difensori sostengono che il conflitto è stato sanato dal voto degli elettori. Lei cosa ne pensa?
«La cosa più grave non è il conflitto di interessi, ma il fatto che agli italiani palesemente non importi nulla. Berlusconi non sarebbe lì senza le sue tv. La sua è la vittoria della cultura dello spettacolo; anzi, lui stesso è lo spettacolo. Perciò non venderà mai. Anche questo è un segno dell’involuzione etica della democrazia, evidente in tutto il mondo. L’Italia ha anticipato una questione che ci riguarda tutti».
Ora che è nato un partito dal 40%, come in Italia non si vedeva dai tempi della Dc, il berlusconismo sopravvivrà a Berlusconi?
«No. I partiti carismatici sono effimeri: non stanno insieme senza il carisma del leader. Il Pdl è come una bouillabaisse: saporita, ma eterogenea. Ci sono i conservatori e i riformatori, gli statalisti e i liberali, i cattolici e i radicali, gli uomini della vecchia destra e gli ex socialisti. Berlusconi non ha luogotenenti né delfini, né li può avere. Lui è irripetibile. Autoreferenziale, perché il suo unico riferimento è se stesso. Solo un Berlusconi jr potrebbe succedere al padre. Ma l’Italia non è la Corea del Nord».
Come valuta l’evoluzione dell’altro socio del Pdl, Alleanza nazionale, il partito erede del postfascismo?
«Stimo Fini. Una persona seria. È stato bravo a portare il suo partito dal fascismo a una destra moderna. Ma è un hombre de gabinete. Un uomo di apparato. Non sarà il successore di Berlusconi, e il primo a saperlo è lui».
Il Pdl è alleato con la Lega Nord. Come le pare Bossi?
«A differenza di Fini, Bossi ha carisma. Ma per ovvi motivi non sarà mai un leader nazionale. La sua è una forza di rottura, pericolosa in uno Stato dalla storia breve come l’Italia. Però la prima vittima di Bossi è la sinistra. Perché la Lega ha un elettorato popolare».
Cosa pensa della nuova destra che si ritrova nel partito popolare europeo? Sarkozy le piace?
«È un personaggio carismatico, con una vena populista, peraltro radicata in Francia fin da De Gaulle e Mitterrand. Ma è dinamico, affronta i problemi, ottiene risultati. E sta integrando la Francia nel resto del mondo, ricuce con l’America, torna nella Nato».
E Angela Merkel?
«Magnifica. Il leader europeo più sensato. Non è carismatica, il che per me rappresenta una qualità, perché significa che non è pericolosa. È invece democratica, diligente, flessibile. Sa lavorare in squadra. Era molto che la Germania non aveva una guida così».
A Londra voterebbe Gordon Brown o Cameron?
«A Londra sono maturi i tempi per l’alternanza. La maggioranza degli inglesi vuole Cameron, e credo l’avrà».
In Spagna che succede? Zapatero è in difficoltà?
«Grave difficoltà. È andato incontro spensierato al ciclone senza vedere le nuvole che si addensavano sulla sua testa. La crisi in Spagna è a uno stadio molto avanzato, e le prossime elezioni europee —le più importanti della storia non solo a Madrid, perché arrivano in un momento topico — potrebbero sancire il sorpasso dei popolari. L’unica nota positiva per Zapatero è che, per la prima volta, i partiti costituzionali superano i nazionalisti e sono maggioranza nel Paese basco».
Il leader del Pp Rajoy le piace?O era meglio Aznar?
«Rajoy è migliore come uomo di governo che come uomo da campagna elettorale, e potrebbe avere presto l’occasione per dimostrarlo».
Qual è l’impatto della crisi economica sulle culture politiche? La preoccupa questo passaggio brusco dal liberismo allo statalismo?
«Mi preoccupa molto. La storia recente ci insegna dove porta, in tempi lunghi o brevi, l’intervento statale nell’economia: alla rovina delle nazioni. Non è il liberalismo a essere andato in crisi; sono le istituzioni finanziarie, il loro funzionamento, le loro regole o la loro mancanza di regole, i loro tanti piccoli Madoff. Pensare di riempire questo vuoto con lo Stato sarebbe un rimedio peggiore del male».
Tutti i governi però hanno predisposto un piano di intervento.
«Temo si stia gettando il denaro nella fornace della crisi, con il risultato di sottrarre banche e imprese alle loro responsabilità. La crisi può anche essere un’utile purga. Una catarsi. Purché salvi la parte buona del mercato e rigeneri le istituzioni liberali, anziché soffocarle con il ritorno al passato».
Che impressione le fa Obama?
«Obama è molto positivo per gli Stati Uniti, che hanno pagato un prezzo terribile agli anni di Bush e sono arrivati alla fine del suo secondo mandato con il morale e il tasso di popolarità nel mondo più bassi che mai. Obama ha l’enorme merito di portare con sé una carica di entusiasmo e idealismo. La vera novità non è il fatto che sia nero; è il fatto che sia un intellettuale. Genere mai amato negli States».
Come le sembrano le sue prime mosse?
«Obama ha un compito terribile, ma sulla crisi Usa non sono pessimista. Gli americani possono uscirne prima del previsto, ne stanno già uscendo. Certo dovranno organizzare diversamente le loro vite, risparmiare di più, amputare le escrescenze. Ma mi pare che il patrimonio di idee e di valori dell’America sia ancora saldo».
In America Latina sembra prevalere un nuovo populismo, da Chavez a Morales. Che effetto le fa?
«Distinguo. C’è un populismo totale, anacronistico, antidemocratico che è quello di Chavez, che porta il Venezuela verso il modello cubano: miseria, corruzione, dittatura. Anche se i cinque milioni di voti contro di lui nell’ultimo plebiscito mi fanno sperare. Ma in America Latina c’è anche una sinistra democratica che ieri non c’era. Lula ad esempio ha accettato l’economia di mercato. Il Cile ha una sinistra di governo moderna e liberale. L’Uruguay è una grande sorpresa, i tupamaros che un tempo erano estremisti hanno saputo rinnovarsi».
E la presidenta Kirchner?
«Un desastro total. L’Argentina sta conoscendo la peggior forma di peronismo: populismo e anarchia. Temo sia un paese incurabile. La forza oscura, che mezzo secolo fa prese a trascinare una terra tra le più ricche del mondo verso la rovina, è ancora in moto».

di Aldo Cazzullo
(Fonte: Corriere della Sera)

martedì 17 marzo 2009

Primi passi

Il principio che vince

di Pierluigi Battista

Ventisette Paesi dell'Unione Europea hanno deciso che a Ginevra non potrà esserci una replica del festival antisemita inscenato a Durban nel 2001. Hanno stabilito che senza sostanziali modifiche al testo preparatorio della conferenza Onu contro il razzismo, attualmente zeppo di giudizi e pregiudizi ostili a Israele, la maggioranza dell'Europa politica diserterà i lavori della cosiddetta «Durban 2». Hanno segnato una linea che non può essere valicata: l'accettazione passiva e acquiescente di una tribuna internazionale che, sotto le insegne delle Nazioni Unite, si faccia megafono di una campagna ossessivamente «antisionista ».
Gli Usa e il Canada avevano già deciso di boicottare la conferenza di Ginevra. Il governo italiano si è associato alla linea del rifiuto di collaborare con un'iniziativa che, così come era impostata, non avrebbe potuto impedire il ripetersi dei misfatti di Durban. Oggi l'Europa, malgrado le critiche francesi alla scelta italiana considerata troppo «unilaterale », si attesta su una posizione che sottolinea l'impossibilità di assecondare un appuntamento internazionale destinato a stravolgere l'obiettivo stesso, la lotta al razzismo, a favore del quale era stato convocato. Testimonianza ulteriore che il principio della mediazione, utile e da perseguire con la giusta tenacia, non può oscurare le basi culturali dell'identità europea, dove l'antisemitismo e la violazione della libertà di espressione non possono trovare casa.
È la fine di un sortilegio, che ha sinora sacrificato ogni perplessità sull'altare dell'unità dell'Onu. Non è la conclusione di una battaglia, perché non è affatto detto che i testi preparatori della conferenza di Ginevra saranno cambiati in profondità secondo le indicazioni delle nazioni europee. Ma è la traccia di un cambiamento nell'atteggiamento e nella mentalità nelle democrazie che, come a Durban nel 2001, hanno permesso, nel silenzio omertoso delle organizzazioni internazionali, la grottesca equiparazione del razzismo e del sionismo, indicando in Israele l'unica fonte di discriminazione conosciuta in tutto il mondo. Per evitare il ripetersi di una farsa tanto oltraggiosa, va dato atto al governo italiano (con il consenso, nell'opposizione, dei radicali) di non aver esitato a seguire l'esempio americano, frustrando sul nascere ogni tentazione rinunciataria sul fronte europeo.
Il tono tassativo della dichiarazione dei Ventisette sta a dimostrare che l'Europa ha considerato non negoziabile ogni riferimento testuale che suonasse, se non come approvazione, come rassegnata accettazione di una visione rovesciata delle cose del mondo. L'Italia, in questo caso, non si è avventurata in un'imprudente fuga in avanti. Ha invece convinto anche i Paesi europei più riottosi ad attestarsi su una linea ultimativa, assegnando all'Europa un ruolo insperato di promozione dei diritti umani. Per l'Europa ora corre l'obbligo di tener duro e di non contraddire i proclami con comportamenti più disponibili a un inconcludente negoziato. Separando il proprio destino, nel caso, dai fanatici architetti di un'altra Durban.

(Fonte: Corriere della Sera)

domenica 15 marzo 2009

Indifferenza


Intorno alla vicenda di Pordenone – l’aggressione a un omosessuale disabile da parte di un gruppo di italiani “orgogliosi”, accaduta a gennaio e diventata notizia nazionale solo mercoledì scorso - ha dominato sovrano il silenzio. Non ha suscitato né voci scandalizzate, né le opinioni dei “professionisti dal ciglio alzato”. Per riepilogare: a Pordenone il 23 gennaio scorso quando avviene la scena dell’aggressione nessuno reagisce eccetto un signore che telefona e chiama le forze dell’ordine. Eguale silenzio, da mercoledì scorso, su tutto il territorio nazionale. Quell’aggredito dunque – a differenza di altri aggrediti - suscitava indifferenza: nel momento dell’aggressione (il 23 gennaio), ma anche dopo, nella seconda metà della settimana scorsa. Nessuno ha chiesto che fosse fatta giustizia, nessuno ha urlato che in assenza di giustizia, si sarebbe fatto giustizia da solo. Perché questa volta è andata così? Non sono stato in grado di trovare una risposta per l’indifferenza del 23 gennaio. Per quella della settimana appena conclusa, visto il peso della notizia e lo spazio di pagine occupato sui giornali, potrei azzardare l’ipotesi, che molti erano in lutto per l’uscita in massa di tutte le squadre dal giro delle coppe europee di calcio e dunque non c’era spazio per ulteriori emozioni.

domenica 8 marzo 2009

Ideologie

C’è un senso comune consolidato in Italia che identifica la “violenza sulle donne” come l’effetto dell’emergenza immigrazione. E’ la conseguenza di un essenzialismo culturale e di una doppia falsa coscienza: da una parte il trasferimento sui soli immigrati di un fenomeno consolidato da sempre nella società italiana; dall’altra il peso di due ideologie, diffuse in proporzioni diverse in tutto l’arco politico italiano. Ideologie apparentemente contrarie, ma in realtà omologhe: quella del paternalismo e quella del buonismo, accomunate da uno sguardo “assistenzialista” sugli “altri” incapaci di essere “responsabili”. Questo perché, secondo i paternalisti, essi sono “selvaggi da rieducare”; oppure, secondo i buonisti”, “portatori di una cultura” di cui non si discutono gli aspetti autoritari, confondendoli come “autentici” e dunque da accogliere in nome del “rispetto alle culture altrui”. Un essenzialismo culturale che in tutte le versioni in cui si manifesta non ha molto a che vedere con la democrazia moderna.

David Bidussa, storico sociale delle idee

venerdì 6 marzo 2009

Arrestate il criminale Omar Al Bashir

IL CASO DARFUR
Contro le anime belle

di Bernard-Henri Lévy

Dunque, ci siamo. La Corte penale internaz ionale ha emesso il suo mandato di arresto contro il Presidente sudanese Omar Al Bashir. Questa decisione è una grande notizia per tutti coloro che, da anni, assistevano impotenti ai massacri del Darfur. Questa decisione conferma, con tutta l'autorità della Legge, eccetto l'accusa di genocidio propriamente detto, i terribili sospetti che pesavano sul regime. Stigmatizza, isola, e di conseguenza indebolisce, uno Stato che era forte solo della nostra debolezza, della nostra impassibilità alle sofferenze che esso infliggeva e, in fondo, della nostra vigliaccheria rispetto al potere (petrolio, eccetera) che gli si attribuiva.
Sul piano interno, infine, essa modifica il rapporto di forze in favore di chi, fra i sudanesi, disapprovava in silenzio la fuga in avanti di una dittatura che, dal clima di terrore da essa instaurato, ricavava l'ossigeno necessario alla propria sopravvivenza, e che ormai dovrà venire a patti con l'avversario o anche cedere il posto (Colpo di Stato dell'esercito? Putsch nel Partito maggioritario? Nuova offensiva del Movimento per la giustizia e l'uguaglianza che si era rassegnato, a malincuore, al cessate il fuoco? Da oggi tutto è possibile, veramente tutto, eccetto il mantenimento, nello stato attuale, della dittatura).
Probabilmente, la prima reazione dell'accusato sarà di accentuare la propria tracotanza, di intensificare le operazioni sul terreno, di minacciare le Ong «complici» della decisione dell'Aja: sarà un ultimo colpo di coda; il soprassalto di una bestia politica ferita a morte, consapevole di avere i giorni contati. Non sarà certamente peggio della logica di guerra totale di cui sono stato, con altri, il testimone per questo giornale, e che ha già trasformato il Darfur in un campo di desolazione e di rovina.
Probabilmente, ci saranno in Europa anime belle pronte a gridare che non bisognava prendere di petto quella gente, che bisognava evitare di metterla alle strette perché, in questo modo, abbiamo guastato quel che restava della speranza nelle possibilità di una pace negoziata: l'argomento non ha senso; addirittura, per chi conosce un poco la realtà del posto, è francamente odioso e osceno. Infatti la pace, per il signor Al Bashir, non è mai stata altro che una pace di ceneri e di cimiteri; per lui, non si è mai trattato di prevedere una qualsiasi pace prima che fosse annientata la resistenza dei cittadini del Darfur; se esiste una opportunità, una sola opportunità, di far la pace, essa dovrebbe passare, al contrario, attraverso l'appoggio, fosse pure tardivo, agli ultimi sopravvissuti dei massacri.
E quanto all'argomento di coloro che, nella decisione del Tribunale penale internazionale, vedono un'ingerenza neocoloniale e reputano che spetti agli africani regolare questo dramma africano, esso fa tornare in mente una tale quantità di cattivi ricordi che ci si sente arrossire solo nel dovervisi soffermare.
Non era forse il ragionamento di Goebbels — che prima ancora della vicenda dei Sudeti affermava che «in casa propria ciascuno è re» — o quello degli stalinisti che intimavano all'Occidente di chiudere gli occhi sulle violazioni gravissime dei diritti dell'uomo, le carneficine, operate in quella che si osava chiamare la loro «zona d'influenza»?Cos'altro è, questo ragionamento, se non un modo di travestire di retorica antimperialista, terzomondista, altermondialista, il sostegno senza vergogna e cinico a una macchina del terrore implacabile e senza pietà?No, la decisione della Corte penale è incontestabilmente una felice decisione.
Era, per tutti coloro che credono nell'unità del genere umano e che rifiutano il processo mentale secondo cui ci sarebbero vittime degne d'interesse (per esempio le vittime palestinesi) e altre che dovrebbero lasciarci freddi (non le migliaia, ma i milioni di morti senza nome delle guerre dimenticate d'Africa) l'unico atteggiamento coraggioso e saggio. Ci resta da sperare che la comunità internazionale saprà prendere questa decisione sul serio, saprà mostrarsi all'altezza dell'evento e saprà notificare quindi al criminale di guerra Al Bashir che ormai egli è, concretamente, messo al bando delle nazioni.

(traduzione di Daniela Maggioni)
(Fonte: Corriere della Sera)

mercoledì 4 marzo 2009

Lo Stato canaglia

Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche

Nazione di sudditi allergica al liberalismo

Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia»


Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato.
Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava.
Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato.
Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione.
Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci.


di Piero Ostellino
(Fonte: Corriere della Sera)

martedì 3 marzo 2009

Guerra sporca

Oggi sul Corriere della Sera compare un articolo di Guido Olimpio dal titolo: "Turchia, un killer uccide i ceceni in esilio". Un 'articolo molto interessante e direi inquietante, la cosa piuttosto strana, ma forse no, e che non è stato facile trovarlo sul web. Di certo non piacerà al Cremlino.

lunedì 2 marzo 2009

Razzismo

Si cominciano a vedere le ronde. Su un autobus romano, un "rondista" travestito da controllore e affiancato da due veri controllori che si tenevano in disparte, non si sa se per prudenza o per dissociarsi, ha cominciato a chiedere il biglietto ai soli extracomunitari, il tutto a male parole, chiedendo loro anche i documenti e poi buttando a terra il portafoglio dei malcapitati. Il caso non è isolato. Se non è razzismo chiedere il biglietto solo agli immigrati, allora cos'altro è il razzismo? Chi ha autorizzato questa prassi illegale, condita di violenza e di male parole? Ci accorgiamo che stiamo lasciando via libera alla prepotenza dei delinquenti nostrani? Naturalmente, nessuno ha protestato. Fra poco, non ce ne accorgeremo nemmeno più, ci avremo fatto l'abitudine.

Anna Foa, storica

domenica 1 marzo 2009

Regimi

Il sociologo Gino Germani ha scritto in un suo libro di molti anni fa (Autoritarismo, fascismo e classi sociali, il Mulino 1975, p. 20) che uno dei lati più paradossali dell’autoritarismo moderno consiste nel fatto “che si tenda non già a ridurre i cittadini a sudditi (oggetti passivi), ma a cittadini che hanno una certa ‘convinzione’: li si obbliga cioè a scegliere e si manipola l’oggetto della scelta”.
C’è qualcosa in questa affermazione che riguarda il nostro presente?

David Bidussa, storico sociale delle idee