martedì 1 giugno 2010
Blitz di Israele, con morti e feriti sulla nave dei pacifisti armati di spranghe
Il nodo di Gaza - Vittorio Dan Segre: “La battaglia delle immagini”
“Fa caldo, il termometro segna già 34 gradi”. Vittorio Dan Segre, diplomatico, giornalista e autore di numerosi libri, tra cui “La metamorfosi di Israele" (Utet, 2006) cerca di sorridere, rispondendo alla domanda “Com’è l’atmosfera oggi a Gerusalemme?”. Poi però arriva il momento di addentrarsi nella valutazione dei fatti di ieri. Il giorno dopo gli scontri a bordo della nave turca Mavi Marmara, ammiraglia della Freedom Flotilla, lo scenario non si è placato. La comunità internazionale e i giornali esprimono condanne durissime nei confronti di Israele, con poche voci fuori dal coro. Il primo ministro Netanyahu rimanda l’incontro con Barak Obama e rientra a Gerusalemme. Le relazioni tra Israele e Turchia sembrano aver raggiunto il punto più basso.
Professor Segre, cosa si dice in Israele di quello che è accaduto?
Il sentimento prevalente è la grande ammirazione per i ragazzi di 18 o 20 anni che sono stati chiamati a compiere questa operazione, mandandoli allo sbaraglio. Hanno rischiato il linciaggio e sono stati straordinari.
Quindi lei pensa che l’errore non sia stato materialmente dei soldati che erano a bordo delle navi, ma dei vertici politici e militari?
Bisogna dire che fermare quei traghetti che, con la scusa degli aiuti umanitari, trasportavano terroristi per supportare altri terroristi, era necessario. Però penso si potesse evitare che succedesse quello che è accaduto. Per esempio portare una nave di pompieri, che con gli idranti disperdesse la folla. Così i soldati israeliani dall’elicottero si sarebbero calati su un ponte vuoto, non in mezzo a un gruppo di gente pronta a massacrarli a bastonate, e non solo, come si è visto dalle immagini. A quel punto i soldati non potevano fare altro che difendersi. Non voglio esprimermi su responsabilità dei vertici politici e militari, ma diciamo che se si fosse trattato del mio reggimento, 60 anni fa, avrei pensato che gli ordini erano stati dati molto male.
Quali pensa che saranno le conseguenze dal punto di vista dei rapporti di Israele con la comunità internazionale?
Purtroppo quando vengono diffuse notizie come quelle di ieri, è difficile pensare che le opinioni pubbliche non prendano le parti di quelli che appaiono come civili innocenti, colpiti mentre agivano con le migliori intenzioni. La realtà è molto diversa, ma non si vede, far passare il messaggio è complesso. Questa era una spedizione di aiuti aggressivi, mascherati da soccorsi umanitari, una chiara provocazione. Non si pensa al fatto che se a Gaza non c’è crisi alimentare, è perché lo stesso Stato d’Israele manda ogni giorno tonnellate di cibo e medicine, per non far pagare alla popolazione le follie del regime di Hamas. Non si comprende in Europa il pericolo di un Islam radicale e aggressivo che si rafforza sempre di più, né il ruolo di Israele come primo difensore dei valori occidentali. Temo che vincere la battaglia delle immagini sia impossibile.
Parlando di Islam radicale, anche in Turchia, fino a qualche anno fa un paese musulmano secolarizzato e uno dei più importanti alleati di Israele, sembra essersi avviato un processo di radicalizzazione.
Io non penso che in Turchia stia prendendo piede l’Islam estremista. Semplicemente l’attuale governo ha compreso i vantaggi politici, ma anche commerciali, che una politica ostile nei confronti di Israele crea nei rapporti con i paesi dell’area, Iran in testa. A farne le spese sono le relazioni con lo Stato ebraico che da tre anni a questa parte sono in costante deterioramento. Se si arriverà a una rottura definitiva però non so dirlo.
Lo Stato d’Israele ha dimostrato in molte occasioni che nelle sue strategie militari, ma anche politiche, il danno d’immagine non viene preso in particolare considerazione.
Secondo lei sarebbe necessario cambiare tattica da questo punto di vista, oppure è giusto che prevalgano altre esigenze?
Se posso fare un gioco di parole, direi che la politica dell’attuale governo, si è rivelata, in troppi casi, poco politica. Considerando anche l’isolamento a cui Israele rischia di andare incontro, direi che un po’ di saggezza e prudenza in più, sarebbero auspicabili.
Rossella Tercatin
Il nodo di Gaza - Dalla stampa israeliana dure accuse al governo
Fallimento, disastro, fiasco sono parole ricorrenti sulle odierne pagine dei giornali israeliani riguardo allo scontro di lunedì mattina fra le forze di difesa di Israele e gli attivisti di Freedom Flottilla. I punti di vista sono molteplici, spesso contrastanti ma su una cosa esperti e analisti concordano: non doveva finire in questo modo. Un’affermazione che sembra retorica quando si parla di vittime, morti e feriti ma che nasconde un problema molto complesso: il futuro di Israele e la sua legittimazione a usare la forza.
Dalle colonne del moderato popolare Yediot Ahronot arriva la critica di Eitan Haber, noto giornalista israeliano ed esperto in questioni militari, che scrive “Israele ha sempre una sola soluzione a ogni problema: la forza, l'esercito, l'IDF. Ci saranno quelli che diranno ‘lo stato non deve esitare. Ora avranno ancora più paura di noi’. Chi pensa in questo modo e chi cede a questa tentazione vive in un epoca passata; conviene che si svegli da questi sogni devianti. Noi viviamo nel 2010 e la risposta dell’esercito di ieri mattina appartiene al secolo scorso”.
Una visione diametralmente opposta è, invece, quella del caporedattore del Jerusalem Post, Caroline Glick, che rimprovera al governo israeliano di non aver capito a priori la situazione internazionale: una continua campagna mediatica anti-israeliana sfociata, per esempio, nella risoluzione Onu contro la proliferazione di armi nucleari. “C’è un fallimento cognitivo - scrive la Glick - da parte dei nostri leader nel comprendere la natura della guerra condotta contro di noi. Ed è questo errore fondamentale di conoscenza che ha portato sei soldati in ospedale e la riduzione in brandelli della reputazione internazionale dello stato ebraico”. La giornalista del Jerusalem parla di Israele come “il bersaglio di una guerra di informazione di massa, senza precedenti per scala e scopo”. Il clima creato dai media e da alcuni governi sarebbe, secondo la Glick, il vero problema da analizzare: starebbe crescendo a dismisura, infatti, un movimento per delegittimare Israele e la sua possibilità di difendersi.
Amos Harel, noto esperto militare del quotidiano Haaretz, tradizionalmente il più critico nei confronti dell'attuale esecutivo, condanna non la risposta armata del commando alle violenze degli attivisti, ma la modalità con cui è stata portata avanti l’operazione. “L'inferiorità numerica dei commando israeliani - scrive Harel - ha causato un grave pericolo per tutti i soldati, portando a quell’inizio di linciaggio da cui poi è nata la risposta armata dell’esercito. Il risultato, in ogni caso, è stato orribile: alcuni civili sono stati uccisi e i manifestanti hanno lanciato un soldato dal piano superiore al piano inferiore. Non sono solo filmati terrificanti, è un umiliazione nazionale e un colpo alla deterrenza israeliana. La domanda è: perché i soldati sono stati messi in questa situazione?”.
D’accordo con Harel, il commentatore Avi Trengo di Yediot Ahronot che punta il dito contro il ministro alla Difesa Ehud Barak e sarcastico domanda “che cosa si aspettava Barack? Pensava di poter avere tutta la torta e poterla mangiare indisturbato?”. Il problema, secondo Trengo, è stato tutto il comportamento tenuto nell’ultimo periodo da Barak, ovvero troppo sensibile: “Israele sta perdendo il suo potere deterrente, le truppe israeliane sono percepite come deboli, e quando incontrano difficoltà reale la risposta immediata è l'utilizzo della violenza che ci fa guardare male dal mondo intero. Ma - continua Trengo - quello che sembra brutalità e stupidità israeliana ha implicazioni strategiche: crea una situazione in cui Israele non sarebbe in grado di usare la sua forza in modo efficace. Nel lungo periodo, è una ricetta per il disastro nazionale”.
“Da adesso in poi sarà sempre più dura” aggiunge sul Jerusalem Post l'analista politico Gil Hoffman “anche se l’IDF aveva il pieno diritto di salire a bordo della nave nel momento in cui lo ha fatto e di aprire il fuoco nel momento in cui l’ha fatto, tutto ciò non ha importanza. Perché la percezione è più importante della realtà. E la realtà adesso è che Israele affronta un periodo molto difficile”. Il futuro sembra preoccupare molto il principale corrispondente politico del Jpost “i negoziati preliminari – sostiene Hoffmann - con i palestinesi potrebbero fermarsi, i rapporti fra Israele e Turchia potrebbero essere caduti in una crisi irreparabile, e il mare calmo in cui molti israeliani
pensavano di navigare si sta trasformando in una tempesta che non si quieterà tanto presto”.
Daniel Reichel
Il nodo di Gaza - Un dramma senza fine
Non passa giorno che non se ne parli, e molto spesso a sproposito. La Striscia di Gaza, il piccolo territorio (appena 360 chilometri quadrati di estensione) situato tra Israele ed Egitto, è uno dei principali nodi da sciogliere per una risoluzione positiva del drammatico conflitto mediorientale. Nella Striscia, che prende il nome dalla città più popolosa nonché capitale Gaza City, vivono circa un milione e mezzo di persone (oltre il 99 per cento di religione musulmana), in larga maggioranza profughi o discendenti dei profughi palestinesi emigrati da Israele durante e dopo la guerra arabo - israeliana del 1948. Nonostante dal 2007 sia di fatto nelle mani di Hamas (che vi tiene come ostaggio il caporale di Tzahal Gilad Shalit), la Striscia di Gaza non è riconosciuta come uno Stato sovrano. Prima di Hamas, al suo governo si sono succeduti Egitto (dal 1948 al 1967) e Israele (dal 1967 al 2005, con diversi gradi di controllo). A seguito degli Accordi di Oslo firmati da Israele e dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) nel 1994, Israele mantiene il controllo militare dello spazio aereo, delle frontiere terrestri e delle acque territoriali. La Striscia è circondata da una barriera di sicurezza che al confine con l’Egitto diventa un muro, che spesso viene eluso senza grandi problemi: centinaia di tunnel sotterranei che corrono lungo i quindici chilometri del confine tra Gaza e Egitto costituiscono una ricca forte di reddito per i signori del contrabbando di armi egiziani e per i capi di Hamas.
È il 22 settembre 1948, quando al termine del conflitto arabo-israeliano la Lega Araba proclama il primo governo palestinese a Gaza City. Dopo la fine delle ostilità tra Israele ed Egitto (che aveva invaso l’area di Gaza da sud), l’armistizio del febbraio 1949 stabilisce i confini della Striscia. In breve tempo la popolazione aumenta in misura esponenziale a seguito del massiccio afflusso di profughi palestinesi provenienti da Israele. Gli egiziani resteranno ininterrottamente a Gaza fino al 1967, fatta eccezione per i quattro mesi di occupazione israeliana nel 1956 a seguito della Crisi di Suez. Gli israeliani tornano in pianta stabile a partire dal giugno del 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni. Nasce il primo insediamento israeliano a Gaza: Gush Katif. In breve gli insediamenti nella Striscia diventano 21. Nel 1979 Israele ed Egitto firmano un trattato di pace: il governo del paese arabo rinuncia a qualsiasi rivendicazione territoriale. La Striscia di Gaza rimane sotto amministrazione militare israeliana fino al maggio del 1994 quando, a seguito degli Accordi di Oslo, si verifica un graduale trasferimento di potere ai palestinesi. Gaza City diventa la prima sede provinciale della Autorità Nazionale Palestinese di Yasser Arafat. Con la leadership di Arafat la Striscia è messa in ginocchio da mala gestione e da numerosi casi di corruzione: esplode lo scandalo delle tangenti esorbitanti richieste per consentire il passaggio delle merci da Gaza. Nel settembre del 2000 scoppia la seconda Intifada. Il lancio di razzi e bombe da parte di guerriglieri palestinesi asserragliati nella Striscia verso le città israeliane situate nei pressi del confine è causa di fortissime tensioni, che si protraggono negli anni. Nel febbraio del 2005 il governo israeliano vota per un piano di disimpegno unilaterale da Gaza. Il piano viene completato a metà settembre. Gli insediamenti e le basi militari israeliane nella Striscia vengono smantellate e 9.000 coloni sono evacuati non senza problemi di ordine pubblico. Arriva il nuovo anno e per i palestinesi è tempo di andare al voto: alle elezioni parlamentari del 25 gennaio 2006 il partito fondamentalista Hamas stravince ottenenso 74 seggi su 132. Il governo israeliano e gli attori chiave della politica internazionale manifestano apertamente il proprio disappunto e minacciano sanzioni di vario tipo. Disordine politico e stagnazione economica portano molti palestinesi a emigrare dalla Striscia verso altri paesi. La situazione precipita e si arriva alla resa dei conti tra le due principali forze politiche palestinesi: nel gennaio 2007 scoppia la guerra civile tra Hamas e Fatah per il controllo di Gaza. La causa scatenante è l’assassinio del generale Muhammad Gharib, un alto comandante del Fatah, e della sua famiglia da parte di miliziani di Hamas. Dopo una serie di scontri viene raggiunta una tregua. Ma dura poco: i combattimenti proseguono fino al giugno dello stesso anno, quando Hamas ottiene il controllo della Striscia. Anche una parte del mondo arabo fa la voce grossa: Egitto, Giordania e Arabia Saudita sostengono che il leader del Fatah Abu Mazen sia l’unico politico legittimato a formare un governo. La Striscia è sempre più isolata, sia dal punto di vista diplomatico che economico. Pochi amici, tra cui spiccano l’impresentabile Ahmadinejad e altri personaggi assai discutibili. Anche se delegazioni diplomatiche di Hamas si recano spesso in Russia e in altri paesi europei per cercare appoggio e legittimazione. Il 23 gennaio del 2008, dopo mesi di preparazione, militanti di Hamas distruggono una parte del muro che divide Gaza e Egitto. Migliaia di palestinesi attraversano il confine in cerca di cibo e rifornimenti. Il presidente egiziano Hosni Mubarak ordina alle truppe di permettere il passaggio ai palestinesi in ma chiede di verificare che rientrando a Gaza non portino con sé armamenti di alcun tipo. Dopo violenti scontri tra esercito egiziano e guerriglieri di Hamas, il confine viene chiuso. Nel frattempo tornano ad essere lanciati razzi verso le città israeliane: nel febbraio del 2008 il conflitto tra israeliani e palestinesi si intensifica. Il 14 novembre Gaza viene bloccata. Dopo un periodo di 24 ore in cui non sono lanciati razzi o esplosi colpi di mortaio, i soldati di Tzahal facilitano il trasferimento nella Striscia di oltre 30 camion carichi di cibo, forniture di base e medicinali. Ma anche in questo caso la tregua dura poco: i qassam tornano a cadere su Sderot, Gaza torna ad essere isolata. Si arriva così al 27 dicembre 2008: da gennaio 3000 razzi sono stati lanciati verso il territorio israeliano. Il governo di Gerusalemme decide di reagire e di lanciare un segnale forte ad Hamas. Ha inizio l’operazione Piombo Fuso. L’esercito attacca numerosi obiettivi militari, centrando varie basi terroristiche. Le truppe entrano nella periferia di Gaza City e l'apparato di Hamas viene decimato, ma se si registrano ingenti perdite anche tra i civili. Le stime, dopo 22 giorni di combattimento, parlano di centinaia e centinaia di morti da ambo le parti. Cessate le ostilità, il blocco israeliano continua anche dopo la fine della guerra. Anche se è permesso il trasferimento nella Striscia, previo controllo delle autorità preposte, di medicinali e aiuti umanitari.
Adam Smulevich
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