mercoledì 23 marzo 2011

Il Dalai Lama si dimette per assicurare un futuro al Tibet

Anche se era atteso da tempo, l’annuncio che il Dalai Lama abbandonerà il suo ruolo politico complica la situazione in Tibet e crea una serie di nuove sfide per la Cina e l’India, il paese che lo ospita da molti anni.

In occasione del 52° anniversario dell’insurrezione tibetana, il Dalai Lama, 76 anni, ha annunciato che presto passerà il testimone a un “leader liberamente eletto”. “Fin dagli anni Sessanta ho più volte sottolineato che i tibetani devono avere un leader eletto dal popolo, al quale io possa cedere il momento. E’ arrivato il momento di passare ai fatti”, ha dichiarato.

L’annuncio del Dalai Lama arriva in un momento particolare dopo il diffondersi delle rivolte che nel mondo arabo si moltiplicano le pressioni su Pechino affinché allenti la presa sul Tibet, e questo rende più complicati i negoziati con gli esuli tibetani.

Inoltre gli Stati Uniti sembrano aver assunto un nuovo atteggiamento verso il Tibet, ma ultimamente Washington sembra mostrare maggiore solidarietà al Dalai Lama. Il 24 febbraio 2011 Timothy Roemer, l’ambasciatore statunitense in India, ha partecipato all’inaugurazione del nuovo centro di accoglienza per i rifugiati tibetani di Dharamsala.

Dato che il Dalai Lama si limiterà a svolgere un ruolo religioso, sarà necessario organizzare al più presto delle elezioni per scegliere un primo ministro, che sarà il nuovo volto dei tibetani in esilio. I candidati probabili sono tre e due di loro sembrano essere molto vicini agli Stati Uniti. Il favorito, Lobsang Sangay, è un docente di Harvard, dove ha conseguito il dottorato. Gli altri due sono il filoamericano Lobsang Namgyel, esponente dell’aristocrazia tibetana, e Tashi Wangdi, che per anni ha guidato l’ufficio del Dalai Lama e che è generalmente considerato un filoeuropeo.

Secondo gli esuli tibetani il resto del mondo sta traendo conclusioni arbitrarie sulle ragioni che hanno spinto il Dalai Lama a rinunciare al suo ruolo politico. “E’ una mossa per preparare i tibetani a gestire i loro affari con forza e fermezza”, spiega lo scrittore e attivista Tenzin Tsundue. “La Cina ha sempre diretto le sue critiche contro il Dalai Lama. Ma ora dovrà confrontarsi con le decisioni prese da una base più ampia, che saranno più difficili da attaccare”.

La diaspora tibetana è presente in tutto il mondo, ma ha il suo centro in Dharamsala, dove il Dalai Lama guida un governo affiancato da un parlamento eletto, commissari elettorali e giudici che può licenziare a suo piacimento. E’ a questo potere, e al ruolo di rappresentante della resistenza tibetana, che il leader religioso vuole rinunciare.

Anche se l’India ospita il Dalai Lama dal 1858, l’anno in cui fuggì dal Tibet, New Delhi non riconosce formalmente l’organismo denominato “ufficio del Dalai Lama”. La sua presenza in India, però è sempre stata un asso nella manica per il governo indiano, in particolare per quanto riguarda i rapporti con il vicino cinese, che appare sempre più forte e determinato. L’annuncio del Dalai Lama rafforza la posizione dell’India perché la questione tibetana non si spegnerà con la sua morte ma proseguirà con una leadership nuova e giovane.

Il portavoce del ministro degli esteri indiano Vishnu Prakash non ha voluto commentare la notizia, ma ha detto che l’India continuerà a ospitare il Dalai Lama perché lo considera “una figura religiosa profondamente rispettata”.Alcuni analisti pensano che New Delhi possa beneficiare della piega che hanno preso gli eventi.

“L’India è stata fondamentale per muovere il processo di democratizzazione in Nepal e in Buthan”, dice Srikanth Kondapalli, esperto di Cina della Jawaharlal Nerhu University di New Delhi: “ed è perfettamente consapevole che l’emergere di un Tibet più democratico sarà certamente un fatto positivo”.

lunedì 21 marzo 2011

Acqua: negata al 40 per cento dei popoli Africa Subsahariana. 884 milioni di persone non hanno quella pulita

Sono ben 884 milioni di persone, pari a circa un sesto della popolazione mondiale, a non avere accesso ad acqua pulita, secondo Who-Unicef che sottolineano come tra le persone senza accesso ad acqua pulita, otto su 10 vivono in aree rurali. Ecco tutti i numeri dell'accesso e dell'uso dell'acqua pulita nel mondo. Il fabbisogno minimo giornaliero di acqua pulita per bere, cucinare e lavarsi e' pari a 20-50 litri per persona secondo Wwap.

Ogni anno 1,4 milioni di bambini, uno ogni 20 secondi, muoiono per la diarrea causata da acqua contaminata e dall'assenza di misure igieniche adeguate (Who-WaterAid)). La diarrea è a principale causa di malattia e di morte, e l'88% dei decessi per diarrea sono legati alla mancanza di servizi igienici e di acqua pulita per bere e lavarsi (Jmp).

Ogni anno si perdono 443 milioni di giorni di scuola per malattie legate all'utilizzo di acqua contaminata, per ogni dollaro investito in infrastrutture idriche e igieniche, se ne ricavano otto in aumento di produttività (Undp).

Nei Paesi in via di sviluppo ogni persona in media consuma 10 litri di acqua al giorno per bere, cucinare e lavarsi riferisce il Wsscc. In Europa ogni persona consuma in media 200 litri di acqua al giorno per bere, cucinare e lavarsi per l'Hdr che sottolinea come in Nord America ogni persona consuma in media 400 litri di acqua al giorno per bere, cucinare e lavarsi. Sono 2,6 miliardi di persone, pari a circa due quinti della popolazione mondiale, a non avere accesso ad adeguate misure igieniche dai dati Who-Unicef.

(Notizie Radicali)




"Odissea all'alba", guerra a Gheddafi

lunedì 14 marzo 2011

Quale riforma della giustizia

di Gianfranco Spadaccia



Ci sono diversi aspetti della crisi della Giustizia che, strettamente connessi tra loro, vanno tuttavia tenuti distinti per parlare di una sua possibile riforma: di qualsiasi ipotesi di riforma e, a maggior ragione, di quella che è stata elaborata dal Governo Berlusconi.


Il primo aspetto è quello della riforma dell’ordinamento (separazione delle carriere fra pubblica accusa e magistratura giudicante, responsabilità civile dei magistrati, eventuale riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo sistema di elezione, eventuali norme che regolino la scelta delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, eventuali interventi sul sistema delle impugnazioni) ed è lo stesso sul quale si accentrano le attenzioni e le preoccupazioni dell’attuale Governo.

C’è poi l’altro aspetto consistente nell’impianto complessivo del nostro diritto penale, caratterizzato dalla sopravvivenza dopo il fascismo del Codice Rocco: un codice autoritario, coerente con i principi ispiratori di uno Stato totalitario, che era tuttavia concepito con forte rigore giuridico dalla dottrina di un grande giurista. In oltre sessanta anni di storia repubblicana nessun governo e nessuna maggioranza è stato in grado di riformarlo. Fra gli ultimi ad averci provato Pisapia padre e figlio per il centrosinistra e il giudice Carlo Nordio per il centrodestra. Quel codice, per altro, regolava il diritto penale di una società prevalentemente agraria, che ha subito una profonda trasformazione industriale e urbana nei primi due decenni del dopoguerra. Mutarono di conseguenza anche i problemi della sicurezza e la gerarchia dei beni e degli interessi da tutelare penalmente. Per far fronte a questi mutamenti, il Parlamento e le sue maggioranze sono di volta in volta ricorsi a una produzione novellistica, fatta di leggi e leggine di scadente qualità giuridica e normativa, di norme speciali e poteri straordinari, che travolgevano la logica complessiva del Codice Rocco.


Di intervenire su questo impianto normativo, che va riformato con la riforma del Codice, con una vasta azione di depenalizzazione e con l’introduzione di pene alternative al carcere come avviene in tutti gli altri paesi europei, la maggioranza berlusconiana neppure ci pensa così come si guarda bene dal prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di amnistia, condizione necessaria anche se non sufficiente per porre termine alla vergogna incivile della nostra situazione penitenziaria, eliminare l’enorme arretrato e consentire una diversa programmazione e riorganizzazione del lavoro giudiziario. L’unico garantismo che sta a cuore a questa maggioranza è quello che salvaguarda gli uomini della e delle caste, i ricchi, i potenti, i colletti bianchi e naturalmente in primo luogo Berlusconi. Gli altri possono pure morire di carcere. Mai come oggi La Giustizia è stata così chiaramente e scandalosamente una Giustizia di classe.

Negli anni ’80 e ’90, non esistendo le condizioni di uno schieramento parlamentare a favore di una riforma complessiva del diritto penale, riuscimmo ad influenzare il parlamento a favore di una significativa riforma penitenziaria e mettemmo in atto una serie di iniziative referendarie. Insieme a socialisti e a liberali, negli anni ’80 raccogliemmo le firme per un referendum sul sistema di elezione del CSM (l’intenzione era quella di passare dal sistema proporzionale, che favoriva la formazione delle correnti trasformandole in organismi permanenti di potere con logiche assai simili a quelle partitocratiche, a un sistema di tipo uninominale). Un altro referendum estendeva la responsabilità civile dei magistrati anche alla colpa oltre che al dolo. Il primo fu bocciato dalla Corte Costituzionale, il secondo giunse al voto e fu approvato dalla grande maggioranza degli elettori. Purtroppo Bettino Craxi e il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, preoccupati (soprattutto il primo) di evitare scontri diretti con l’Associazione Nazionale dei Magistrati, vanificarono con una legge di attuazione quel voto popolare. Negli anni ’90 raccogliemmo le firme sul referendum che avrebbe introdotto la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti. Anch’esso ottenne una grande maggioranza. Peccato che non raggiunse il quorum per la campagna astensionista condotta in prima persona proprio da Berlusconi contro i “referendum comunisti”.


Non c’è alcun dubbio che almeno alcuni dei mutamenti proposti dalla riforma Alfano (separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati) facciano parte del nostro bagaglio programmatico e dei nostri obiettivi riformatori, anzi sono entrati nel dibattito politico proprio grazie alle nostre lotte. Qualche dubbio invece potrebbe riguardare la scelta di procedere attraverso una revisione costituzionale dal momento che almeno queste due riforme sembravano perfettamente compatibili con la costituzione vigente e quindi realizzabili per legge ordinaria. Diverso il discorso per la questione riguardante l’obbligatorietà dell’azione penale, che è espressamente prevista dalla Costituzione. Anche su questo i radicali sono stati i primi a squarciare il velo dell’ipocrisia che circondava questa norma costituzionale: poiché è praticamente impossibile attivare l’azione penale per tutte le notitiae criminis, la pretesa obbligatorietà investe l’ufficio del Pubblico Ministero di una discrezionalità praticamente assoluta e incontrollata sulle inchieste da aprire e le ipotesi di reato da perseguire.


Naturalmente è profondamente mutato il contesto nel quale si inseriscono oggi queste proposte di riforma rispetto a quello nel quale si sviluppavano le nostre lotte negli anni ’80 e ’90. Allora le leggi speciali contro il terrorismo e contro la criminalità organizzata, la legge sul pentitismo, le modifiche introdotte nella durata di quella che prima si chiamava carcerazione preventiva ed ora custodia cautelare avevano concentrato un enorme potere nelle mani delle Procure, spostando nettamente a favore di queste ultime gli equilibri interni alla magistratura. Basta pensare ai due casi emblematici del Processo 7 aprile e del caso Tortora, che ci videro protagonisti di diretti e duri scontri politici anche condotti con le candidature di Toni Negri alle elezioni politiche del 1983 e dello stesso Tortora alle europee del 1984. Allora la carcerazione preventiva poteva per determinati reati arrivare a cinque anni. Una incriminazione equivaleva in quei casi in pratica a una vera e propria forma di giustizia sommaria. Emilio Vesce, uno degli imputati del processo 7 aprile, che divenne poi deputato radicale, si fece cinque anni di carcere preventivo per essere infine assolto dai reati che gli erano stati contestati dal Procuratore di Padova Calogero. Poi questi poteri e questi metodi si estesero a Mani Pulite, una campagna di inchieste giudiziarie ampiamente giustificata dalla corruzione di cui la politica si era resa responsabile ma che fu fortemente inquinata dall’uso spregiudicato che si fece proprio della discrezionalità dell’azione penale e della carcerazione preventiva. La chiamata di correità che Craxi aveva fatto nei confronti degli altri partiti rimase senza seguito anche se sarebbe bastato indagare sui criteri di rigorosa lottizzazione che avevano presieduto nel decennio precedente alla assegnazione degli appalti pubblici e che avevano coinvolto i diversi settori del mondo industriale e cooperativo e l’intero schieramento partitico (esclusi ancora una volta i soli radicali). Questo uso spregiudicato e parziale della giustizia ebbe profonde influenze sugli assetti politici della Repubblica, punì alcuni (il PSI, i partiti laici, una parte della DC) e preservò altri (postcomunisti e una parte della DC) ma non favorì in alcun modo la riforma e la moralizzazione della politica. L’ondata giustizialista che si è sempre considerata sufficiente a sé stessa, lungi dal concorrere alla riconquista della legalità ha finito per creare due aree contrapposte di illegalità, quella di una politica non riformata e quella di una giustizia priva di limiti e di controlli.

La mancanza di capacità e volontà riformatrici ha creato un vuoto che è stato riempito da Berlusconi e dalla sua discesa in campo. E’ cominciata da allora la lunga stagione di una transizione infinita che invece di preludere a una Riforma ha impantanato la politica e le istituzioni in tante piccole e mediocri controriforme. Alle lottizzazioni, alla corruzione, al rapporto incestuoso fra economia e politica, al finanziamento illecito dei partiti che caratterizzavano la cosiddetta Prima Repubblica è seguita la creazione di sacche di illegalità sempre più diffusa in cui hanno prosperato cricche affaristiche, assalto ai pubblici appalti, deroghe sistematiche alle leggi della contabilità, affittopoli, parentopoli e sono prosperati naturalmente gli affari del titolare del più grande conflitto d’interessi che si sia mai visto in uno Stato che si proclama democratico, il nostro attuale presidente del Consiglio. Le sue dichiarazioni di oggi non depongono bene. Lui fa questa riforma perché i PM si presentino con il cappello in mano davanti ai giudici? E magari si aspetta che anche i giudici si presentino davanti a lui con il cappello in mano?

Noi siamo difensori delle istituzioni repubblicane o di ciò che resta di esse. Di conseguenza non possiamo non apprezzare il fatto che, dopo 16 anni di tradimenti e di leggi ad personam, il governo berlusconiano abbia finalmente imboccato la strada di una riforma. Opereremo perché il dibattito si allarghi e non si riduca all’ennesimo scontro fra falsi garantisti pelosi e feroci giustizialisti. Come ne discuteremo noi così ci auguriamo che si apra una riflessione e un dibattito “alto”, come lo ha definito Galan, all’interno della maggioranza (sperando che Galan non si riveli ancora una volta solo una felice eccezione dove la normalità è rappresentata da Stracquadanio, da Quagliariello, da Gasparri e La Russa) e che lo stesso accada all’interno del PD dove non è possibile che a prevalere siano sempre le posizioni dei Tenaglia e delle Ferranti (il responsabile della giustizia nominato da Bersani non ci aveva annunciato posizioni riformatrici? Che fine ha fatto?).

Entreremo nel merito, non contraddiremo le nostre posizioni di sempre, Affronteremo i problemi che si porranno. E’ proprio necessario modificare la composizione del (anzi dei) CSM, anziché operare come avevamo proposto noi sul sistema elettorale? Come deve avvenire l’indicazione delle priorità nell’esercizio della azione penale: basta affidarlo alla legge (una volta per tutte e sull’intero territorio nazionale?) o occorre creare e prevedere altri meccanismi o meccanismi integrativi magari di compartecipazione? Ci è assolutamente chiaro che l’indipendenza che conta è quella non di un astratto e anonimo ordine giudiziario ma quella del magistrato giudicante: indipendenza da tutti, indipendenza che deve valere anche nei confronti degli orientamenti prevalenti dettati dagli organismi della propria corporazione. Uscito dal fascismo il costituente si era preoccupato di garantirne l’indipendenza soprattutto dal potere politico ed aveva ritenuto che l’autonomia della magistratura fosse funzionale all’indipendenza del giudice. Lo squilibrio che poi si è verificato dopo gli anni di piombo non può e non deve tradursi ora in un nuovo squilibrio, uguale e contrario. Non dobbiamo passare da un prepotere dei PM ad un PM “col cappello in mano” (non nei confronti dei giudici ma del e dei poteri).

Nei discuteremo. Ne discuteranno i nostri parlamentari sicuramente, se ce ne saranno le condizioni, con spirito di apertura e intenti costruttivi. Senza dimenticare tuttavia che questa riforma è una parte, solo una parte della crisi della giustizia. Senza dimenticare dunque la congerie di leggi e leggine che hanno preteso di affrontare con l’aumento delle tipologie di reato e l’inasprimento delle pene ogni problema e ogni emergenza sociale e l’effetto criminogeno che si traduce nel massacro di umanità che si consuma ogni giorno nelle carceri e negli OPG.

I buoni a nulla hanno le loro responsabilità per aver perso l’occasione offerta dall’indulto del 2006. Ma le principali responsabilità sono dei capaci di tutto di questa maggioranza che quelle leggi infami hanno concepito, voluto e imposto.

(Fonte: Notizie Radicali)

giovedì 10 marzo 2011

March 10: Global Protests Underway for Tibet

Right now, on March 10th, Tibetans and Tibet supporters are taking action for Tibet. Rallies, freedom marches, candlelight vigils, and government lobbying initiatives are taking place around the world. From Sydney to London, Dharamsala to Taipei, and in more than 100 cities worldwide, the Tibetan flag is being raised to honor this important day.


Follow the action: http://www.march10.org/

As we commemorate the 52nd anniversary of the 1959 National Uprising in Tibet, it's important to reflect on how far the movement has come – from the first days in exile, Tibetans have built a truly global freedom movement.


It's also a critical time to prepare for the future. One of the most simple yet powerful ways you can contribute to the movement is to become a sustainer of Students for a Free Tibet by joining the Rangzen Circle.

Join hundreds of others who invest in the Tibetan freedom movement every month. A Rangzen Circle membership makes a tiny dent on your wallet and a huge difference for SFT. Your monthly gift provides us with reliable long-term funding to sustain and advance the movement for a free Tibet.

Sign up today and help us reach our goal of 100 new members by Monday, March 21:


http://sft.convio.net/site/Donation2?1640.donation=form1&df_id=1640

Rangzen is the Tibetan word for freedom, and the Rangzen Circle is an intimate group of Tibetans and supporters who make an exceptional contribution to the Tibet cause by giving a monthly donation to SFT.


A Rangzen Circle membership makes a tiny dent on your wallet and a huge difference for SFT. Your monthly gift provides us with reliable long-term funding to sustain and advance the movement for a free Tibet.

 Please also watch and share SFT's March 10th video

If you are already a Rangzen Circle member, thank you. Your support means the world to us. Please take a moment to forward this message to friends and loved ones so they can join this circle of freedom.


Thank you for everything you do for Tibet,
Tendor, Kate, Mary-Kate, Tendolkar, Stefanie and Tentsetan


TOP TEN REASONS TO SUPPORT SFT

Reason 10: SFT is youth

Our base of young Tibetans and supporters know change is possible. Young people have the passion, commitment, and inexhaustible energy to work for what they believe in.

Reason 9: SFT is nonviolent

We apply nonviolence theory and practice to our activism for Tibet because we believe it's the most effective way to achieve our goal. There is no better way to fight for peace than to promote nonviolence as a weapon.

Reason 8: SFT is grassroots

We're a network of students, Tibetans, activists, professionals, artists, volunteers, and many others working at the grassroots level to mobilize people power in a way that truly changes the course of history.

Reason 7: SFT is diverse

SFT’s membership is composed of Tibetans, Americans, Europeans, Indians, Chinese, Canadians, Australians, Japanese, Taiwanese, and dozens of other nationalities with diverse cultural backgrounds and political viewpoints -- because the goal of Tibetan freedom unites everyone.

Reason 6: SFT is global

We are everywhere. With members in more than 50 countries, chapters and networks in 35 countries, and offices in 4 countries, our constituency spans the globe.

Reason 5: SFT is cutting-edge

SFT's membership and leadership is made up of the most talented innovators, strategists, and visionary techies. We use the latest information technology and social media tools to successfully execute campaigns and actions that inspire Tibetans and directly challenge China’s control over Tibet.

Reason 4: SFT is about training

We invest in the next generation of Tibetan leaders and Tibet activists through our unique leadership training programs. Our Free Tibet! Action Camps and regional trainings help young leaders hone their skills to effectively lead strategic campaigns and non-violent actions for Tibet.

Reason 3: SFT is fun

We believe in hard work and in having fun. We emphasize the importance of humor and laughter in our work, so that freedom is not merely the destination but also the journey.

Reason 2: SFT is strategic

We think and plan before we act. Our leadership has the vision, experience, and strategy to develop and execute effective campaigns and actions.

Reason 1: SFT is for an independent Tibet

Ultimately, we believe that the social, economic, environmental, and cultural interests of the Tibetan people can only be truly safeguarded if Tibet is an independent nation. We know this goal is possible and will continue to work hard every to achieve it.

martedì 8 marzo 2011

TAIWAN: ORGANI PRELEVATI DA PRIGIONIERI GIUSTIZIATI

Gli organi di tre dei cinque prigionieri giustiziati ieri a Taiwan sono stati già espiantati dagli staff medici di due ospedali, riporta la stampa locale.

I cinque prigionieri sono stati messi a morte a Taipei, Taichung e Kaohsiung verso le 18,30 di ieri, dopo che nella stessa giornata il ministro della Giustizia Tseng Yung-fu aveva firmato gli ordini di esecuzione.
In tre - Guang Chung-yen, Wang Kuo-hua e Chuang Tien-chu - prima di essere giustiziati hanno firmato l’autorizzazione per l’espianto dei loro organi.
I corpi di Wang e Chuang, che sono stati messi a morte nella Seconda Prigione di Kaohsiung, sono stati trasferiti al “Kaohsiung Chang Gung Memorial Hospital” (KCGMH) per l’espianto degli organi a beneficio di pazienti compatibili, ha scritto lo United Evening News, in lingua cinese.
Ci sono voluti meno di 15 minuti affinché l’ambulanza portasse i corpi di Wang e Chuang all’ospedale, dove erano attesi da uno staff di più di 40 operatori sanitari pronti ad eseguire gli interventi.
Alle 6,45 della mattina, il team medico guidato da Chen Chao-long, capo del KCGMH e noto esperto di trapianto di fegato, ha dato il via alla prima operazione e solo cinque ore dopo, lo stesso team ha condotto con successo un altro espianto.
Wen-chih, componente dello staff, ha dichiarato che dai due prigionieri sono stati prelevati due cuori, due fegati, due pancreas, quattro reni e quattro cornee, oltre a numerose ossa e vasi sanguigni.
Cuori e fegati sono stati immediatamente inviati via elicottero a due ospedali di Taipei City per essere trapiantati, mentre ossa e vasi sanguigni sono entrati a far parte della locale banca di organi, ha aggiunto Wang.
Nel frattempo Guang, giustiziato a Taipei, è stato inviato al “Far Eastern Memorial Hospital” di New Taipei City, dove un team di chirurghi ha rimosso cuore, reni, fegato e pancreas, verso le 9,30 della sera.
Questi organi – fa sapere l’ospedale – erano attesi da almeno sei pazienti in condizioni critiche.
Un responsabile ospedaliero del settore trapianti ha dichiarato che il regolamento non consente di rivelare ai pazienti l’origine degli organi, aggiungendo che a Taiwan ci sono ancora 7.108 pazienti in attesa di un trapianto.

(Fonte: Nessuno Tocchi Caino)