giovedì 30 ottobre 2008

Gli opposti


Perché tutti parlano della morte come fosse l'opposto della vita.

La morte è piuttosto l'opposto della nascita.

Vittorio Dan Segre, pensionato

mercoledì 29 ottobre 2008

Resistenza


Tornano in aula dopo 70 anni i ragazzi della scuola del coraggio


Settant’anni dopo sono tornati nelle aule che li avevano visti bambini e ragazzi negli anni bui delle leggi razziali. Gli alunni che frequentarono la scuola ebraica di Trieste fra il 1938 e l’estate del 1943 si sono dati appuntamento domenica 26/10 in un incontro organizzato dalla Comunità ebraica e da un gruppo di ex allievi per ricordare i 70 anni della fondazione della scuola media ebraica che vide la luce proprio per accogliere i ragazzi espulsi dagli istituti pubblici (quella elementare era in funzione già da fine Settecento).In sala, insieme a figli e nipoti, si sono ritrovati oltre un centinaio di studenti e insegnanti d’allora. Uomini e donne tra i 70 e i 95 anni, molti da tempo residenti in Israele, sorretti da una tempra e un’energia invidiabili. Testimoni di un’epoca drammatica che mai hanno cessato di piangere le loro famiglie perite nella Shoah. Ma che rifiutano di ripiegarsi nel lamento o nella recriminazione per rivendicare invece la stringente attualità della loro memoria e la bellezza, quasi incredibile, dei loro anni di scuola.


“Negli anni della discriminazione razziale la scuola ebraica è stata per gli alunni un’isola di serenità e di spensieratezza – spiega Mauro Tabor assessore alla cultura della Comunità ebraica di Trieste – Attraverso l’educazione e lo studio la Comunità ha cercato di proteggere i suoi giovani e ha tentato di dare loro una speranza proprio nel momento in cui la società gliela stava togliendo e si preparava la tragedia della Shoah”. Il futuro aveva in serbo per quei bambini vicende di fuga, di persecuzione e di morte. Ma tra le mura dell’antico edificio di via del Monte, l’erta ripida cantata dal poeta Umberto Saba, la storia sembra per qualche anno vivere una straordinaria battuta d’arresto.Le fotografie di allora, affisse in sala e proposte qualche anno fa in una bella mostra intitolata “L’educazione spezzata” realizzata dalla Comunità triestina, parlano infatti di recite in costume, di riunioni festose, di gite d’istruzione. Il clima minaccioso dei tempi non rimane inavvertito. Alcuni ex alunni ricordano infatti il bidello Israel che li accompagnava a casa dopo le lezioni per evitare le aggressioni fasciste. Qualcun altro racconta di visite ministeriali che richiedevano l’obbligo della divisa da figlio della lupa e della preoccupazione crescente dei genitori davanti alla discriminazione. Ma nel ricordo di tutti prevale la gioia della giovinezza e di quel tempo trascorso con i compagni.


“L’atmosfera era bellissima – racconta Claudia Volli, classe 1925 – La scuola ebraica era come una famiglia, sono stati anni sereni. Durante gli intervalli ci incontravamo e dopo la scuola andavamo in gita, organizzavamo feste, c’erano flirt e coppiette”. “La cacciata dalle scuole pubbliche minacciò di toglierci il futuro – dice Bruna Schreiber - La scuola ebraica in parte riuscì a restituircelo attraverso la routine quotidiana dei compiti, delle interrogazioni, dello studio”.A questo clima contribuirono in maniera decisiva l’impegno e il carisma degli insegnanti (due di loro, il professor Giulio Levi Castellini e il professor Fabio Suadi) hanno preso parte all’incontro. Anch’essi allontanati dagli istituti pubblici, si dedicarono infatti al loro lavoro con professionalità ed estrema dedizione. I loro alunni serbano ancora nel cuore le loro parole e il loro insegnamento. “Prima delle leggi razziali – racconta Sergio Sacerdoti, 77 anni – frequentavo la prima elementare nella scuola pubblica. Dalla seconda sono dovuto passare alla scuola ebraica. Allora non capivo bene che differenza ci fosse. Poi mi sono reso conto di quanto ha contribuito a radicarmi dentro l’ebraismo”.La cultura, lo studio, i libri. Sono parole che tornano in modo quasi ossessivo nel racconto dei ragazzi che allora che vissero sulla propria pelle l’esclusione dalla società civile.


“Con l’espulsione dalle scuole le leggi razziali toccavano un punto esiziale – dice Enzio Volli – Si proibiva l’educazione dei ragazzi ebrei e la loro possibilità di essere eguali agli altri cittadini. Ma il popolo che attraverso il libro ha preservato la sua identità, la tradizione, la lingua, non poteva non reagire a quest’esclusione”. “Per questo – continua - la Comunità ebraica di Trieste volle farsi carico della scuola: perché solo attraverso l’educazione si poteva crescere e trasmettere il testimone dall’una all’altra generazione. Così è stato. E questo è molto più importante del ricordo e della testimonianza”.“Basta piangere sul passato, mi disse Elie Wiesel anni fa, dobbiamo incontrare i giovani e a dialogare con loro”, racconta Claudia Volli. Ma non per piangere, non per lamentarsi: per parlare del futuro che, concordano gli ex ragazzi che si videro privati del diritto all’educazione, anche oggi può passare solo attraverso lo studio, l’istruzione, la crescita culturale.


“Settant’anni fa i nostri padri e i nostri nonni risposero alla barbarie delle leggi razziali con l’apertura della scuola ebraica che accolse tutti gli allievi espulsi dalle scuole pubbliche – conclude Andrea Mariani, presidente della Comunità ebraica di Trieste - Alla discriminazione e all’esclusione sancita dal fascismo vollero così opporre i valori ebraici della cultura, dello studio, dell’educazione dei più giovani. Proprio quest’insegnamento deve oggi essere per noi un monito e un’indicazione sulla via da percorrere. Solo ripensando e approfondendo costantemente quei valori potremo infatti vivere un ebraismo più autentico e formare le nuove generazioni”.


Daniela Gross

Barbarie


Somalia: lapidata adultera, un parente la aiuta e nel conflitto a fuoco muore bimbo


Sentenza eseguita dalle Corti islamiche. Ma per i familiari non ha ricevuto un processo coranico equo


CHISIMAIO (SOMALIA) - Miliziani somali fedeli alle deposte Corti islamiche hanno giustiziato in pubblico una giovane donna accusata di adulterio, ricorrendo all'arcaico e macabro metodo della lapidazione: lo hanno denunciato testimoni oculari, secondo cui l'esecuzione è avvenuta nella tarda serata di lunedì a Chisimaio, città portuale situata circa 520 chilometri a sud-ovest di Mogadiscio, davanti a centinaia di spettatori, molti dei quali costretti ad assistervi, parenti della vittima compresi.
LA VITTIMA - La ragazza si chiamava Asha Ibrahim Dhuhulow e aveva 23 anni; tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, è stata condotta sul luogo del supplizio a bordo di un furgone per poi essere massacrata. Ai presenti è stato detto che lei stessa aveva riconosciuto la propria colpa, e accettato il suo crudele destino: ma, al momento di essere trucidata, si è messa a urlare e a divincolarsi, mentre i carnefici la immobilizzavano legandole mani e piedi. A quel punto un congiunto le è corso incontro, tentando di aiutarla, ma gli integralisti di guardia hanno aperto il fuoco per fermarlo, e hanno ucciso un bambino. Secondo i familiari, Asha non ha ricevuto un processo coranico equo: «L'Islam», ha ricordato uno di loro, «non permette che una donna sia messa a morte per adulterio se non sono presentati pubblicamente l'uomo con cui ha avuto rapporti sessuali e quattro testimoni del fatto». I giudici fondamentalisti si sono però limitati a replicare che puniranno in maniera adeguata la guardia responsabile della morte del bimbo. È il primo episodio del genere di cui si abbia notizia in Somalia da due anni: da prima cioè che, alla fine del 2006, le truppe del governo transitorio di Mogadiscio sconfiggessero le Corti islamiche con il determinante appoggio militare dell'Etiopia. I ribelli hanno però intrapreso una guerriglia difficile da contrastare, e lo scorso agosto si sono reimpadroniti di Chisimaio, reimponendovi leggi ispirate alla più vieta concezione dell'Islam; in città, per esempio, è proibita qualsiasi forma di svago perchè considerata blasfema.
28 ottobre 2008
(Fonte: Corriere della Sera)

martedì 28 ottobre 2008

Il coraggio di vivere, il coraggio di lottare


Niger: ex schiava vince la causa contro il governo



Hadijatu Mani, 24 anni, ex schiava ed ora eroina di migliaia di persone. Potrebbe essere presentata così la giovane Hadijatu Mani che è ruscita in una storica impresa: vincere una causa sulla schiavitù contro il suo governo, quello del Niger
Nonostante la schiavitù in tutto il bacino dell'Africa occidentale rappresenti un reato da oramai molto tempo, secondo i dati delle Ong contro la schiavitù, sono oltre 40.000 gli schiavi solo nel territorio del Niger. E fino a poco tempo fa Mani era una di loro. Venduta a dodici anni per 500 dollari, Hadijatu Mani è stata stuprata più volte e costretta a lavori domestici e agricoli per oltre dieci anni. Poi la decisione di denuciare il Governo del proprio paese.Sostenuta dalle Organizzazioni non Governative la ventiquattrenne ha puntato il dito contro lo stato del Niger accusandolo di non averla protetta dalla schiavitù. La richiesta di Hadijatu Mani era di 50 milioni di franchi Cfa, cioè 77.242 euro. La sentenza emessa pochi giorni fa da parte del Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale parla chiaro: Mani è stata riconosciuta "vittima di schiavitù" mentre il governo del Niger è stato condannato come "responsabile dell'inerzia dei suoi servizi amministrativi e giudiziari." Insomma, condannato per essersene stato con le mani in mano. Il risarcimento che spetterà dunque a Hadijatu Manisarà è "solo" di 10 milioni (15.448 euro) e la sentenza avrà valore vincolante per tutti gli stati membri dell'Ecowas (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d'Avorio, Gambia, Ghana, Libia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo).

lunedì 27 ottobre 2008

Nazisti in erba


Due skinheads volevano uccidere Obama

Complotto sventato da agenti federali

Lo rivela la Fox: bloccato dagli agenti federali un piano a sfondo razziale.

«Due neonazisti di 18 e 20 anni volevano sparargli o decapitarlo»

WASHINGTON - Un complotto per assassinare il candidato presidente degli Stati Uniti Barack Obama e uccidere (sparando o anche decapitandoli) afroamericani in Tennessee, messo a punto da due presunti neo-Nazisti «skinheads», è stato sventato da investigatori federali americani. Ne dà notizia il network televisivo FoxNews.


IL COMPLOTTO - Il piano dei neonazisti, secondo le informazioni diffuse da alcuni media americani, sarebbe stato scoperto in un'inchiesta in Tennessee e Arkansas della Atf, l'agenzia federale americana che si occupa di lotta a traffici di armi, esplosivo, alcol e tabacco, una divisione del dipartimento americano di Giustizia che ha il compito di prevenire reati federali commessi con armi da fuoco o esplosivi e combatte il contrabbando di alcol e tabacco. Nel mirino ci sarebbero stati studenti neri, ma il massacro doveva estendersi poi su scala nazionale e raggiungere, come obiettivo finale, il candidato dei democratici alla Casa Bianca.


GLI ARRESTATI - Si tratta di due ragazzi del Tennessee, Daniel Cowart di 20 anni e Paul Schlesselman di 18. Sono stati arrestati con l’accusa di possesso illegale di fucili a canne mozze. Ma in mente avevano un reato ben più grave: volevano uccidere il candidato alla Casa Bianca Barack Obama, sparandogli o decapitandolo nel corso di un comizio in una scuola nei pressi di Memphis. I due sospetti, entrambi skinhead e neonazisti, avrebbero aperto il fuoco anche contro gli studenti della scuola, frequentata soprattutto da ragazzi afroamericani.


IL PIANO - I due neonaziati, secondo documenti processuali, avrebbero voluto uccidere 102 afroamericani, in una riedizione del massacro di Columbine, ma questa volta con marcato sfondo razzista. I sospetti avrebbero voluto uccidere 88 afroamericani a colpi di arma da fuoco e decapitarne altri 14. I numeri 88 e 14 hanno una valenza simbolica per i fautori della supremazia della razza bianca. Gli agenti non hanno indicato in quale scuola superiore sarebbe dovuto avvenire il massacro, ma hanno indicato che l’obiettivo finale dei ragazzi sarebbe stato Obama.


PER PROCURATORE ACCUSE SERIE - Le accuse contro i due giovani arrestati con l'accusa di aver complottato per uccidere il candidato presidente Barack Obama «sono serie e saranno trattate come tali»: lo afferma il procuratore distrettuale del Tennessee occidentale Lawrence Laurenzi, in un comunicato con il quale le autorità americane hanno confermato le indiscrezioni dei media sugli arresti. I due arrestati, Daniel Cowart e Paul Schlesselman, secondo gli investigatori erano entrati in contatto tra loro via Internet attraverso una conoscenza comune e risultano avere «una forte convinzione riguardo alla filosofia del «Potere Bianco» e «Skinhead». La loro intenzione, secondo l'accusa, era di compiere una raffica di omicidi - dopo aver svaligiato un negozio d'armi - che doveva concludersi con l'uccisione di Obama, un gesto per cui «hanno dichiarato che erano pronti a morire».


27 ottobre 2008
(Fonte: http://www.corriere.it/ )

(Nella foto: Daniel Cowart)

Lo spirito dei tempi


Quei nani contro il gigante Kundera



di BERNARD-HENRI LÉVY

27-10-2008


N on m'importa sapere se Milan Kundera è il giovane che, il 14 marzo 1950, si è presentato in un commissariato di Praga per denunciare un compagno d'università. Intanto, non ci credo. Francamente, non immagino l'autore di Amori ridicoli, se pur in un'altra vita, se pur nella sua preistoria, nel ruolo di delatore. Del resto tutto, in questa vicenda, ha il pessimo odore di una manipolazione grossolana: l'autenticità del documento esibito, che non è stata per niente accertata; il fatto che tale documento abbia tranquillamente dormito negli archivi della polizia cèca fino alla vigilia, guarda caso, dell'attribuzione del premio Nobel; lo strano atteggiamento, dunque, di una polizia che si sarebbe privata, quand'era onnipotente, di utilizzare questa terribile arma contro uno dei suoi avversari più visibili, e più imbarazzanti. In realtà, il problema non è questo. Non si tratta, non dovrebbe trattarsi, di disquisire su quei deficienti ai quali è bastato che si sventolasse sotto il loro naso un pezzo di carta con i caratteri tipografici «dell'epoca » perché se ne impadronissero e lo considerassero vangelo. Il problema è nella sollecitudine. Nell'agitazione febbrile dei giornali che, in tutto il mondo, si sono precipitati sulla magnifica occasione di andare a cercare uno scrittore che, molto spesso, non avevano trovato il tempo di leggere davvero; di prenderlo per il bavero e, al termine di un processo sommario, di addossargli una di quelle imputazioni retroattive che hanno sempre avuto la virtù di riempirli di gioia. Il problema, quello vero, è la loro gioia, l'entusiasmo, il compiacimento nella calunnia. Il problema è il piacere voluttuoso che si è percepito nella penna di tanti cronisti alla sola idea che uno dei più grandi scrittori viventi sia potuto essere, anche lui, un miserabile, un delatore, un imbroglione. Il problema è l'esultanza, ancora più oscena, che si è percepita nelle rare persone che di lui comunque avevano letto qualcosa e che hanno avuto la sensazione, all'improvviso, di aver trovato la chiave che faceva loro difetto, il pezzo mancante del puzzle, la ragione ultima e per forza decisiva perché nascosta, di quel testo di gioventù, di quella pagina rimasta enigmatica di un romanzo della maturità o, meglio, di certe particolarità biografiche che le innervosivano da così tanto tempo e che bruscamente trovavano la loro umana, troppo umana, spiegazione: il suo esilio, per esempio, la sua reticenza ad aderire, dopo l'esilio, a una qualsiasi parola d'ordine, comprese quelle della dissidenza… la scelta sospetta di scrivere in francese… il modo, quando tornava nel proprio Paese, di presentarsi in albergo sotto falso nome… il suo rifiuto delle interviste… Insomma, avrebbe dovuto dare l'allarme questo suo rifiuto di abbandonarsi anima e corpo alla curiosità, all'esigenza di verità e di trasparenza, alla volontà d'indiscrezione, che sono diventati il principio di quella che, al giorno d'oggi, viene chiamata intervista allo scrittore… e avrebbe dovuto mettere in guardia la sua mania, quando alla fine concedeva un'intervista, di riscriverla completamente, da cima a fondo, parola per parola: ma per cancellare cosa, santo cielo? Per neutralizzare quale oscuro, quale tenebroso segreto? Ebbene, ecco… adesso sappiamo… abbiamo capito, finalmente. Ah, che uomo malvagio! Che farabutto brillante! Grazie mille agli archivi della nobile polizia staliniana che ci hanno aiutato a veder chiaro… Un grande applauso al paziente lavoro della polizia del pensiero che ha saputo stanare la preziosa prova del reato, la lettera scarlatta, il processo verbale in cui nessuno sperava più… tutto accade… basta essere pazienti… si respira. Penso a Milan Kundera. Penso, sebbene non lo conosca molto, alla prostrazione che deve provare un gigante delle Lettere che vede spuntare, al tramonto della propria vita, una muta di nani carichi d'odio che pretendono di strappargli la maschera per potergli meglio sputare in faccia. Penso alla collera fredda ma impotente, alle parole che non servono a niente, ai comunicati stampa che bisogna pur fare, ma che, lo si sente, servono solo a darsi la zappa sui piedi. Penso al balletto ben noto della guerra letteraria dove si sa in anticipo che non ci sarà un secondo colpo, mai, e che, quando una rivista — che per una supplementare ironia della sorte ha la faccia tosta di chiamarsi Respekt — ha deciso di saldare un conto con te e di distruggerti, non hai altra risorsa se non quella di incassare, chiuderti in te stesso e decidere di vivere, per il resto dei tuoi giorni, con un'ombra infame che nemmeno è la tua. Ma penso anche all' epoca, stavolta la nostra, che rende possibili simili imprese. Osservo quest'epoca abietta che del «divieto di ammirare» ha fatto il proprio slogan più sonoro e dove regnano spirito di vendetta, risentimento, odio infantile verso gli scrittori e, al di là, verso tutto ciò che è grande. E mi dico che il nostro spirito del tempo è ben triste se si vanta della sua attitudine a criminalizzare, squalificare, sporcare quello che non capisce e lo sorpassa. Per fortuna, ci sono i libri, che sopravvivono — è un'altra legge — agli scorpioni della delazione generalizzata. (traduzione di Daniela Maggioni

(Fonte: Corriere della Sera)

domenica 26 ottobre 2008

Bucarest, profanato il cimitero ebraico


Bucarest, 24 ottobre 2008


Almeno 131 pietre tombali sono state divelte tra mercoledì e venerdì notte nel cimitero ebraico di Bucarest. La notizia arriva dalla Federazione delle comunità ebraiche di Romania e dalla Comunità degli ebrei di Romania secondo cui i danni ammonterebbero a 2 milioni e mezzo di lei (circa 700.000 euro). Oltre a distruggere le tombe i vandali hanno devastato anche gli uffici amministrativi. Le due organizzazioni ebraiche hanno espresso "amarezza e indignazione che simili fatti accadono oggi, in una Romania democratica rinata dopo la rivoluzione del dicembre 1989". La polizia ha avviato un'indagine mentre il Ministero della giustizia ha condannato le manifestazioni antisemite, xenofobe e razziste.


( Nella foto: Alcune lapidi profanate del cimitero ebraico di Bucarest)

venerdì 24 ottobre 2008

Dimensione etica



"Falso che non esista una 'dimensione etica' nella e della scienza". Una risposta a Benedetto XVI
Un documento dei professori Gilberto Corbellini, Giulio Cossu, Piergiorgio Strata e altri 44 professori universitari

Relativamente alle affermazioni di Benedetto XVI sulla scienza del 16 ottobre 2008 (riportate in fondo a questo comunicato), i professori Gilberto Corbellini, Piergiorgio Strata e Giulio Cossu anche come dirigenti dell'Associazione Luca Coscioni hanno rilasciato la seguente dichiarazione sottoscritta, in poche ore, da altri 44 professori:

"E' falso che non esista una "dimensione etica" nella e della scienza. Come diceva Jacques Monod, esiste un'etica della conoscenza scientifica che, da Galileo in poi, coincide con il rispetto del postulato dell'oggettività. Gli scienziati comunicano sulla base di questa norma, a differenza del Vaticano che basa una serie di questioni cosiddette "eticamente rilevanti" su dogmi imposti per fede anche a chi detta fede non abbraccia.

Non solo. La ricerca scientifica, oltre ad essere portatrice di un'etica di libertà, responsabilità e conoscenza e ad essere responsabile del triplicarsi delle aspettative di vita media, ci aiuta oggi a capire meglio perché siamo "persone morali", cioè quali ragioni e fenomeni siano alla base, ad esempio, dell'altruismo e dell'empatia, oppure in quali condizioni siamo più disponibili a fornire solidarietà al prossimo. Tutto quanto di nuovo i ricercatori stanno scoprendo su questo fronte fa riferimento diretto a una teoria scientifica sulla quale è di nuovo il Vaticano e il suo Magistero a manifestare perplessità e resistenze: la teoria darwiniana dell'evoluzione.

Quanto poi al riferimento dei facili guadagni sarebbe utile che il Vaticano prendesse accurata visione dei salari dei dottorati di ricerca italiani che spingono sulla soglia della povertà chi decide di scegliere la scienza come proprio lavoro".

Gilberto Corbellini, co-Presidente dell'Associazione Luca Coscioni, Professore ordinario di Storia della Medicina, Università di Roma La SapienzaPiergiorgio Strata, co-Presidente dell'Associazione Luca Coscioni, Professore ordinario di Neurologia, Università di TorinoGiulio Cossu, consigliere generale dell'Associazione Luca Coscioni, Professore ordinario di Embriologia e Istologia medica, Università di Milano

Hanno sottoscritto la dichiarazione
1. Anna Laura Baldini, Ricercatore di Chimica generale e inorganica, Università di Milano
2. Giovanni Berlucchi, Professore Ordinario di Fisiologia, Università di Verona
3. Elena Brambilla, Professoressa Ordinaria di Storia moderna, Univeristà di Milano
4. Paola Bruni, Professore ordinario di Biochimica, Università di Firenze
5. Antonio Cardone, Professore Ordinario di Economia, Università di Salerno
6. Elena Cattaneo, Professore Ordinario e Direttore del Centro Ricerche sulle Cellule
Staminali, Università di Milano
7. Diego Centoze, Ricercatore di Neurologia, Università di Roma Tor Vergata
8. Orio Ciferri, Professore emerito, Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali,
Università di Pavia
9. Giorgio Coen, Professore associato di Nefrologia, Università di Roma la sapienza
10. Paolo S. D'Aquila, Ricercatore di Farmacologia, Dipartimento di Scienze del Farmaco,
università di Sassari
11. Roberto Defez, Ricercatore biotecnologico, Istituto di Genetica e Biofisica "A. Buzzati
Traverso"
12. Antonio De Flora, Professore Ordinario di biochimica, Università degli Studi di Modena e
Reggio Emilia
13. Michele De Luca, Professore Ordinario di biochimica, Università degli Studi di Modena e
Reggio Emilia
14. Dino Di Berardino, Professore Ordinario di SCienze dell'Ambiete, Università di Napoli
Federico II
15. Antonio Forabosco, Professore Ordinario dio Genetica medica, Università degli Studi di
Modena
16. Andrea Francioni, Professore associato di Storia delle relazioni internazionale, Università
di Siena
17. Alessandro Gringeri, Professore Associato di Medicina Internazionale, Università di
Milano
18. Angelo Gilio, Professore ordinario di Probabilità e statistica matematica, Università di
Roma La Sapienza
19. Massimo Grossi, Professore associato di Analisi Matematica, Università di Roma La
Sapienza
20. Yuri Guaiana, Ricercatore di Storia contemporanea, Università di Milano
21. Massimo Libonati, Professore Ordinario di Biochimica, Università di Verona
22. Demetrio Neri, Membro del comitato scientifico del periodico "Bioetica. Rivista
interdisciplinare", Professore ordinario di Storia della Filosofia, Università di Messina
23. Alessandro Missale, Professore ordinario di Economia Politica all'Università di Milano
24. Romano Scozzafava, Professore ordinario di Calcolo delle Probabilità, Università di Roma
La Sapienza
25. Massimo Pandolfo, Chef de Service de Neurologie Hôpital Erasme, Université Libre de
Bruxelles
26. Domenico Passafiume, Professore Associato di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica,
Università degli Sudi dell'Aquila
27. Paola Patrignani, Professore ordinario di Farmacologia, Università di Chieti
28. Anna Pintore, Professore ordinario di Filosofia del diritto, Università di Cagliari
29. Pocchiari Maurizio, Dirigente di Ricerca, Istituto Superiore di Sanità
30. Silvano Presciuttini, Ricercatore di Genetica, Università di Pisa
31. Marco Schaerf, Professore ordinario di Ingegneria Informatica, Università di Roma La
Sapienza
32. Stefano Schiaffino, Professore ordinario, Dip. di Scienze Biomediche Sperimentali,
Università di Padova
33. Pierpaolo Righetti, Professore ordinario di Chimica Organica , Università di Pavia
34. Antonio Scalamonti, Professore ordinario di Istituzione di sociologia, Università di Roma
La Sapienza
35. Giulia Simi, Vice-Segretario dell'Associazione Luca Coscioni, Ricercatrice di Matematica,
Università di Siena
36. Gianpiero Sironi, ProRettore alla ricerca, Università di Milano
37. Fabrizio Starace, Professore di Epidemiologia psichiatrica dell'Università di Napoli
38. Roberto Strom, Professore ordinario di Biochimica Sistematica Umana, Università di
Roma La Sapienza
39. Alberto Turco, Professore Associato di Genetica Medica
40. Renza Vento, Professoressa ordinaria di Chimica Biologica, Università di Palermo
41. Mino Vianello, Professore ordinario di Sociologia Economica, Università di Roma La
Sapienza
42. Emma Villa, Ricercatore di Patologia Sperimentale, Università di Pisa
43. Paolo Villani, Professore ordinario di Ingegneria Civile, Università di Napoli L'Orientale
44. Marcello Crivellini, Professore Associato di Bioingegneria della riabilitazione e protesi,
Politecnico di Milano

giovedì 23 ottobre 2008

Vittorio Foa e l'identità ebraica


Tre giorni fa, il giorno di Oshaana Rabba, Vittorio Foa ha finito la sua lunga e operosa vita terrena di militante antifascista, deputato alla Costituente, leader sindacale, grande saggio della sinistra, che sono stati ben ricordati in questi giorni. Vorrei aggiungere un altro aspetto. Il nonno di Vittorio Foa era stato a fine ottocento il capo rabbino di Torino. Foa non ha mai fatto mistero delle sue origini ebraiche, sottolineando anzi che le origini non sono una cosa da poco. Quando lo scorso anno gli è stata offerta l'iscrizione onoraria alla Comunità ebraica di Roma la ha accettata con piacere e soddisfazione. Con la scomparsa di Foa si chiude simbolicamente e di fatto un periodo di storia degli ebrei italiani, durato quasi un secolo e mezzo. E' il periodo nel quale grandi personaggi nati nell'ebraismo e più o meno coscientemente condizionati dalla sua diversità e dalla passione di giustizia si sono lanciati con entusiasmo ed eccezionali competenze nella vita pubblica italiana, incidendovi sensibilmente. Oggi le condizioni storiche e sociali sono notevolmente cambiate e questo tipo di vocazioni e biografie eccezionali non sembrano esistere più. Ma il loro modello propone interrogativi difficilmente solubili: sono quelli dell'identità ebraica in rapporto al mondo circostante, divisa tra la scelta della totale immersione all'esterno con un tenue, ma onorato, ricordo delle origini (come hanno fatto Foa e altri), o la scelta di rimanere attivi all'interno, profondendovi tutte le energie possibili (ma degli altri non dobbiamo occuparci?). Una terza via, di forte identità ebraica e di contestuale forte impegno politico, sarà mai auspicabile o possibile?Alla figlia Anna, che onora con la sua firma anche questa testata, le affettuose condoglianze.

Riccardo Di Segni
rabbino capo di Roma


(Fonte: L’ Unione informa - UCEI - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

mercoledì 22 ottobre 2008

Vittorio Foa


Come ricordare Vittorio Foa? Ad esempio leggendo e rileggendo l’intervento riportato di seguito, tratto da Notizie Radicali. Illuminante.



Utilizziamo tutte le possibilità costituzionali per mettere il potere in contraddizione


di Vittorio Foa


Vorrei chiedere una cosa ai ragazzi, di non vedere tutto come un dramma, di non prestare fede a chi vede catastrofi dappertutto. Se possibile usate l’ironia e l’autoironia: esse ci consentono di essere coinvolti e distaccati, di capire e di partecipare”.


Così Vittorio Foa, nella nota che introduce un bellissimo libro, la raccolta delle lettere che Foa scrisse dal carcere dal 1935 al 1943 (Einaudi, 1998, pagg.1134). Un epistolario, annota la curatrice Federica Montevecchi, “che può essere letto, in una sua gran parte, come un lungo quaderno di appunti, un diario intellettuale sistematico anche se costretto quasi all’espressione impersonale, determinata dall’opportunità, ovvia, di concedere spazio ai sentimenti più intimi e dal rifiuto di abbandonarsi alla rassegnazione, alla passività e anche alla contemplazione. Un rifiuto che emerge con ancora più forza in contrasto all’immobilità che il carcere rappresenta e alla finalità che esso persegue: eliminare alcuni individui dalla memoria del mondo o sublimarli, per chi ad essi è legato affettivamente, in ricordi. Scrivere la lettera settimanale diventa allora anche l’unico modo di affermare il proprio esserci, l’unico strumento per contrastare l’annullamento, imposto dal carcere, della possibilità di essere partecipi della vita degli altri”.


E’ in carcere, che il giovanissimo Foa, arrestato dal regime fascista in quanto aderente a “Giustizia e Libertà”, che approfondisce la sua formazione, soprattutto attraverso lo studio con uomini come Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi. Ed è paradossale che in quegli anni, la sola libertà di giudizio venga dal fondo di una cella di carcere.
Ricordiamo Vittorio Foa riproponendo un intervento che risale al 1974. I radicali erano impegnati nella campagna per la raccolta delle firme per “otto referendum contro il regime”. Anche Foa aderì a quella campagna, l’intervento venne pubblicato su “Liberazione”, che allora era un quotidiano radicale diretto da Marco Pannella.
Oltre alle “Lettere”, Foa ci lascia altri libri, altrettanto belli e densi: “Il Cavallo e la Torre”, e “Questo Novecento”. Leggerli è un modo perché Foa resti vivo (Va.Ve.).


Credo sia giusto utilizzare, come voi vi proponete di fare, tutte le possibilità legali e costituzionali per mettere il potere in contraddizione coi suoi stessi enunciati democratici, per mobilitare - con i referendum - il massimo di forze in una denuncia degli strumenti di organizzazione del regime. Sono anche convinto che il maggior risultato della vostra campagna non potrà essere quello di convincere il regime a non essere se stesso, ma quello di mettere in luce la vera natura delle istituzioni vigenti e il loro meccanismo di funzionamento, gli scopi effettivi cui serve l'organizzazione repressiva dello stato e della società.
Ogni giorno che passa è sempre più chiaro che il capitalismo italiano nel suo complesso ha un bisogno indomabile e crescente di strumenti repressivi nei confronti della classe operaia, e non solo per spiegarne le proteste e la resistenza, ma anche per far pagare ai lavoratori il costo della riunificazione del fronte capitalistico profondamente lacerato e in crisi. Anche se apparentemente remota dai problemi della condizione operaia la codificazione dei diritti civili li coinvolge direttamente, non solo perché ogni istituto reazionario ha una attuazione differenziata a seconda delle classi sociali (si pensi all'aborto), ma anche perché l'insieme delle istituzioni ha una funzione intimidatrice, di restaurazione ininterrotta del principio di autorità che le lotte sociali di per se stesse tendono a rifiutare.
Vi è oggi nelle lotte operaie una presa di coscienza sempre più chiara del nesso che esiste fra problemi economici e istituzioni sociali e statali. Nonostante le predicazioni politiche sulla neutralità dello stato, sull'indipendenza della magistratura, sul ruolo nazionale dell'esercito, sulla obiettività della scuola ecc. ecc., l'apparato repressivo o proibitivo si manifesta ogni volta che c'è da dare una mano ai padroni contro gli operai. Una lotta coerente per cambiare le istituzioni non può essere come proiezione delle lotte operaie. Se non vi sarà una stretta connessione fra lotte nella sovrastruttura e lotte nella struttura la conseguenza (il Cile insegna) sarà che saranno i capitalisti stessi a cambiare le istituzioni, a liberarsi della contraddizione fra programma democratico e applicazione reazionaria rendendo tutto coerentemente reazionario, liquidando insieme libertà civili e libertà politiche. Il problema reale non è tanto di introdurre delle modificazioni in questo assetto quanto di cambiare l'assetto stesso. Sembra a me che tutto l'assetto istituzionale definito dopo la seconda guerra mondiale sia in Italia in crisi profonda, che non si ponga per noi il problema di applicare la Costituzione del 1947, bensì quello di costruire, con le lotte di ogni giorno, il dopo.

martedì 21 ottobre 2008

Tarantoxic


Un bambino di 13 anni, che non ha mai fumato, con il cancro da fumatore: adenocarcinoma della rinofaringe. Mamme il cui latte risulta contaminato dalla diossina, persone che scoprono di avere il livello di diossina più alto del mondo. In dieci anni leucemie, mielomi e linfomi aumentati del 30-40%.
Questi e altri dati ancora si possono leggere nell’articolo di Carlo Vulpio, sul Corriere della Sera. Si parla della città più inquinata dell’Europa occidentale, dove la presenza di diossina è il triplo di Seveso, e la diossina è una sola delle sette sostanze cancerogene e teratogene presenti. Questa città è Taranto, dove il 93% dell’inquinamento è di origine industriale. Si può fare qualcosa? La risposta è sì, nell’articolo è citato il positivo esempio delle acciaierie “Lucchini” a Servola, Trieste.
Le autorità locali dove sono? E cosa fanno? E il ministro per l’ambiente Stefania Prestigiacomo oltre che polemizzare con il commissario europeo all’ambiente Stavros Dimas riguardo il piano europeo sul clima, pensa di fare qualcosa?
Se siete interessati a emissioni industriali, rischio cancerogeno, mutageno, teratogeno e neurotossico consultate la mappa dell'Italia inquinata: controllando a che posto della graduatoria è la vostra provincia, questo su Peacelink.

lunedì 20 ottobre 2008

Distanze stellari


Veltroni molla Di Pietro in quanto distante anni luce “ dall’alfabeto democratico del centrosinistra”. Allo studio l’adozione dell’alfabeto mandaloriano, nella foto.

domenica 19 ottobre 2008

Religioso silenzio


Allo Yad Vashem c'è una didascalia che descrive l'operato di Pio XII, "... Nel 1933, quando era Segretario di Stato, si spese per il Concordato con il regime tedesco per proteggere gli interessi della Chiesa in Germania, anche se questo significava riconoscere il regime razzista dei nazisti. Eletto papa nel 1939, mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessoere. Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942, non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l'uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne..."

Padre Peter Gumpel postulatore della causa di beatificazione di papa Pacelli afferma che la didascalia che descrivere l'operato di Pio XII è la causa del mancato viaggio del papa in Israele, nonchè del ritardo nella conclusione della casusa di beatificazione. Seguono smentite, che solo in parte smentiscono, da parte del portavoce vaticano Padre Federico Lombardi.

Seguono polemiche, varie prese di posizione. Nulla potrà cancellare il silenzio colpevole di molti, anche tra gli alleati, rispetto allo sterminio degli ebrei. La posizione di Pio XII è ben descritta nella didascalia di cui sopra e non fa onore a lui nè alla chiesa cattolica, nè tanto meno a quelli che continuano a difenderlo e peggio che mai a coloro che lo vorrebbero santo.

venerdì 17 ottobre 2008

Cieli fuori controllo


Vi segnalo un'inchiesta giornalistica di Fabrizio Gatti pubblicata sul numero dell'espresso da oggi nelle edicole, dal titolo "Cieli fuori controllo"- "Scuole di volo irregolari. Ispettori impreparati. Verifiche non effettuate. Carenze, omissioni e silenzi dell'Enac. L'ente pubblico che dovrebbe vigilare sulla sicurezza dei nostri aerei".

giovedì 16 ottobre 2008

Apartheid


S’iniziò con l’istituzione di classi separate per i bambini stranieri nella scuola dell’obbligo. Naturalmente per meglio inserirli e integrarli nella nostra società, e poiché non parlavano perfettamente l’italiano la cosa migliore fu tenerli separati dai coetanei durante le lezioni, questo di certo lì fece sentire ben accetti e amati.

Più tardi si pensò che anche l’attività fisica in comune potesse ingenerare delle situazioni conflittuali, si pensò quindi di utilizzare a turno gli spazi disponibili per tale attività. Purtroppo data l’esiguità degli spazi sopra citati si dovette seppur di mala voglia vietare ogni tipo di attività agli ultimi arrivati in ordine di colore e area geografica.

Il divieto di utilizzo dei medesimi bagni suscitò all’inizio molto clamore, ma una volta spiegato che la misura si era resa necessaria dato che le zone di provenienza dei bambini non garantivano dal punto di vista sanitario degli standard di sicurezza accettabili, il tutto rientrò.

Il passo successivo fu quello degli autobus separati, una misura necessaria in linea con i provvedimenti di cui sopra, testimonianza di una visione coerente. Estendere questi provvedimenti anche ai genitori venne da sé.

Al fine di provvedere alla risoluzione dell’annoso problema casa, vennero istituiti in ogni città dei quartieri, rigidamente separati dai quartieri degli indigeni, in cui ciascun gruppo di non italiani aveva la libertà di insediarsi. Il controllo dei quartieri venne assegnato a dei gruppi organizzati che avevano offerto il loro contributo di tempo e d’impegno per meglio mantenere l’ordine, il tutto nel più totale anonimato dato che come benefattori non intendevano comparire, preferivano rimanere nell’ombra magari in più d’uno.

Anche per quanto riguarda il lavoro si riuscì a risolvere brillantemente il problema dell’impiego per i soggetti sopra citati. Continuarono a svolgere tutti quei lavori che gli indigeni non avevano più voglia di fare retribuiti della metà e per i più fortunati si arrivò fino al 25% del normale compenso. Peccato che la qualità della produzione fosse davvero bassa. Alle volte visto i luoghi di provenienza di questi prestatori d’opera, per farsi capire bisognava intervenire energicamente.

In questi giorni è stata approvata una mozione presentata dalla Lega Nord in cui si propone l’istituzione di classi separate per gli stranieri. Un primo passo. Sta a noi tutti che i restanti passi, non si realizzino.
Alla domanda: “Sono nostri fratelli?” La risposta non può che essere SI.
NON MOLLARE.
(Nella foto: Un cartello dell'epoca dell'apartheid)

mercoledì 15 ottobre 2008

Pena di morte


Secondo un nuovo rapporto diffuso oggi da Amnesty International, le autorità dell'Arabia Saudita mettono a morte, in media, più di due persone a settimana. Quasi la metà delle esecuzioni (e si tratta di una percentuale sproporzionata in rapporto alla popolazione locale) riguarda cittadini stranieri provenienti da paesi poveri e in via di sviluppo.
"Avevamo auspicato che le iniziative in materia di diritti umani che il governo saudita si era vantato di avere introdotto negli ultimi anni, avrebbero potuto mettere fine a tutto questo o almeno determinare una significativa riduzione nell'uso della pena di morte. Invece, abbiamo assistito a un forte aumento delle esecuzioni, che hanno luogo al termine di processi segreti e ampiamente iniqui. Una moratoria sulle esecuzioni è più urgente che mai" - ha dichiarato Malcolm Smart, Direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Nel 2007 le esecuzioni sono state almeno 158, contro le 39 registrate da Amnesty International l'anno prima. Per quanto riguarda il 2008, al 31 agosto il totale era arrivato già a 71. Si teme una nuova ondata di esecuzioni nelle prossime settimane, dopo la fine del mese sacro del Ramadan.
"Il continuo ricorso alla pena di morte da parte delle autorità saudite, si pone in contrasto con la crescente tendenza mondiale verso l'abolizione" - ha proseguito Smart. "Per di più, la pena di morte in Arabia Saudita è applicata in modo sproporzionato e discriminatorio nei confronti di persone povere, tanto lavoratori stranieri quanto cittadini sauditi che non hanno relazioni familiari o altre conoscenze che potrebbero salvarli dall'esecuzione".
Troppo spesso gli imputati, soprattutto lavoratori migranti provenienti da paesi in via di sviluppo dell'Africa e dell'Asia, non hanno un avvocato e non sono in grado di seguire i procedimenti giudiziari che si svolgono in lingua araba. Sia loro che i sauditi messi a morte non hanno denaro né rapporti con persone influenti che potrebbero intervenire in loro favore, come autorità di governo e capi tribù, circostanze entrambe decisive per ottenere la grazia.
"Le procedure al termine delle quali viene inflitta una condanna a morte sono assai dure, quasi completamente segrete e ampiamente inique. I giudici, tutti uomini, hanno un vasto potere discrezionale e possono emettere una sentenza capitale anche per reati non violenti definiti in modo del tutto generico nelle leggi. Alcuni lavoratori migranti sono rimasti all'oscuro della propria condanna a morte fino alla mattina stessa dell'esecuzione" - ha sottolineato Smart.
Le esecuzioni avvengono generalmente in pubblico, mediante decapitazione. In caso di rapina con omicidio della vittima, il corpo del condannato viene crocifisso dopo l'esecuzione.
L'Arabia Saudita è uno dei pochi paesi del mondo a mantenere un alto tasso di esecuzione di donne e a mettere a morte, in violazione del diritto internazionale, persone minorenni al momento del reato.
"È davvero giunto il momento che l'Arabia Saudita affronti il problema della pena di morte e rispetti gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Come membro eletto del Consiglio Onu dei diritti umani, il governo deve fare marcia indietro e rendere conformi agli standard internazionali le proprie procedure legali e giudiziarie, vietare la pena di morte per i minorenni, garantire processi equi, prendere misure per porre fine alla discriminazione e ridimensionare i poteri discrezionali dei giudici nell'uso di questa pena crudele, inumana e degradante" - ha concluso Smart.

(Nella foto: un condannato a morte decapitato a Riad)

Squadrismo


Il Vaticano: ragazzi stranieri discriminati
Marchetto: «Colpiti i giovani di seconda generazione». Fini: «Cresce la xenofobia»

VARESE — Anna ha ancora gli occhi tumefatti e un gran dolore al collo; nemmeno lei sa dire se le sei compagne di scuola (ora tutte identificate) che l'hanno insultata e malmenata perché marocchina siano state mosse da bullismo o da razzismo: «Di sicuro mi offendevano per il colore della mia pelle...» Aspettando che il trauma passi e che l'episodio diventi solo un brutto ricordo, Anna si è guadagnata ieri anche la solidarietà del Vaticano. Sull'episodio della ragazzina immigrata, pestata per non aver ceduto il posto sull'autobus ad alcune coetanee italiane, è infatti intervenuto monsignor Agostino Marchetto, segretario del consiglio pontificio per i migranti. «Il governo italiano insiste: qui non c'è alcun allarme razzismo ma la discriminazione invece esiste - ha detto il prelato facendo esplicito riferimento a quanto successo a Varese - e quando colpisce i giovani nella loro età più fragile le conseguenze non solo per loro ma per l'intera società possono essere devastanti. E questo rischio riguarda soprattutto i figli degli immigrati».Le autrici del pestaggio sono compagne della vittima, frequentano un istituto di formazione professionale di Varese e vedevano Anna tutti i giorni nei corridoi a scuola: «Io non le ho riconosciute tutte - racconta la studentessa - perché ero a terra e mi picchiavano in tante. Avevo solo una gran paura e speravo che tutto finisse». La scuola frequentata dalla ragazzina e dalle sue compagne che l'hanno aggredita ha già fatto sapere che l'episodio non verrà fatto passare sotto silenzio e che verranno presi provvedimenti disciplinari nei confronti delle ragazze responsabili dell'aggressione. I carabinieri dal canto loro hanno inviato una ricostruzione dell'episodio alla procura minorile ma non è stato al momento specificato il tipo di reato contestato nè se ad esso sarà aggiunta l'aggravante del razzismo.L'ennesimo atto di violenza ai danni di cittadini extracomunitari tiene alta l'attenzione anche del mondo politico. Ieri ha fatto sentire la sua voce il presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini: «E' necessario - sono state le sue parole pronunciate in un convegno a Roma - combattere la tendenza all'isolamento da parte delle minoranze di stranieri e impedire il prodursi di fenomeni di xenofobia che nel nostro paese tendono purtroppo ad aumentare per effetto di paura, ignoranza, degrado».La preoccupazione di Fini sembra essere confermata da un altro episodio avvenuto a Napoli sul quali pesa l'ombra del razzismo: è stato appiccato infatti un incendio alle baracche di un campo nomadi di via Argine, nel quartiere Ponticelli. L'accampamento si trova sotto un ponte dell'autostrada, non si sono registrate vittime solo perché le famiglie che lo abitano sono riuscite ad allontanarsi velocemente
Claudio Del FrateRoberto Rotondo
(Nella foto: La ragazzina marocchina aggredita - Newpress)


Parma, giovane ghanese preso a pugni: non voleva cedere il suo posto sul bus
L'uomo stava andando a lavorare quando è stato aggredito sull'autobus da due persone, probabilmente albanesi


PARMA - Ancora un espisodio di violenza a Parma nei confronti di un extracomunitario. Gli hanno intimato di spostarsi, di alzarsi dal sedile dell'autobus su cui si trovava, per cedere loro il posto: ma lui ha detto di no. Per tutta risposta lo hanno preso a pugni e insultato. È successo a Parma, sulla linea numero 6, nella zona della stazione: vittima del brutto episodio, un giovane ghanese che si stava recando al lavoro, a Sala Baganza, ad una quindicina di chilometri dalla città emiliana. Due stranieri, presumibilmente albanesi, da quanto raccontato dal giovane alla polizia intervenuta sul posto, lo hanno minacciato, costringendolo a suon di botte a lasciare loro il posto a sedere. Il giovane ha così chiamato le forze dell'ordine per denunciare l'episodio.

(Fonte: Corriere della Sera)

martedì 14 ottobre 2008

Portico D’Ottavia


Le vie intorno al Portico d'Ottavia hanno assistito il 16 ottobre del 1943 alla razzia nazista di oltre mille ebrei romani, ammassati nei camion in quello spiazzo davanti al Portico che oggi ha preso il nome di 16 ottobre. Nei mesi successivi, in quelle stesse strade i militi della Repubblica di Salò, i cosiddetti "ragazzi di Salò", hanno dato sistematicamente la caccia agli ebrei, riuscendo ad arrestarne, per consegnarli alla deportazione nazista, ancora più di mille.In quelle strade ieri, come ogni anno, si è tenuta la fiaccolata silenziosa organizzata dalla Comunità di Sant'Egidio per ricordare questo orrore. Il sindaco di Roma ha, in quest'occasione, pronunciato parole prive d’ambiguità di condanna del fascismo e della persecuzione antisemita.Come cittadina di uno Stato democratico, e come ebrea, non posso che rallegrarmi che il Sindaco di Roma pronunci parole simili. E prenderle per quello che non possono non essere: un impegno preciso contro il razzismo e per la democrazia.

Anna Foa,storica

lunedì 13 ottobre 2008

Vicky Cristina Barcelona


Due turiste americane, Vicky e Cristina (Scarlett Johansson), che danno il nome al film, in viaggio nella città catalana, fanno perdere la testa ad un irresistibile pittore spagnolo. Se già non bastasse questo triangolo amoroso a rendere bollente la situazione, ci si mette pure l'ex-fidanzata dell'artista, che alla vista del "suo" uomo insieme a due straniere si fa travolgere dalla gelosia...

Gli amici


E’ morto, in Austria, in un incidente d’auto Joerg Haider viaggiava a 142 Km all’ora il doppio del limite consentito sulla strada che stava percorrendo, era leader di una formazione politica di estrema destra che aveva fatto della xenofobia, del populismo, del decisionismo e della personalizzazione della politica attorno alla figura del capo carismatico, i suoi tratti caratteristici.
Qualche suo intervento:

1991
“I polacchi sono un popolo che non ha voglia di lavorare. Lo si può vedere anche dal loro presidente Lech Walesa, che è diventato più largo che alto”.

13 giugno 1991,
rispondendo in consiglio regionale al capogruppo socialdemocratico in materia di lavoro: “Nel Terzo Reich era stata fatta un’ordinata politica dell’occupazione, che il vostro governo a Vienna non è capace di realizzare” dopo questa dichiarazione Haider fu costretto a dimettersi da un voto di sfiducia dell’assemblea.

Settembre 1995
“E’ un bene che in questo mondo ci siamo ancora persone rispettabili, con carattere che restano ferme nelle loro convinzioni anche quando soffia un forte vento contrario e che tali convinzioni sono rimaste fedeli fino ad oggi”.
Elogio rivolto ai superstiti delle Waffen SS riuniti a Krumpendorf, sul Worthersee, reso pubblico 4 anni dopo dalla TV tedesca, cui era pervenuta una registrazione in videocassetta dell’incontro.

28 febbraio 2001
“Io non capisco proprio come uno che si chiama Ariel possa avere addosso tanto sudiciume (ma il vocabolo tedesco è più volgare e può essere tradotto anche con merda)”
Il riferimento è ad Ariel Muzicant, presidente della Comunità israelitica di Vienna, con cui era in polemica per i suoi atteggiamenti antisemiti. Nella battuta Haider aveva giocato sul vocabolo Ariel, che è anche il nome di un detersivo.

13 febbraio 2002
“Quando uno si chiama Adamovich, ci si deve come prima cosa chiedere se abbia un regolare permesso di soggiorno”. Il riferimento è al giurista Ludwig Adamovich, già presidente della Corte costituzionale, che aveva rilevato una violazione della Costituzione nell’assenza di cartelli bilingui nelle località della Carinzia dove è presente una minoranza slovena. Haider aveva giocato sul cognome di origine slava.

28 settembre 2008
“Dopo quella di Lazzaro, credo che la mia resurrezione sia la più clamorosa della storia”
Dopo il successo inaspettato alle recenti elezioni politiche, nelle quali il partito di Haider, fino a pochi mesi prima dato per agonizzante, aveva triplicato i voti.

Come viene ricordato dai politici nostrani. Sufficienti tre interventi direi.

Renzo Tondo presidente della regione Friuli Venezia Giulia: “ La Carinzia ha perso un grande governatore e l’Austria ha perso un leader politico in forte ascesa” “Un valido interlocutore politico ma anche un grande amico”. Basta così? No, il nostro governatore proclama il lutto regionale.
Giancarlo Galan presidente della regione Veneto: “Anch’io avevo dei pregiudizi su di lui, poi l’ho incontrato di persona. E ho scoperto un politico che, in fondo mi assomigliava: anche lui, come me, era uno non classificabile secondo i soliti parametri” “Il Veneto ha perso un amico”
Giancarlo Gentilini ex sindaco di Treviso “ Era uno di famiglia. Haider coincideva con gli ideali della Lega”
(Fonte: Messaggero Veneto – Corriere della Sera)

In molti hanno votato per questi personaggi, in molti li sostengono, non pochi provavano e provano simpatia per Haider e per le sue idee, ma credetemi il nord-est è anche altro.

domenica 12 ottobre 2008

Italiani nel mondo




Rissa in un bar del centro, canzoni del ventennio, cortei per le strade di Sofia al grido "Duce, Duce", appicato il fuoco ad una bandiera bulgara. Tafferugli con la polizia, azioni intimidatorie nei confronti della tifoseria avversaria.
Gli autori: un gruppo di nostri concittadini provenienti da diverse parti d'Italia.
Fascismo militante.

sabato 11 ottobre 2008

Punti di vista




Raduno repubblicano a Bethlehem, Pennsylvania un ragazzo, con un’espressione difficilmente descrivibile, guarda la candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti Sarah Palin. Nella foto che ritrae la scena, opera di un fotografo dell’agenzia Reuters, si può notare un effetto di avvicinamento che lascia un punto interrogativo nella mente di chi osserva l’immagine. Dove sta guardando il ragazzo? Un click malizioso e irriverente oppure l’ennesimo attacco misogino e sessista da parte dei mezzi d’informazione come sostengono i fedelissimi della Palin. Ne nasce un polverone che ha come unico scopo far recuperare alla Palin un po’ di voti pescando nell’elettorato femminile.
Innumerevoli, come ovvio, le foto della governatrice dell’Alaska che si trovano sulla rete. Ho scelto di riprodurre quella che vedete in alto a destra. Altro punto di vista.
Nel frattempo un’inchiesta parlamentare dell’Alaska ha riconosciuto, la Palin, colpevole di abuso di potere per avere allontanato dal servizio un commissario per la sicurezza, reo di essersi rifiutato di licenziare un agente statale coinvolto in una causa di divorzio con la sorella della governatrice. Complimenti.

mercoledì 8 ottobre 2008

La libertà


DUE ANNI FA LA POLITKOVSKAYA UCCISA


Se si rinuncia alla libertà

di Piero Ostellino

In questi giorni che la crisi finanziaria mette in pericolo i nostri risparmi, siamo così preoccupati dei «rischi della libertà», e dei suoi «costi» — compresi l'opportunità di sbagliare, con i rischi che ci assumiamo, e il prezzo che dobbiamo pagare, per gli errori che commettiamo — che siamo disposti a rinunciare a una parte delle nostre libertà in cambio della promessa di un po' di sicurezza in più. Ma non è solo un errore sotto il profilo concettuale; è anche, e soprattutto, un'illusione sotto quello politico. Due anni fa, il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaya, una giornalista della Novaja Gazeta di Mosca, veniva uccisa nell' ascensore del palazzo dove viveva. Stava per pubblicare un articolo imbarazzante per il potere politico. Il giorno dopo, la polizia sequestrava il suo computer e tutto il materiale dell'inchiesta cui stava lavorando. Il mandante è ancora oggi sconosciuto. Il mondo libero se ne è già dimenticato. Ma la Politkovskaya non è morta perché, nella Russia post-sovietica, ci fosse troppa libertà, bensì perché ce n'era ancora troppo poca. Non solo per il sistema informativo o, più genericamente, per gli intellettuali, ma per tutti i russi. Con i suoi articoli, essa non si limitava, infatti, a esercitare la propria libertà di giornalista, bensì soddisfaceva anche il diritto dei suoi concittadini a un'informazione libera, pluralista. È ciò che distingue la società «aperta », di democrazia liberale, dai sistemi chiusi e dispotici.
Nella società «aperta», a fondamento delle scelte dei cittadini, non c'è una Verità unica, e un potere che la impone, bensì c'è una pluralità (e una dispersione) di conoscenze fra milioni di Individui. In questi giorni, i nemici del capitalismo e del libero mercato — che non sanno neppure di che parlano — accusano i liberali di comportarsi come i comunisti di fronte al fallimento del comunismo. Come questi ultimi, attribuirebbero la crisi agli errori degli uomini (i banchieri) per non prendersela col fallimento del sistema, del mercato, del liberalismo. Ma il liberalismo — prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale) — è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi — i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera — ai comportamenti individuali. I soggetti collettivi, a differenza dei singoli Individui, non hanno una personalità propria, non pensano, né agiscono. È, del resto, così che, nella dottrina liberale, il concetto di libertà è strettamente associato a quello di responsabilità. Ed è, perciò, anche evidente che a fallire, in una società «aperta», sono gli uomini — i soli cui far risalire la capacità di operare delle scelte — non il sistema, il capitalismo, il mercato. Nel marxismo- leninismo è, invece, il sistema che è fallito, proprio perché ha ignorato gli Uomini in carne e ossa, sostituendoli col proletariato, il Partito, l'«Uomo nuovo» dell'Utopia, e sollevandoli dalle loro responsabilità.


08 ottobre 2008
(Fonte: Corriere della sera)

martedì 7 ottobre 2008

Anna Stepanovna Politkovskaja


Due anni fa, il 7 ottobre viene assassinata Anna Politkovskaja. Freddata da un killer nell’ascensore del suo palazzo mentre sta rincasando. Impegnata nella denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cecenia da parte delle forze russe e strenua oppositrice alla deriva autoritaria del regime di Putin, diviene bersaglio d’intimidazioni e minacce tanto da dover essere costretta nel 2001 a fuggire all’estero, rientrata in patria continua la sua opera d’informazione e di denuncia per questo cercano di eliminarla avvelenandola ma senza successo. Pubblica alcuni libri Cecenia, il disonore russo, Fandango, Roma, 2003 - La Russia di Putin, Adelphi, Milano, 2005 - Proibito parlare, Mondadori, Milano, 2007 - Diario russo, Adelphi, Milano, 2007.

Proprio il giorno in cui viene assassinata stava per essere pubblicato un suo articolo sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro Ramsan Kadyrov che godeva del pieno appoggio di Putin.
Di seguito la poesia di Evgenij Evtusenko che la Novaja Gazeta, giornale per il quale la Politkovskaja scriveva, ha pubblicato in sua memoria e in memoria di Jurij Sekocichin qui
nella traduzione a cura di Valentina Barbieri. (Tratto da Libertà di Stampa Diritto all’Informazione).

COMPENSO IN PIOMBO – EVGENIJ EVTUŠENKO


Ormai lo spirito dei poeti

Non è più così impetuoso

Anzi, in tutta sincerità,

è talvolta piuttosto misero.

Ma rimane in vita il fervore civile,

figlio adottivo dei giornalisti,

che dai preferiti delle muse

è fuggito con aria sprezzante.
Noi vediamo in Russia

Una luce splendente

Che cinge altre teste,

non coronate d’alloro.

Parlo di Dima, di Jurij e di Anja,

piombo e veleno

il prezzo delle parole pericolose.

Dall’alto del cielo si celebra la messa funebre

con tono d’addio, come di gru.

Esiste nel mondo Babij Jar*

Ed esiste la Babij Jar dei giornalisti.

Con quanta generosità ripagano

Il coraggio del giornalismo

con un compenso in piombo

E quanti

Sono ancora ignoti.

Le loro penne emergono dal pantano

delle periferie.

E’ possibile che tutti

quelli che non stanno zitti saranno uccisi?
E sopravviveranno solo coloro

Che adulano oppure stanno in silenzio?

Non ci sono al mondo paesi cattivi

Ma nemmeno paesi senza fuorilegge.

Dov’ è Artëm Borovik?

Dove Men’, il predicatore?

Io, lo confesso, non amo

i poeti inoffensivi,

capaci solo di guaire,

troppo pigri per ringhiare.
Che odore ha la morte?

Quello della paura della libertà di parola

dell’attesa dello sparo

del veleno

del piombo
Ma, ecco, incontro a tutto

ciò che odora di viltà

avanza una ragazzina-reporter dalla città di Odincov

con le fossette

armata solo di una penna
E davvero la mamma dovrà vedere

queste fossette nella tomba

insieme con la penna, regalo della redazione di un giornale di provincia?
La mamma non avrà la forzadi piangere.

Sia maledetto per l’ eternità

Il compenso in piombo

Il compenso in piombo

Diventato il prezzo della verità

———-* Citta’ ucraina diventata tristemente famosa per le uccisioni di massa compiute dagli occupanti nazisti nel 1941. “Babij Jar” e’ anche il titolo di una raccolta di Evtušenko contro l’antisemitismo in Russia

domenica 5 ottobre 2008

Razzismo italico

Cresce in Italia il razzismo: neri morti ammazzati dalla camorra, un ragazzo pestato dai vigili, un cinese picchiato da una banda di ragazzini. Episodi continui d'insofferenza ed aggressività. Ci domandiamo se gli italiani sono davvero ridiventati razzisti. Se, settant'anni dopo le leggi razziali e cento e più anni dopo l'affermarsi in tutta Europa di una vera e propria cultura della razza, che pensavamo sepolta dai terribili eventi del Novecento, non si stia nuovamente diffondendo l'idea dell'esistenza delle razze, della loro distinzione in razze superiori ed inferiori. In ogni caso, la parola"razza", fino a poco tempo fa bandita, sembra tornare in auge.Che fare? esistono argomenti razionali contro il razzismo, o alla sua base vi è un nucleo duro di paura viscerale che si colloca al di là di qualunque discorso razionale? Serve insomma l'uso della ragione, per combattere il razzismo? A queste domande non abbiamo risposte, solo tremori, ansie, preoccupazioni, in questi giorni di riflessione e bilanci.

Anna Foa, storica

venerdì 3 ottobre 2008

BarCamp


l'Italia è ancora una democrazia?


Se ne discuterà domani, nel corso della conferenza sulla crisi della (non)democrazia che si apre

proprio con un dibattito che ha questo titolo:



La situazione è grave e i segnali della fuori uscita del nostro paese dalla legalità democratica si susseguono ormai da decenni. Partiamo dagli ultimi. Ieri il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto a Napoli: «E' mia intenzione procedere con un decreto legge su ogni materia che riterrò necessaria, anche imponendo al Parlamento di approvarlo».Attraverso l'abuso della decretazione d'urgenza, i Governi hanno di fatto espropriato il potere legislativo del Parlamento. Nonostante il fatto che la costituzione lo preveda come strumento solo per situazioni eccezionali, nella prassi del nostro paese ha assunto il ruolo di via ordinaria e privilegiata di legislazione. Nella XV legislatura (2006-2008) le leggi di iniziativa governativa sono state l'88% del totale, mentre nella XIV legislatura (2001-2006) il 78%. Non è più il Parlamento a fare le leggi, ma il Governo, con buona pace del principio di divisione dei poteri.Sempre ieri il Consiglio di Stato ha impedito, a tre giorni dal suo svolgimento, un referendum tra i cittadini di Vicenza sulla base militare nell'area dell'aeroporto "Dal Molin", con l'argomentazione secondo cui, essendo la decisione già stata presa e non modificabile dalle autorità locali, il pronunciamento dei cittadini sarebbe inutile.Purtroppo il pronunciamento dei cittadini è sempre più considerato inutile perché trattato come tale dalle istituzioni. Dall'introduzione nell'ordinamento italiano del referendum (avvenuta soltanto nel 1970, con oltre vent'anni di ritardo rispetto all'approvazione della Costituzione che lo prevedeva) all'ultima consultazione referendaria nazionale (2005) sono stati promossi ben 137 referendum; la Corte Costituzionale ne ha bocciati 67 attraverso la creazione di una giurisprudenza ritenuta da molti non coincidente con il dettato costituzionale e a difesa degli interessi costituiti. Su 59 quesiti votati dagli elettori, 42 hanno visto la vittoria del "sì", ma soltanto 19 di questi referendum sono risultati validi, perché 24 non hanno raggiunto il quorum dei votanti previsto dalla legge (50% + 1 degli aventi diritto) a causa di campagne astensioniste condotte dai maggiori partiti politici. Ben 5 referendum vinti sono poi stati traditi dal Parlam! ento con l'approvazione di leggi in contrasto con la volontà espressa dai cittadini.Da mesi il Parlamento non elegge il presidente della Commissione di vigilanza sulla RAI, un organo di garanzia fondamentale previsto dalla legge, e ormai da oltre un anno e mezzo omette di eleggere un giudice della Corte costituzionale, facendo mancare il plenum del giudice supremo, e influendo così indebitamente sulla formazione della volontà della Corte e sul suo corretto funzionamento. Per questo Marco Pannella ha intrapreso un'iniziativa nonviolenta che potrebbe trasformarsi presto in uno sciopero della sete (l'ennesimo sì, come per l'ennesiamo volta è solo nel denunciare l'illegalità delle istituzioni e a cercare di porvi rimedio).Sono solo alcuni esempi di quello che i radicali chiamano "Caso Italia". Un dossier copioso che abbiamo preparato raccogliendo fatti e cifre che testimoniano la negazione in Italia di tutti i fondamentali diritti democratici, e che sarà al centro della conferenza che si apre domani. Una conferenza che non si limiterà a prendere atto dell'illegalità delle istituzioni, ma che raccoglierà anche forze politiche, movimenti, comitati di cittadini, associazioni e singoli che tentano di sperimentare nuovi strumenti di opposizione e partecipazione politica, per riprendersi alcuni spazi di democrazia che ogni giorno ci sottraggono.

E che si confronteranno nel corso del BarCamp "Esperimenti democratici".

giovedì 2 ottobre 2008

Un tocco di colore

Piccoli cambiamenti che hanno bisogno di essere metabolizzati.

mercoledì 1 ottobre 2008

Aldo Capitini



Il quarantennale di Capitini

di Franco Bozzi


Quello che presentiamo è un contributo su Aldo Capitini scritto da Franco Bozzi, studioso, docente di storia e filosofia, animatore culturale, socialista storico umbro nonché componente del direttivo dell’Associazione Liberaleidee.
Bozzi, che fu a fianco di Capitini nell’organizzazione della prima marcia per la pace Perugia-Assisi, svoltasi il 24 settembre 1961, non solo si rapporta in modo schietto a situazioni vissute in prima persona ma si raffronta anche, senza remore, con l’originale elaborazione capitiniana. L’intervento è stato concepito in occasione dell’incontro “A proposito di Capitini…Nonviolenza, l’alternativa praticabile” che si svolgerà oggi alle 16 nella sala di partecipazione della Provincia di Perugia. Abbiamo deciso di pubblicarlo non perché se ne condividano appieno i contenuti ma per il valore della testimonianza e l’autorevolezza del suo autore. (Francesco Pullia)



Il quarantennale della morte di Aldo Capitini fornisce un’occasione preziosa per riflettere su un magistero civile ricco di suggestioni a dispetto – o forse a causa – della sua singolarità, e per indagare su una esperienza pedagogica e politica che si colloca a cavallo della seconda guerra mondiale, e dunque in un mondo assai diverso dal nostro, dominato com’era dai totalitarismi, dalla contrapposizione fra blocchi, dalla paura della catastrofe nucleare. Perugia ha già cominciato quest’opera di recupero memoriale con un convegno di studio promosso da alcuni discepoli del filosofo, nella Facoltà universitaria che fu sua. Ora si annunciano altre iniziative, fra cui quella della Regione dell’Umbria, che ha preannunciato la costituzione di un apposito comitato, coordinato da un burocrate (pensate al Capitini anti-istituzionale!) e comprendente Flavio Lotti, ma non il sottoscritto (che su Capitini ha pubblicato articoli su “Mondoperaio” e “Filosofia e società”, ha parlato al Vieusseux e a vari convegni di studio) o Alarico Mariani Marini (autore di un libro intenso e documentatissimo sul pacifismo e l’antimilitarismo degli anni cinquanta e sessanta, il caso Pinna e l’obiezione di coscienza). Oltre tutto, noi due fummo nel comitato che organizzò la Marcia della Pace del ’61, e ne avremmo avute di cose da raccontare.
Per esempio: i democristiani non vollero partecipare alla Marcia (e questo è risaputo) per la contemporanea presenza del PCI. Né Capitini era ben visto dalla Chiesa locale, con la quale anzi era in dura polemica (aveva infatti chiesto di essere cancellato dal registro dei battezzati). Ricordo di aver letto, all’ingresso della Cattedrale, un cartello che metteva in guardia i fedeli dal frequentare il suo Centro di Orientamento Religioso. Quanto ai comunisti, Capitini volle fortemente la loro partecipazione, ben sapendo che senza la capacità mobilitativa di quel partito e delle numerose organizzazioni ad esso collaterali, la manifestazione rischiava di fallire. Ma quanta fatica a trattare con loro! Per le riunioni del comitato era stato designato Romeo Sisani, persona onesta e garbata ma di ruolo secondario. Quando si arrivò a stilare la mozione conclusiva, egli non se la sentì di dare il proprio assenso, e di impegnare il partito. Era l’epoca in cui la linea politica era dettata quotidianamente dal Bottegone. Intervenne allora Gino Galli, segretario di federazione; fu tolta o smussata ogni frase che potesse suonare anche lontanamente come una critica all’URSS. Non bastava ancora, Galli voleva prender tempo per sottoporre la mozione al comitato centrale. E fu proprio Mariani Marini a sbottare che non se ne poteva più di quelle tergiversazioni, e ad imporre la chiusura della discussione. All’esterno, naturalmente, i comunisti si accreditarono come i più convinti sostenitori della Marcia, e inviarono Andrea Gaggero (un ex deportato, esponente di stretta osservanza sovietica) con il quale tenni un comizio preparatorio in Porta Sant’Angelo.
Due giorni dopo la scomparsa di Capitini, avvenuta il 19 ottobre 1968, Pietro Nenni annotava nel suo Diario: “Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia […] Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello”. Il giudizio del leader socialista, primo fra i capi-partito dell’epoca ad aderire alla Marcia della Pace, è di rara efficacia nella sua sinteticità. Quell’endiadi di libertà e giustizia rimanda alla stagione del «Quarto Stato», che Nenni in esilio durante gli anni della dittatura diresse con Carlo Rosselli (il fondatore, appunto, di Giustizia e Libertà) e coglie esattamente la radice del pensiero capitiniano, che va rintracciata nella democrazia mazziniana, nell’azionismo di derivazione risorgimentale, e in un socialismo liberale e libertario cui il Nostro, assieme a Guido Calogero – ma occorre ricordare il contributo di altri perugini, quali Walter Binni, Alberto Apponi, Luigi Catanelli – dette il nome di liberalsocialismo. A Roma, presso la Fondazione Nenni, si conserva la corrispondenza che il segretario del PSI, padre della Repubblica, ebbe con Capitini e Binni su temi alti quali la pace, l’obiezione di coscienza, la laicità dello Stato. Come si declinano tali temi nello stato presente?
Analizziamoli punto per punto. La Marcia della Pace Perugia-Assisi promossa da Capitini ebbe luogo il 24 settembre 1961. Essa fu la prima manifestazione del genere in Italia, e dette l’abbrivio ad una serie ininterrotta di eventi similari. Oggi don Remo Bistoni ne attribuisce l’idea a monsignor Rosa, arcivescovo di Perugia durante il regime fascista, e la Guida del Touring la data al 1986, confondendola (volutamente?) con l’incontro interreligioso indetto nella città serafica da papa Woitjla. Naturalmente nessun argomento, e meno che mai la pace, può essere monopolio di un unico pensiero: ma la Marcia capitiniana fu cosa diversa da una processione o da una giornata di preghiera (dico, non migliore o peggiore: diversa). Le sue fonti di ispirazione sono semmai, come altra volta ho indicato, la Marcia del Sale di Gandhi, le veglie e i sit-in di Bertrand Russel, il “pellegrinaggio nonviolento” di Martin Luther King contro la discriminazione razziale, i cortei di protesta di Jean Paul Sartre e dei suoi amici esistenzialisti contro la repressione in Algeria. Si era, in quel momento, all’acme della guerra fredda (in estate era stato eretto il muro di Berlino, l’anno successivo sarebbe esplosa la crisi dei missili a Cuba) e incombeva la minaccia dell’olocausto nucleare. Fu giusto manifestare per richiamare i governanti alle loro immani responsabilità; fu irresponsabile chiedere il disarmo unilaterale, che ci avrebbe trasformato, secondo le parole dello stesso Capitini, nel popolo-Cristo vocato a salvare l’umanità (i comunisti, più concretamente, si sarebbero accontentati di salvare l’URSS). Echi lontani, di cui nulla è sopravvissuto nella stanca liturgia delle marce attuali, opera, se è lecito parafrasare Lenin, di quei “pacifisti di professione” che bruciano le bandiere americane, indossano la kefiah dell’intifada, e sfilano con la maglietta del Che. Per questo, dopo l’attentato alle Torri Gemelle (attribuito dalla sinistra estrema non già alla rete dell’islamismo fanatico, ma ad oscuri disegni della CIA e del Mossad), in contemporanea con una edizione della marcia mi sono recato con pochi compagni socialisti e radicali al cimitero inglese di Rivotorto, per rendere omaggio a quei soldati che, col sacrificio della vita, hanno reso possibile anche questa esibizione di confusionarismo mentale.
La nonviolenza. Dal suo primo libro alle sue ultime lettere, Capitini si presentò come il filosofo della nonviolenza – con i suoi corollari: non mentire, non collaborare, non opprimere, non offendere nemmeno gli avversari – ed elesse a suo modello Gandhi (sessant’anni dalla morte, altro anniversario tondo). Io ebbi modo di dirgli, con tutto il riguardo dovuto da un giovane universitario verso una così riconosciuta autorità morale, che non mi convinceva affatto la rinuncia a mezzi di difesa armata nei confronti di un possibile aggressore; e ricordo un colloquio a tre, presente Pinna, sull’efficacia e la temporalità delle diverse strategie di lotta. Che il Mahatma fosse riuscito ad ottenere l’indipendenza dell’India con gli strumenti del satyagraha (la nonviolenza divenuta, da esperienza individuale, abito di intere moltitudini) è un fatto, ma il motivo del successo è racchiuso in una battuta pronunciata da Ben Kingsley, interprete di Gandhi nel bellissimo film a lui dedicato: “voi inglesi – cito a memoria – sarete costretti ad andarvene, perché centomila stranieri non possono tenere in soggezione trecentocinquanta milioni di autoctoni, se questi non lo vogliono”. Una situazione dunque irriproducibile, con una infima minoranza di conquistatori che aveva perduto il consenso del popolo conquistato, e per di più era impacciata da scrupoli giuridici e costituzionali: quelli che non ebbero, per citare un caso, i nazisti nei confronti degli studenti della Rosa Bianca, spediti dritti al patibolo. Gandhi poi morì per mano di un fanatico indù, e i due Stati che nacquero dalla sua azione – l’India e il Pakistan – si premurarono di costruire la bomba atomica. Lo scacco non scalfì minimamente la fede nonviolenta di Capitini, che nel ’67, alla vigilia della guerra dei sei giorni, ebbe questa bella pensata: gli israeliani non avrebbero dovuto opporsi con le armi agli eserciti invasori, ma avrebbero dovuto fronteggiarli soltanto con forme di resistenza passiva. Se tale proposta fosse stata accolta, non staremmo oggi a lambiccarci su come risolvere la questione medio-orientale: Israele sarebbe cancellata, gli ebrei riposerebbero sotto terra, e la Palestina costituirebbe non uno Stato (ciò che non fu mai) ma una provincia della nazione araba, come un tempo dell’Impero Ottomano.
L’obiezione di coscienza. In termini generali possiamo definirla come il rifiuto, motivato da insuperabili ragioni etiche o religiose, ad obbedire ad una legge ritenuta ingiusta. “Tuttavia il significato comune – annotava Capitini – è ristretto alla disobbedienza che vien fatta alla legge che impone di portare armi, di preparare o prepararsi alla guerra e di eseguirla nelle varie sue forme”. Il piccolo cenacolo capitiniano annoverava fra i più assidui frequentatori Pietro Pinna, primo fra gli obiettori italiani ad aver ottenuto (oltre che il carcere) adeguata risonanza per il suo rifiuto di indossare la divisa. In una recente intervista, che si può leggere in rete, egli ribadisce le sue convinzioni: abolizione degli eserciti, disarmo unilaterale ecc. Storicamente l’obiezione affonda le proprie radici nel rifiuto della guerra e del servizio militare, che rappresenta tanta parte della cultura del movimento operaio, e che anch’io ho avuto modo di illustrare nella mia Storia del Partito Socialista in Umbria. I mostri prodotti dal nazionalismo e dal militarismo – Bava Beccaris, le decimazioni dopo Caporetto, i campi di sterminio e i gulag – sono ben ampiamente noti per doverli qui ripetere. Contro il riprodursi di tali mostri (e seguendo il monito di Brecht; “il grembo da cui nacque è ancora fecondo) si sviluppò nella prima metà degli anni sessanta un forte movimento, di cui sono testimonianze il film “Non uccidere” di Claude Autant-Lara, la polemica di fuoco fra don Milani e i cappellani militari, la rappresentazione antimilitarista “Bella ciao” del Nuovo Canzoniere Italiano al Festival di Spoleto.
L’isolamento. Vero, Capitini era e si sentiva un isolato. Ma l’isolamento se lo era anche cercato. Non aveva mai voluto aderire a nessun partito, nemmeno a quello che gli era ideologicamente più vicino, il Partito d’Azione. È noto l’episodio accaduto durante il congresso costitutivo di quel partito a Firenze. Capitini vi era recato con degli amici, ma restò in anticamera, senza decidersi ad entrare nella sala del congresso. A Perugia ebbe uno straordinario successo nell’immediato dopoguerra, con la stagione dei COS. Ma quando furono indette le prime libere elezioni, la sua pretesa di volere assoggettare le scelte degli amministratori agli umori delle assemblee trovò una netta opposizione da parte degli eletti (e per una volta furono d’accordo socialista, comunisti e democristiani), che si facevano scudo del suffragio ricevuto. Nel pensiero di Capitini i COS avrebbero dovuto essere l’evoluzione dei CLN. Ma la stagione ciellenistica si era conclusa, e come in tutte le rivoluzioni alla fase aurorale dell’assemblearismo (esaltata anche da Hannah Arendt) subentrava il potere degli apparati di partito.
Le stravaganze. Qui è interessante notare che ciò che mezzo secolo fa sembrava bizzarro, inusuale, eccentrico, oggi rientra in un normale e accettato stile di vita, quando addirittura non sia diventato moda o tendenza culturale. Prendiamo l’esempio forse più eclatante, il vegetarianesimo. Scrive Capitini: “per oppormi alle guerre che Mussolini preparava, presi la decisione vegetariana, nella convinzione che il risparmio delle vite di subumani inducesse al rifiuto di uccidere esseri umani”. Fosse vero! Fu rigorosamente vegetariano il menu fatto predisporre da Hitler per Röhm e le sue SA, prima che le SS si scatenassero nella notte dei lunghi coltelli. E se il “duce” sermoneggiava che avrebbero avuto un futuro solo i popoli bevitori d’acqua, e non vino o di birra, la sua astemia non gli impedì di aggredire l’Etiopia, né di precipitare l’Italia nel conflitto mondiale. Ma i dettami del politically correct vogliono convertirci tutti al vegetarianesimo, e meglio ancora al veganismo, che spingendosi oltre Capitini rifiuta ogni prodotto di derivazione animale, sia nell’alimentazione che nel vestiario. Per la mia formazione sui testi del realismo politico io sono del tutto alieno da una logica di pura testimonianza.
In conclusione io ritengo che il quarantennale capitininiano dovrebbe essere un esame spassionato di ciò che è vivo e di ciò che è morto – per usare un’espressione crociana – del magistero di questo illustre nostro concittadino. Se invece esso si riducesse ad una pura celebrazione, o alla ripetizione di temi che il tempo e l’esperienza hanno dimostrato consunti, il mio consiglio sarebbe quello di lasciar perdere.
(Fonte: Notizie radicali)