venerdì 28 gennaio 2011

La nostra memoria

"Noi ebrei italiani. La nostra Memoria"


Il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha pronunciato in occasione del Giorno della Memoria 2011 il seguente intervento:



“Illustre e caro Presidente Napolitano, illustri autorità civili, militari e religiose, cari amici, carissimi ragazzi

Il Giorno della Memoria di questo 2011, anno durante il quale celebriamo il 150° anniversario dell’unità d’Italia, è un evento diverso e speciale che ci offre l’occasione per capire il ruolo svolto e l’apporto dato dagli ebrei alla nascita dello Stato Italiano.

L’adesione degli ebrei italiani al Risorgimento fu convinta e largamente diffusa. Vi parteciparono, passando dall’attività cospirativa mazziniana, alla Repubblica Romana del 1848, alla spedizione dei Mille, sino alla conquista di Roma del 20 settembre 1870.

Con l’unità della nazione, dopo molti secoli, tutti gli ebrei italiani vedevano riconosciuto il loro diritto ad una cittadinanza piena ed essi, divenuti uomini liberi, sprigionarono una grande forza creativa e parteciparono alla vita culturale, spirituale, politica ed economica distinguendosi anche nelle forze armate durante il primo conflitto mondiale.

Ma una domanda che non trova risposta ancora ci assilla.

Come è potuto accadere che la stessa piccola, civile, pacifica minoranza ebraica, che dette un così alto contributo all’unità della Patria, possa essere stata, solo pochi decenni dopo, tradita, discriminata e perseguitata.

Il regime fascista, con l’emanazione delle leggi antiebraiche sulla razza del 1938, sancì il definitivo discostamento dell’Italia dalle idee di libertà, uguaglianza e democrazia fondative della Nazione.

Quelle leggi che fecero precipitare gli ebrei in una condizione di disumana discriminazione furono al tempo stesso la dimostrazione della fragilità politica dello stato monarchico che, dopo aver abolito nel 1925 la democrazia parlamentare, giunse a violare per la prima volta nella sua storia i propri princìpi fondanti.

Si trattò di un’involuzione e di un regresso per il quale gli ebrei per primi pagarono il prezzo più alto, ma che costò sofferenze e sangue a tutti gli italiani che furono trascinati in rovinose sconfitte militari e furono costretti a subire la feroce occupazione nazista fino all’aprile del 1945.

L’Italia iniziò a risorgere nel 1946, con due eventi di grande valore istituzionale, politico e simbolico: la trasformazione da monarchia in repubblica e la creazione e promulgazione, nel 1948, di una Costituzione di altissimo livello civile, giuridico e sociale, fatti questi che le permisero di riconquistare la concordia interna e quella credibilità internazionale che le garantì un posto tra le grandi democrazie occidentali.

Ma che cosa accadde nel frattempo alle vittime delle persecuzioni e delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti, a quei pochi che riuscirono a sopravvivere e a tornare nelle loro case?

Nel dopoguerra, per anni, la Shoah non fu raccontata, spesso neanche all’interno delle famiglie.

I pochi sopravvissuti, i testimoni diretti, prima di riuscire a parlare attraversarono un lungo periodo di tragica solitudine, di incomunicabilità, a volte di vergogna, presi da assurdi, ma umanamente e psicologicamente comprensibili, sensi di colpa per essersi salvati, a volte per paura di non essere creduti.

L’istituzione del “Giorno della Memoria” trova la sua ragion d’essere nella necessità di colmare il grave deficit di conoscenza dovuto al ritardo con il quale la Shoah è stata raccontata e studiata.

La Shoah è stata un’immensa tragedia che ha colpito il popolo ebraico con un tentativo di distruzione totale. I princìpi ideologici che ne furono alla base causarono la persecuzione anche di altri gruppi e categorie; si trattò di una barbarie che agì contro la “diversità” in generale.

Solo quando i crimini commessi emersero in tutta la loro enormità, la Shoah divenne un parametro di riferimento per giudicare il comportamento del genere umano tenuto da persone, gruppi e nazioni negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.

Auschwitz divenne lo spartiacque simbolico tra civiltà e barbarie al punto che, da alcuni storici, il Ventesimo secolo è stato denominato il “Secolo di Auschwitz”.

La Shoah avvenne nel cuore dell’Europa, il continente, allora, più moderno sul piano tecnologico e più avanzato culturalmente. Non sempre i passi in avanti della scienza e della tecnologia vanno in parallelo con il progresso civile e morale dell’uomo e dei popoli.

Il Giorno della Memoria non è un’iniziativa finalizzata a perpetuare conflitti e rancori, ma a formare la coscienza civile delle giovani generazioni. Questa fu la finalità principale che anche Tullia Zevi, alla guida dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane fino al 1999, enunciò chiaramente. Oggi ancor più sentiamo il vuoto da lei lasciato, venendo a mancare solo pochi giorni fa. Rivolgo alla sua memoria un pensiero affettuoso e riverente.

Questo è il modo migliore per ricordare e onorare milioni di vittime, facendo sì che il loro sacrificio non resti vano, ma diventi un monito che contribuisca al progresso dell’umanità.

Caro Presidente Napolitano, la ringrazio per aver ospitato anche quest’anno al Quirinale il Giorno della Memoria, la cui celebrazione ci consente di esprimere il sentimento di unità che viene rinsaldato con questo contributo offerto dagli ebrei italiani a tutti i loro connazionali.

Crediamo, infatti, che il nostro Paese sarà più libero e migliore solo se, attraverso la conoscenza e la comprensione della propria storia, rimarrà consapevole che la conquista della democrazia costituisce un passo fondamentale ed un bene prezioso da consegnare con orgoglio alle nuove generazioni”.


(Fonte: Moked.it)

martedì 25 gennaio 2011

SUD AFRICA: METTI FINE ALLO "STUPRO CORRETTIVO"

Millicent Gaika è stata legata, strangolata, torturata e stuprata ripetutamente per cinque ore di seguito da un uomo che sosteneva di "curarla" dalla sua omosessualità.

E' sopravvissuta per miracolo, ma non è l'unica: questo crimine immondo è comune in tutto il Sud Africa, dove le lesbiche vivono nel terrore di essere attaccate. Ma nessuno è mai stato condannato per "stupro correttivo".

Incredibilmente, da un piccolo rifugio a Città del Capo, una manica di coraggiosi attivisti rischiano la loro vita per far sì che il caso di Millicent sia la miccia per il cambiamento. Il loro appello al Ministro della giustizia è esploso fino a raggiungere le 130.000 firme, costringendolo a difendersi in tv. Ma il Ministro non ha ancora risposto alla loro richiesta di azione.

Accendiamo una luce su questo orrore da tutti gli angoli del mondo: se saremo in tanti ad amplificare questa campagna, potremo non solo raggiungere il Ministro della giustizia, ma anche il Presidente Zuma, che ha la responsabilità di difendere i diritti costituzionali. Chiediamo a Zuma e al Ministro della giustizia di condannare pubblicamente lo "stupro correttivo", penalizzare i crimini d'odio e garantirne l'esecuzione immediata, l'educazione pubblica e la protezione delle vittime. Firma la petizione ora e condividila con tutti la consegneremo al governo del Sud Africa insieme ai nostri alleati a Città del Capo.

Il Sud Africa, chiamato spesso la nazione dell'arcobaleno, è rispettato in tutto il mondo per il suo impegno nel periodo successivo all'apartheid contro le discriminazioni. E' stato il primo paese ad aver dichiarato fuorilegge nella sua Costituzione la discriminazione su base sessuale. Ma solo a Città del Capo l'organizzazione locale Luleki Sizwe ha registrato più di uno "stupro correttivo" al giorno, e l'impunità regna sovrana.

Lo "stupro correttivo" si basa su un'opinione falsa e oltraggiosa per cui una donna lesbica se stuprata può diventare eterosessuale; tuttavia questo crimine efferato non è neppure classificato come crimine d'odio in Sud Africa. Le vittime sono spesso di colore, povere, lesbiche ed emarginate. Ma neppure lo stupro di gruppo più l'omicidio di Eudy Simelane, l'eroina nazionale e campionessa della squadra di calcio femminile del Sud Africa, ha potuto ribaltare la situazione. E proprio la scorsa settimana il Ministro Radebe ha insistito che il motivo è irrilevante in crimini come lo "stupro correttivo".

Il Sud Africa è la capitale dello stupro nel mondo. Una ragazza che nasce in Sud Africa oggi ha più possibilità di essere stuprata che d'imparare a leggere. E' stupefacente: un quarto delle ragazze in Sud Africa è stuprato ancor prima di compiere 16 anni. Molti fattori possono spiegare questo abominio: il maschilismo (il 62% dei maschi sopra gli 11 anni ritiene che costringere qualcuno a fare sesso non sia un atto di violenza), la povertà, abitazioni stipate, uomini disoccupati e privati del diritto di voto, l'accettazione da parte della comunità; inoltre, per i pochi casi che vengono denunciati con coraggio alle forze dell'ordine, una riposta penosa della polizia e sentenze lascive.

Questa è una catastrofe umana colossale. Ma Luleki Sizwe e gli alleati di Change.org hanno aperto una piccola finestra di speranza in questa battaglia. Se tutto il mondo decidesse d'intervenire ora, potremmo ottenere giustizia per Millicent e un'azione nazionale per mettere fine allo "stupro correttivo".

Questa è una battaglia contro la povertà, il patriarcato e l'omofobia. Per mettere fine a questa ondata di stupri occorreranno azioni decise e concertate per un processo di cambiamento d'avanguardia in Sud Africa e in tutto il continente. ll Presidente Zuma è un tradizionalista Zulu, e lui stesso è stato processato per stupro. Ma lo scorso anno ha condannato l'arresto di una coppia gay in Malawi e dopo una pressione a livello nazionale e internazionale enorme, il Sud Africa ha finalmente approvato la risoluzione ONU contro l'omicidio extra-giudiziale delle persone in base al loro orientamento sessuale.


Se saremo in tanti a partecipare a questa chiamata globale all'azione, potremo costringere Zuma a pronunciarsi, guidando così un programma governativo e cominciare una conversione nazionale che potrebbe spostare i comportamenti pubblici nei confronti dello stupro e dell'omofobia in Sud Africa. Firma ora e fai il passaparola.


Un caso come quello di Millicent tende a far perdere la speranza. Ma quando i cittadini si uniscono sotto un'unica voce, possono vincere nel cambiare pratiche e norme profondamente radicate e sbagliate. Lo scorso anno in Uganda siamo riusciti a costruire un'ondata enorme di pressione pubblica, tanto che il governo è stato costretto ad accantonare una legge che avrebbe condannato a morte i gay ugandesi. Ed è stata la pressione globale in favore di alcuni attivisti audaci che ha costretto i leader del Sud Africa a rispondere alla crisi dell'AIDS che stava divorando il paese. Uniamoci e mettiamoci dalla parte di un mondo dove ogni essere umano può vivere senza la paura di abusi.


Con speranza e determinazione,



Alice, Ricken, Maria Paz, David e il resto del team di Avaaz.

domenica 23 gennaio 2011

sabato 22 gennaio 2011

Stop alla produzione di Pentothal in Italia

Il Pentothal, utilizzato per uccidere, con l'iniezione letale, i condannati a morte negli Stati Uniti, non verrà prodotto in Italia.

La casa farmaceutica Hospira, che ne aveva pianificato la produzione nello stabilimento di Liscate, in provincia di Milano, ha reso noto di aver deciso di rinunciare dopo una serie di contatti con il governo italiano.

Nell'annuncio, dato con un comunicato della casa madre americana con sede a Lake Forest, in Illinois, si precisa che Hospira “cessa la produzione di Pentothal a livello globale, uscendo così dal mercato del tiopentale sodico”. E si sottolinea che la casa farmaceutica”'non ha mai avallato” l'uso del prodotto “nelle procedure impiegate per la pena di morte negli Stati Uniti”.

“Il Parlamento - si legge nella nota - ha richiesto che Hospira si faccia carico del controllo del prodotto lungo tutta la filiera fino all'utente finale in modo da evitare l'impiego nella pena capitale”. L'Azienda, “tenute in considerazione le conversazioni con il Governo, con i grossisti, che rappresentano il canale principale di distribuzione ai clienti, e infine a seguito di valutazioni interne”' ha quindi “maturato la convinzione che non è realizzabile nei fatti evitare che il farmaco possa pervenire agli Istituti di pena ed essere utilizzato per la pena capitale”.

Sulla base di queste considerazioni, Hospira precisa che “non intende incorrere nell'eventualità di risultare inadempiente verso le Autorità Italiane qualora il prodotto venisse infine utilizzato nelle procedure per la pena di morte” e “vuole assolutamente evitare di esporre i propri dipendenti e l'Azienda nel suo complesso a questo tipo di rischio”.

“A seguito delle criticità relative al prodotto”, spiega l'azienda, “tenendo in considerazione anche le richieste del Parlamento e le complessità operative per riportare il farmaco sul mercato, Hospira ha deliberato di cessare la produzione”. La casa farmaceutica ''si rammarica che fattori esulanti dal proprio controllo abbiano condotto infine a questa decisione, che impatta direttamente sulle numerose strutture sanitarie che utilizzavano il farmaco perchè ne riconoscono l'efficacia da un punto di vista medico e che non potranno più ricevere il prodotto da Hospira”.

la decisione della casa farmaceutica Hospira di non produrre più il Pentotal, potenzialmente utilizzabile per praticare l’iniezione letale, raccoglie il plauso di Nessuno tocchi Caino, l’Associazione Radicale che si era mobilitata per impedire che il farmaco prodotto in Italia giungesse nei penitenziari americani.


“Ottima decisione, che va oltre le nostre aspettative,” ha dichiarato Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino. “Anche perché – afferma D’Elia - sarebbe stato per noi sufficiente che l’azienda si impegnasse a specificare nei contratti di compravendita che il prodotto è consentito solo per scopi medici e a vigilare che il Pentotal made in Italy non finisse per vie traverse nei penitenziari”.

In tal senso si era mossa la Camera dei Deputati, approvando a dicembre una mozione presentata dalla Deputata Radicale Elisabetta Zamparutti, e anche il Governo italiano che, in particolare con il Ministro Franco Frattini, aveva sposato la causa di Nessuno tocchi Caino, della Comunità di Sant’Egidio e dell’associazione umanitaria britannica Reprieve.

“Riconosciamo alla Hospira – prosegue D’Elia - di aver scelto una soluzione più radicale, sicura e in linea con l’impegno italiano a porre fine nel mondo all’assurda e arcaica pratica della pena di morte.” “Questa decisione – conclude il Segretario di Nessuno tocchi Caino - può significare ora una non breve moratoria di fatto delle esecuzioni in molti Stati della federazione americana, dove da mesi il boia risulta disoccupato proprio a causa della penuria del farmaco previsto per l’iniezione letale”.

Per saperne di piu': Nessuno Tocchi Caino

lunedì 17 gennaio 2011

Opportunità e rischi del referendum di Mirafiori

di Gianfranco Spadaccia


Da lettore di giornali e da osservatore dei fatti politici di questo paese (senza pretendere quindi di atteggiarmi ad economista e ad esperto di diritto del lavoro) non ho mai avuto nei confronti di Marchionne un pregiudizio negativo. Devo anche chiarire che, pur critico della famiglia Agnelli, non sono mai stato a differenza di altri un fautore della vendita della FIAT o del suo abbandono dell’Italia. Mi sembrava che, se si fosse verificato, un tale evento avrebbe indebolito ulteriormente una struttura industriale priva di grandi imprese e di multinazionali. Ho quindi seguito con interesse e, dal mio punto di vista, con soddisfazione, i risultati ottenuti nel risanamento finanziario della Fiat e considerato un atto di grande intelligenza e coraggio imprenditoriale aver reagito alla grave crisi economica del 2008 con le offerte di acquisto dell’Opel e della Chrysler. Compiuto dalla più fragile delle grandi multinazionali dell’auto poteva essere considerato un atto di disperazione, si è rivelato invece un atto opportuno e necessario per tentare di conseguire la dimensione e le sinergie industriali, tecnologiche e commerciali adeguate ad affrontare i problemi della FIAT e a superare le difficoltà del mercato dell’auto mondiale.


Anche a chi, come me, consideri la FIAT (con la Ferrari) e la Famiglia Agnelli, nonostante i costi scaricati sulla collettività, un risorsa e non solo un peso per il paese, non potevano tuttavia sfuggire alcuni squilibri evidenti. Nonostante le agevolazioni pubbliche e nonostante il mantenimento in Italia di una quota di mercato del 35 per cento, paragonabile a quella che gli altri grandi costruttori europei hanno nei rispettivi paesi, l’impegno produttivo in Italia si è affievolito fino a scendere, alla vigilia dell’esplodere della crisi economica, a una produzione di poco più di 700mila vetture annue. Nello stesso anno in Germania i costruttori tedeschi ne producevano circa quattro milioni e mezzo e quelli francesi circa tre milioni e mezzo (si tratta di società che producono, al pari della FIAT, in ogni parte del mondo). La differenza dipende probabilmente da molteplici fattori: da una parte sicuramente la ben diversa autorevolezza e anche il potere contrattuale degli altri governi rispetto alle società automobilistiche nel far pesare i costi sopportati da agevolazioni e finanziamenti pubblici e ottenere il mantenimento di insediamenti e di quote di produzione nazionali. Dall’altra parte, oltre alla palese assenza politica del governo italiano, hanno probabilmente influito la vecchiezza di molti impianti, la scarsa competitività dei modelli, la mancanza di una offerta corrispondente alle nuove domande e ai nuovi segmenti del mercato. E certamente un importante ruolo ha giocato anche la bassa produttività del lavoro. Sarebbe stupido negarlo. E’ sufficiente per rendersene conto mettere a confronto il numero di auto prodotte in un anno negli stabilimenti italiani rispetto a quello degli altri stabilimenti (italiani e stranieri) quasi ovunque in ogni altra parte del mondo. Ciò che per onestà intellettuale mi rifiuto di fare è considerare questa l’unica causa della decadenza della produzione automobilistica italiana.


Il mio entusiasmo per Marchionne si è cominciato ad attenuare nell’estate scorsa con la vicenda di Pomigliano. In un primo momento è prevalso il desiderio di comprendere e perfino di giustificare: se i dati sull’assenteismo erano veri, se gli indici della produttività (numero di auto prodotte per numero di operai impiegati) erano così bassi, l’amministratore delegato della FIAT non poteva non preoccuparsi di porre alcune condizioni precise che consentissero, a salvaguardia dei consistenti investimenti che si impegnava a fare, il pieno rispetto del contratto e la piena utilizzabilità degli impianti. Nella situazione stagnante di un diritto del lavoro e di una prassi contrattuale che si era rivelato impossibile adeguare alle esigenze imposte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati, anche il ricorso al referendum sul nuovo contratto aziendale con le sue deroghe al contratto nazionale di categoria, poteva essere forse considerato un opportuno atto di rottura.


Poi sono cominciati a prevalere preoccupazioni e interrogativi, riserve e dissensi.

Mi è parso che l’atto di rottura, che sembrava rivolto a dare uno scossone all’immobile prassi contrattuale, divenisse fine a sé stesso: una sorta di politica del “cosa fatta capo ha”, rivolta a piegare gli interlocutori e non a modificare innovandoli ma a cancellare i vincoli, qualsiasi vincolo, posti dalla legislazione e dai sistemi contrattuali vigenti. Ed infatti, dopo il voto di Pomigliano (dove si è registrata, se non ricordo male, la nettissima maggioranza del 64,4 per cento), il numero dei no (poco più di un terzo) è stato considerato così rilevante da far temere una marcia indietro della FIAT rispetto all’impegno preso dei nuovi investimenti. La marcia indietro non si è verificata, ma è entrato subito in scena il progetto di Fabbrica Italia, un nuovo soggetto che avrebbe dovuto interrompere la continuità con il vecchio stabilimento FIAT , nel quale sarebbero stati assunti solo i lavoratori che avessero sottoscritto individualmente il nuovo contratto aziendale già firmato a titolo collettivo e con valore erga omnes dai sindacati del Sì. A questo si sono aggiunti, prima, l’annuncio di uscita di FIAT da Federmeccanica per dar vita a una Federazione dell’Auto (che diverrebbe un sindacato per così dire domestico dal momento che per volontà della FIAT l’Italia è l’unico dei grandi paesi europei dove opera un unico produttore di automobili) e, poi, la minaccia di abbandonare Confindustria. Infine la soluzione di Pomigliano, che secondo Bonanni e Angeletti doveva rimanere una eccezione isolata, è diventata invece un modello subito esportato a Mirafiori e proposto all’intero mondo imprenditoriale italiano nella logica “a casa mia comando io”: o accettate le mie condizioni o restate senza lavoro.


Ora mi pare che, se è vero che esiste un massimalismo FIOM datato e inaccettabile, che da un decennio non firma contratti con la FIAT e che si mette di traverso ogni volta che si deve discutere di riforma del diritto di lavoro e della contrattazione sindacale, c’è il rischio che ad esso si stia contrapponendo un massimalismo uguale e contrario da parte dell’Amministratore delegato della FIAT-Chrysler. Perciò inviterei a una maggiore prudenza e a un po’ di pazienza prima di proclamare Marchionne “uomo dell’anno” come improvvidamente ha fatto Sergio Romano sul “Corriere della Sera”. E lo dice uno che fino a qualche tempo fa ha avuto solo pregiudizi positivi nei suoi confronti.


Vorrei porre in particolare due problemi che investono il pericolo di un ulteriore impoverimento delle già pesanti condizioni salariali dei lavoratori italiani e il rischio di un ulteriore colpo alla già labile democrazia sindacale.


Il primo problema riguarda una maggiore articolazione della contrattazione sindacale, che oggi privilegia il contratto nazionale di categoria, rischiando di appiattire le retribuzioni e scoraggiare la produttività. Il pericolo che intravedo è che, dietro i colpi inferti da Marchionne, la contrattazione aziendale diventi l’unico effettivo livello normativo e salariale a scapito di contratti nazionali ridotti nella migliore delle ipotesi a una esile griglia minimalista. Questa prospettiva, vista non con l’ottica della FIAT e dei settori trainanti dell’industria e dei servizi, ma con l’ottica della generalità dei lavoratori, non può non far temere una ulteriore diminuzione dei livelli retributivi e del potere d’acquisto delle classi lavoratrici. Siamo lontani insomma da quel nuovo equilibrio più articolato e virtuoso dei livelli di contrattazione, auspicato da molti. E rischiamo, se ci si continuerà ad affidare alla forza d’inerzia e alla logica delle prove di forza, di veder ripetere lo stesso errore che, in materia di flessibilità, fu commesso da chi attuò a metà i progetti Biagi, lasciando fuori della porta la riforma degli ammortizzatori sociali e gli investimenti per la formazione, con l’effetto che abbiamo prodotto molta precarietà e molto poca flessibilità (a meno di non volerla confondere con il puro e semplice sfruttamento).


Il secondo, purtroppo annoso e irrisolto, è quello della rappresentanza e della democrazia sindacale, due aspetti strettamente collegati tra loro. Michele De Lucia ha scritto che “l’assenza di democrazia sindacale produce mostri”. L’affermazione vale in generale, sempre e comunque, soprattutto in un paese dove l’articolo della Costituzione che prevede la regolazione per legge dell’attività sindacale non è mai stato attuato innanzi tutto per volontà e responsabilità dei sindacati, di tutti i tre maggiori sindacati (come del resto è avvenuto per quello riguardante i partiti politici). Ma in particolare proprio oggi sta nascendo un nuovo mostro partorito dal contratto di Mirafiori. A Mirafiori l’unica forma di democrazia sindacale, non so sinceramente se si possa considerare tale, è infatti il referendum che si sta svolgendo in queste ore (un referendum prendere o lasciare). Poi i lavoratori torneranno al lavoro e saranno esclusi da ogni altra forma di partecipazione democratica perché l’attuazione degli accordi, la vigilanza su di essi e gli spazi di contrattazione saranno gestiti da una rappresentanza solo burocratica dei sindacati firmatari del contratto (quindici delegati sindacali per ogni sigla) mentre la FIOM, che può piacere o non piacere ma è stata fino ad oggi considerata il sindacato maggioritario dei metalmeccanici, non avrà alcun diritto di rappresentanza in fabbrica. Sul Corriere De Vico ha giustamente paragonato questa situazione al “Porcellum”.


Appartengo a un Partito, il Radicale, che è a giusto titolo considerato il partito della democrazia e dei diritti umani. Questa situazione non mi sembra accettabile né per le condizioni dei lavoratori di Mirafiori e tanto meno come modello da esportare alle altre aziende e agli altri settori del mondo del lavoro. Mi piacerebbe che a queste preoccupazioni non si rispondesse con l’accusa ingiusta e superficiale di conservatorismo. Questo articolo non nasce dalla negazione ma dalla assoluta consapevolezza della gravità dell’emergenza economica del paese e della necessità di affrontare con urgenza e con strumenti adeguati i problemi della produttività del lavoro. Riforma della contrattazione e riforma delle regole della rappresentanza sindacale, che garantiscano l’esercizio dei diritti dei lavoratori, il rispetto del contratto e il pieno utilizzo degli impianti, ne costituiscono le necessarie premesse. A questo sindacati e Confindustria giungono con grave ritardo mentre il Governo è rimasto per un intero anno silenzioso, paralizzato e assente.


Ieri Berlusconi, Presidente del Consiglio di un governo latitante, ha interrotto un silenzio assordante per legittimare l’ultimatum di Marchionne (se vincessero i No sarebbe giusto andare a produrre fuori d’Italia). Berlusconi aveva accanto Angela Merkel, un cancelliere tedesco, che si è adoperata per mantenere la produzione di milioni di autoveicoli in Germania e che, quando si è profilata per effetto della crisi economica, la possibilità di chiusura della Opel da parte della General Motor, non solo ha fatto di tutto perchè la chiusura fosse evitata ma anche perché la Opel non finisse come la Chrysler in mano alla FIAT. Quest’ultima scelta è stata dettata da una mediocre miopia nazionale (il cancelliere si rivolse perfino a una azienda russa) ma le scelte del Governo italiano non si sono mai contrapposte per una maggiore visione europea.




In quel caso onore a Marchionne e alla sua offerta d’acquisto. Tuttavia, in un’ottica europea e non solo globale, sia Marchionne sia le organizzazioni imprenditoriali e sindacali dovrebbero guardare di più al modello tedesco delle relazioni industriali a cominciare da quelle del settore dell’auto invece di guardare indietro agli anni 70 (la FIOM) o di guardare con preferenza alla Serbia o al Brasile (come sembra fare Marchionne). Il discorso del costo del lavoro non è determinante a fronte di investimenti ad altissima intensità di capitale come sono quelli dell’auto. Forse è tempo che cominciamo a guardare al modo in cui in Germania in Francia e in Gran Bretagna si affrontino, con successi maggiori dei nostri, i problemi della globalizzazione. Forse lì non si è dimenticato che il lavoro, oltre ad essere un costo, è anche una risorsa.

Chiedere inoltre alla FIAT qualche chiarimento sui tempi e i progetti che dovrebbero caratterizzare il promesso investimento di venti miliardi non è macchiarsi di un reato di lesa maestà, come sembra ritenere il suo A.D. A farlo sono stati non i massimalisti della FIOM ma giornalisti autorevoli e indipendenti come Mucchetti e Cisnetto, che hanno rimproverato all’estremismo Fiom e alla arrendevolezza degli altri sindacati la responsabilità di aver fornito un alibi alla reticenza fin qui gelosamente difesa da Marchionne.



(Fonte: Notizie Radicali)

domenica 16 gennaio 2011

Tunisia: la battaglia on line

Attacchi nei confronti dei cyber-attivisti, censura del sito Wikileaks, stato di polizia nemico di internet, la battaglia di Anonymous.org  (poster a fianco).

sabato 15 gennaio 2011

EMERGENZA GLOBALE DELLE API

In silenzio, miliardi di api stanno morendo e la nostra intera catena alimentare è in pericolo. Le api non solo producono il miele, ma sono una gigantesca forza lavoro, perché impollinano ben il 90% delle piante che coltiviamo.

Diversi studi scientifici hanno individuato in un gruppo di pesticidi tossici la loro drastica diminuzione, mentre la popolazione delle api è aumentata incredibilmente nei quattro paesi europei che hanno vietato questi prodotti. Ma alcune potenti industrie chimiche stanno facendo pressioni enormi per continuare a vendere questo veleno. L'opportunità che abbiamo per salvare le api ora è di spingere gli Stati Uniti e l'Unione europea a unirsi nella messa al bando di quei prodotti: la loro azione è cruciale perché avrebbe un effetto a catena nel resto del mondo.

Non abbiamo tempo da perdere: il dibattito su cosa fare si sta facendo infuocato. Qui non si tratta soltanto di salvare le api, ma della sopravvivenza dell'ecosistema. Costruiamo un gigantesco ronzio globale diretto all'UE e agli USA per mettere fuori legge questi composti chimici killer e salvare così le nostre api e il nostro cibo. Firma la petizione urgente  inoltrala a tutti.

Le api sono essenziali per la vita sulla Terra: ogni anno impollinano piante e coltivazioni per un valore stimato in 40 miliardi di dollari, oltre un terzo delle scorte alimentari in molti paesi. Senza un'azione immediata per salvare le api potremmo rimanere senza frutta, verdura, noci, oli e cotone.


Negli ultimi anni la popolazione delle api ha registrato un notevole declino globale: alcune specie di api sono ora estinte e altre arrivano solo al 4% del loro numero precedente. Gli scienziati si stanno arrovellando per trovare le risposte. Alcuni studi ritengono che il declino sia dovuto alla combinazione di alcuni fattori, incluse malattie, la perdita dell'habitat naturale e prodotti chimici tossici. Ma una nuova ricerca indipendente di primo piano ha prodotto dati incontrovertibili che danno la colpa ai pesticidi neonicotinoidi. Francia, Italia, Slovenia e Germania, paesi in cui è basato il suo più grande produttore Bayer, hanno vietato uno di questi killer delle api. Ma Bayer continua a esportare il suo veleno in tutto il mondo.

La questione sta per raggiungere il punto di ebollizione, visto che importanti nuovi studi confermano la portata del problema. Se riusciremo a convincere i decisori europei e statunitensi ad agire, altri li seguiranno. Non sarà facile. Un documento trapelato dimostra che l'Agenzia statunitense per la protezione dell'ambiente era a conoscenza dei pericoli del pesticida, ma che li ha ignorati. Il documento dice che il prodotto "altamente tossico" della Bayer comporta "un grave rischio per insetti fuori bersaglio [api da miele]".


Dobbiamo far sentire le nostre voci per contrastare la forte influenza esercitata da Bayer sui decisori pubblici e sugli scienziati, sia negli Stati Uniti che nell'Unione europea, dove finanzia gli studi e siede negli organi decisionali. I veri esperti - gli apicoltori e gli agricoltori - vogliono il divieto di questi pesticidi finché e qualora non avremo studi dimostrati e indipendenti che dimostrano che siamo al sicuro.

Non possiamo più permetterci di lasciare la nostra delicata catena alimentare nelle mani della ricerca diretta dall'industria chimica e dai regolatori che sono sul loro libro paga. Con il divieto di questi pesticidi saremo più vicini a un mondo sicuro per noi stessi e e per le altre specie di cui abbiamo cura e che dipendono da noi.


Firma la petizione

domenica 2 gennaio 2011

sabato 1 gennaio 2011

BUON ANNO

La solitudine del laico
di Angiolo Bandinelli


La solitudine eccita le riflessioni, ma anche le emozioni. Non parlo della solitudine che è condizione strutturale, dicono, dell’uomo moderno, l’uomo-massa, quello della società industriale (che forse, però, non c’è già più, avendo lasciato il posto all’uomo del postmoderno, delle tribù metropolitane con i loro gerghi e riti internettici, nuovamente collettivi). Non penso nemmeno alla solitudine, per dire, del carcerato. Il carcerato ha, seppure coatta e miserabile, una vita sociale anche quando, chiuso nella sua cella, resta solo (tra l’altro, almeno in Italia, il carcerato non sconta più questa forma di pena cui pure tendeva la condanna, quando la giustizia rispettava i suoi codici etici e funzionali). Parlo di quella solitudine (esistenziale?) che pochi sperimentano, o subiscono, a seguito di loro dolorose, personali vicende. Parlo insomma della solitudine di chi è rimasto solo. Càpita, no? Per un colpo del destino. Un qualsiasi “Umberto D.” alla De Sica, anche senza cagnolino. Costui riflette ormai molto, non ha altro da fare. E, sempre senza che lo voglia, patisce emozioni intense e violente, tutte virate al negativo. Questa è, forse, la condizione estrema dell’uomo. Al di sotto anche della soglia minima della fede, di colui che ha una fede incarnata, etichettata e ritualizzata, che gli dà sollievo, o almeno così lui dice.


In tale estrema solitudine (eppure - straordinariamente - attorno a lui, al suo fianco, davanti o dietro di lui, una folla di suoi simili, di esseri ugualmente soli, gli attraversa la strada o lo accompagna) l’uomo è vulnerabile, miserabile bersaglio di estreme passioni e pensieri.




Così, in quella sua nudità, quest’uomo scopre le fonti stesse dell’esser laico. Non userei paroloni, non mi riferirei all’angoscia di un Kierkegaard o roba del genere. Bisogna essere umili e, in qualche modo, concreti. Semplicemente, bisogna sapere avvertire che al di sotto di questa condizione non c’è altro, né da sperare né da temere. Si è nudi e anche un po’ piatti, come una suola delle scarpe consunta. Che sia questa la scaturigine, o sennò l’esito ultimo della condizione umana? Capisco i mussulmani che seppelliscono i corpi avvolgendoli in un semplice lenzuolo bianco, qualcosa di simile alla sindone di Gesù, sacra in quanto avvolge comunque l’ultima e definitiva realtà dell’umano, quando ogni orpello - ogni finzione - non serve più. Se sia questa una condizione laica o religiosa non saprei dire: non ho paura del termine “religione”, per denotare la laicità rivelatamisi nella e dalla solitudine.

In questa condizione, comunque, ogni infingimento perde di senso, diventa vuoto, niente. Pèrdono senso, a questo punto estremo, le ritualità di cui si ammanta più o meno ogni religione, religiosità, chiesa. La nudità è laica, nel corpo come nella mente. Ci accomuna, ci rende partecipi di questo fenomeno oscuro il fatto che siamo uomini; lo siamo chissà perché e percome, anche se scienziati da una parte e chierici dall’altra si ostinano a fornirci ragioni, spiegazioni, etc. Macché, le neurobiologie, il comportamentismo, etc., valgono quanto una preghiera, cioè non spiegano nulla, il mistero uomo resta tale. Un mistero inspiegabile; perché è forse un semplice problema di linguaggio (per spiegare qualcosa espressa in un linguaggio, occorre un metalinguaggio, e il nuovo metalinguaggio richiede un metalinguaggio superiore, all’infinito, perché il primo come i successivi non spiegano nulla, non afferrano mai la spiegazione ultima, definitiva). Così il laico si contenta di quel che vede, non chiede il “perché”, non vuole rincorrere spiegazioni, l’una dentro l’altra all’infinito, come matrioske. Non gli servono.

Piuttosto, il laico è attento al diritto, alla legge, alla precisa definizione di norme di comportamento, istituzionali, ecc. E’ l’unica realtà, del tutto comportamentale, su cui gli umani devono poter contare, per superare la solitudine. Rigorosamente, pena il disastro. C’è chi lamenta la società “fluida” di oggi e auspica, per darle nuovo corpo e nuove certezze, un generale consolidamento e rassodamento costituito dal ritorno alla fede. Quale fede? Io sono convinto che è più utile e importante per l’uomo un Orario dei treni globale, con tutte le coincidenze a posto, da poter essere utilizzato dal cristiano come dal musulmano, dall’animista, dal confuciano o dal taoista. L’Orario dei treni è una Bibbia eminentemente laica, sicura e indiscutibile, almeno finché le autorità preposte non ritengano utile e necessario modificarlo, previo accordo condiviso. A me intanto basta che quell’Orario mi faccia sempre arrivare, in perfetto orario, da Milano a Parigi o a Mosca. E’ la chiarezza della laicità. Ma forse questi sono pensieri malinconiosi di una fine d’anno un po’ uggiosa, con poco sole e pochi consumi. Quindi, anche il laico solitario non può che augurare un buon Anno Nuovo, sia pure con tutte le riserve leopardiane sugli Almanacchi e la loro illusoria pretesa di darci nuove speranze e consolazioni. Da domani, giuro, tornerò a occuparmi di darwinismo, di evoluzionismo, di clericalismo ed altre consimili banalità.


(*) da “Il Foglio”



(Fonte: Notizie Radicali)