mercoledì 29 settembre 2010

Violenza o resistenza aggressiva nonviolenta?

Il saggio che segue è tratto da un opuscolo pubblicato anni fa negli Stati Uniti. L’autore, Phillips P.Moulton, è stato professore di filosofia all’Adrian College, ed ha lavorato specialmente in corsi interdisciplinari, tenendo seminari su “L’integrazione della Conoscenza”.
(Fonte: Notizie Radicali)
Premessa.



Gli attentati, le rivolte, ed altre forme di spargimento di sangue nella seconda metà degli anni ’60 hanno accresciuto l’ansia degli americani.

Eppure, la violenza diffusa ed intensa non costituisce un elemento nuovo nella storia del nostro paese. Con una crudeltà sconfinante nel genocidio venne strappato agli Indiani il controllo del continente; per mezzo di una rivoluzione violenta si ottenne l’indipendenza nazionale; spargimenti di sangue caratterizzarono la marcia verso la frontiera dell’Ovest, e gli atti scalmanati dei “vigilantes”; un grave problema sociale precipitò nella selvaggia Guerra Civile. La dialettica lavoro-capitale, per un periodo di oltre sessant’anni, fu segnata da rivolte, dinamite, incendi, assassini, su un fronte, e dal brutale, spietato esercizio del potere, ad opera degli ufficiali di compagnia, della polizia, sull’altro. Ci trovammo invischiati, in due guerre mondiali.

In aggiunta alla violenza aperta, visibile, una valutazione realistica dell’attuale stadio di civiltà deve considerare la violenza velata, che potremmo definire “sistematica”, impregnante l’intero organismo sociale, intessuta nei suoi gangli più intimi. Lev Tolstoj richiamò l’attenzione su di essa oltre 70 anni fa, ne “La Legge dell’Amore e la Legge della Violenza”. Riferendosi a figure sociali rispettate, quali il giudice e il proprietario terriero, egli osservava: “Noi non riusciamo a percepire tutti i crimini che essi commettono ogni giorno, in nome del bene pubblico”.


Ne “I dannati della terra”, lo psicoanalista negro algerino Franz Fanon descrive la violenza economica messa in atto da coloro che impoveriscono i nativi africani attraverso il controllo dei mezzi di produzione. Questo processo è sostenuto dalla violenza psicologica, mediante la quale si tende ad instillare negli oppressi “la mentalità dello schiavo”.

Sociodinamica della violenza.

In larga misura, la violenza di chi detiene il potere è talmente diluita nelle istituzioni politico-sociali, che i suoi agenti hanno solo un’oscura coscienza di essa. Velata od implicita, essa diviene aperta quando il potere è minacciato. Detto nei minimi termini: la violenza è il mezzo estremo, mediante il quale i detentori del potere sociale difendono la propria collocazione.

Per quanto riguarda la violenza degli oppressi, il problema si complica. La causa più rilevante è senza dubbio la frustrazione. Le tesi sul rapporto tra l’intensità della frustrazione e l’ “escalation” della violenza, delineata dallo psicologo Dollard e dal suo gruppo nel 1939, sono state confermate e sviluppate in recenti studi. Tale rapporti (frustrazione-violenza) non si riferisce meramente alla contraddizione materiale che separa ciò a cui la gente aspira da ciò che le è possibile ottenere. La frustrazione è originata spesso da un vero e proprio senso di oltraggio morale – “io merito, e dovrei essere in grado di raggiungere, molto di più” – e dalla convinzione che si stia compiendo un progresso inadeguato.


Posti di fronte alla frustrazione dei negri degli USA e di milioni di “emarginati” del Terzo Mondo, numerosi esponenti religiosi e teologi sono giunti ad approvare la violenza. Essi tendono a “condonarla”, quando siano convinti che si tratti di una giusta causa, che un risultato favorevole sia possibile, e che nessun altro metodo sia idoneo a raggiungere la meta. E’, in sostanza, la dottrina della “guerra giusta”, elaborata da Sant’Agostino. La tendenza odierna è quella di negarne l’applicabilità alla guerra internazionale, ma di affermarla nelle lotte rivoluzionarie. Un primo esempio fu Camillo Torres, il prete rivoluzionario colombiano. Dapprima oppositore della violenza, egli giunse ad aggregarsi al movimento di guerriglia, asserendo che “il popolo sa che i sentieri legali sono esauriti. Il popolo è in uno stato di disperazione ed è risoluto a rischiare la vita, affinché le nuove generazioni di colombiani non restino schiave…Ogni sincero rivoluzionario deve riconoscere che la lotta armata è l’unica alternativa rimasta” (Goulet, pag.44).

I vantaggi e i mali della violenza
In taluni casi, ed entro qualche limite, la violenza può raggiungere gli scopi che i suoi agenti di prefiggono.

Dal punto di vista degli oppressi essa può servire almeno come un risonante mezzo di comunicazione. Essa drammatizza i bisogni, e costringe l’ordine costituito a riconoscerli. Ad esempio: le rivolte della seconda metà degli anni ’60 hanno stimolato la consapevolezza del pubblico sulle condizioni di vita nei ghetti, e sulla determinazione dei negri a non tollerarle più a lungo. Così, il “Black Manifesto”, con le sue implicite minacce di violenza spinse molte comunità ecclesiali, che nel complesso lo rigettavano, a fare passi positivi in favore della popolazione di colore.


La violenza raggiunge talora i suoi scopi immediati. Ne fa fede la Rivoluzione Americana; e come sottolinea Hannah Arendt: “La Francia non avrebbe ottenuto la più radicale legge di riforma da Napoleone ad oggi, per modificare il suo antiquato sistema educativo, senza le rivolte studentesche”.


I “vantaggi” della violenza non si militano ai possibili mutamenti nell’ordine sociale. Franz Fanon, Jean Paul Sartre ed altri autori, pongono l’accento sulla auto-realizzazione personale del partecipante all’evento violento. Quando la violenza “sistemica” della società ha, per intere generazioni frustrato un gruppo di persone, queste tendono a diventare “cose”, con un carente senso della propria identità e della propria umanità. Il reagire violentemente può avere soltanto un effetto purificante: si ottiene una “liberazione psicologica”, purgandosi dalla paura e lasciando sfogo alla rabbia repressa. Nell’atto violento, l’individuo può momentaneamente ribaltare il proprio rapporto con l’ambiente; per una volta, almeno, egli “conta qualcosa”, guadagna un senso di potenza e di identità.


Anche il sentimento dell’ “unità di gruppo” può essere sperimentato, nell’azione violenta. Nell’opera di Remarque “All’Ovest niente di nuovo”, si avverte il cameratismo vissuto dai soldati nelle trincee. Allo stesso modo, il partecipante ad una rivolta può provare un nuovo spirito comunitario. Anche l’assurdo di “soffrire e far soffrire insieme”, può, in apparenza, dare significato ad un’esistenza precedentemente monotona.


Per quanto autentici possano sembrare i sopraelencati vantaggi (in realtà è opinabile che lo siano, in quanto non sono necessariamente correlati all’azione violenta, ed i medesimi risultati di comunicazione drammatica, di “liberazione psicologica” ecc, si ottengono in misura ben più consistente e stabile, mediante tecniche nonviolente), i mali che la violenza incorpora e semina sopravanzano di gran lunga i possibili vantaggi.


A prescindere (per ora) da ogni considerazione etico-religiosa, ciò vale anche sul piano pratico. Studi compiuti da numerosi esperti, in vari settori concordano sul fatto che raramente la violenza migliora una situazione, e che, anzi, in linea generale, la peggiora, si tratti dell’azione di un governo contro i dissidenti o viceversa (Graham, pagg.362, 785-788). I governi “vincono” più spesso dei dissidenti, ma i “vantaggi” sono, in genere, di breve durata. I conflitti sociali riesplodono a meno che non si sia posto rimedio alle cause prime del malcontento. Quando i dissidenti hanno successo, come nei casi di Russia, Cina e Cuba, i risultati ultimi sono difficilmente migliori, anche dal punto di vista di chi ha sostenuto la violenza.


Qualunque sia la parte vincente, è verosimile che emergano molte caratteristiche di uno stato di polizia. I governi adottano misure repressive per prevenire ulteriori rivolte; i dissidenti, giunti al potere, fanno altrettanto, per frenare i “contro-rivoluzionari. La “calma” e l’“ordine” sono ottenuti spianando la via al totalitarismo. Anche la ragione diviene una vittima: le emozioni di timore ed ostilità guadagnano un forte ascendente. “Ero diventato una bestia”, esclamò un poliziotto al sociologo Alberto Reiss, dell’università del Michigan, durante una inchiesta sulla rivolta di Newark, nel 1967.


Quando un conflitto si prolunga o di rinnova, ognuna delle parti tende a sviluppare una ideologia di base irrazionale, per rafforzare il proprio atteggiamento (pseudo-motivazioni d’ordine etico-religioso, informazione “sistematicamente” calunniosa sul “nemico”, ecc.).


Nella sfera dei rapporti internazionali, l’impossibilità di controllo e l’irrazionalità della violenza sono particolarmente evidenti. La guerra non può mai essere efficace più che al 50 per cento per ogni parte vincente, ve n’è una che perde. In genere, anche i vincitori ottengono solo una piccola porzione dei loro obiettivi originari. La tendenza della violenza a riprodursi in modo incontrollato preannuncia il disastro: quasi ogni conflitto locale può ingigantirsi in un olocausto nucleare. Ciò impone che un metodo alternativo di trattare le controversie internazionali venga adottato: la catena della violenza deve essere spezzata.


Il male forse più pernicioso che la violenza contiene, consiste nel porre un “precedente”, un esempio. Quando gli Americani sostengono lo spargimento di sangue in Indovina, quando la TV a colori trasporta gli orrori e le mutilazioni nei nostri salotti, non può far meraviglia che i gruppi oppressi ricorrano a gradi inferiori di violenza per rettificare le ingiustizie. Se si può uccidere per la nazione, perché non uccidere per una Harlem migliore?

Vista in questa luce, la Rivoluzione Statunitense fu una delle più tragiche catastrofi della storia umana. Includendo le battaglie tra Whigs e Tories, prima e dopo la Dichiarazione di Indipendenza, una enorme quantità di stragi e di torture fu attuata in nome della libertà. Poiché la rivoluzione ebbe successo, essa è stata onorata nella nostra storia ed usata poi per giustificare quasi ogni genere di violenza. Le ribellioni agrarie del 1790, i killers della storia delle frontiere: costoro, e molti altri, giustificarono gli spargimenti di sangue per mezzo di un “precedente”: la Rivoluzione Americana. Alcuni portavoce del Vietcong, del Nord Vietnam, di rivoluzioni contemporanee, del Black Power hanno citato…la Rivoluzione Americana.


La natura viziosa di questo precedente” fu ben espressa da Tolstoj: “Se si ammette per una volta che gli uomini possano torturare e uccidere i propri simili, in nome dell’umanità, altri possono rivendicare lo stesso diritto di torturare e di uccidere in nome di qualche ideale”.


Il “precedente”, e l’esempio, già gravi nello stimolare ulteriori atti specifici, sono ancora più insidiosi nell’acclimatare la violenza dei nostri costumi; il carattere del nostro pensare muta gradualmente: atti che una volta ci apparivano orribili, divengono accettabili, i tabù contro l’uccisione diminuiscono, e il rispetto per la vita umana decade.


Questa è l’eredità avvelenata che la Rivoluzione Americana, le successive guerre e gli atti di violenza ci hanno trasmesso, e che noi aumentiamo e trasmettiamo alla posterità.


Questa constatazione ci riporta ad una obiezione fondamentale contro la violenza, di portata più rilevante che non quelle d’ordine pratico: la violenza è moralmente ingiusta.


Si accetta ormai universalmente che alcuni tipi di violenza, quali la tortura, l’uccisione indiscriminata, il trattare le persone come “cose”, siano intrinsecamente ingiusti; ma le opinioni divergono in relazione a quali atti siano “giusti” od “ingiusti”, nel caso in cui, ad esempio, esistano due sole alternative, entrambi implicanti l’uccisione. E’ giusto uccidere un Hitler, per salvare innumerevoli vite? O uccidere un neonato i cui pianti potrebbero rivelare la presenza di un gruppo di inermi ad un feroce nemico? Qualcuno può affermare che tali atti non sono moralmente giustificati: secondo questa visione, la legge morale dell’universo (legge divina), il Giudizio Ultimo, faranno giustizia, ed all’uomo non resta che uniformarsi al precetto della assoluta non-uccisione, anche a rischio del sacrificio collettivo.


Molti non assumono questa posizione; essi affermano che si deve scegliere il minore tra i due mali, o, per esprimerci in modo diverso, che un fine sommamente buono giustifica i mezzi i quali, in se stessi sarebbero considerati malvagi (vedi, esempio di Hitler, ecc.). Senza tentare di risolvere qui l’intero complesso problema del rapporto tra fini e mezzi, notiamo solo che l’uccisione è, in ogni caso, un mezzo estremamente pericoloso, ed è generalmente incerto il conseguimento dei fini per i quali è commessa. Trascurando dunque casi paradossali (quali gli aut aut succitati), e singoli, possiamo affermare, sulla base della disamina svolta, che l’uccisione e, più in generale, la violenza sono mezzi immorali e non risolutori.



Nel Sud Africa, molti seguaci di A.Luthuli hanno rinnegato la nonviolenza e si sono raccolti in armi attorno al movimento “Spear of the Nation”, poiché lunghi anni di frustrazione li hanno convinti che nessun’altra soluzione è possibile.


Durante due periodi in particolare, della storia statunitense, anche i più sinceri nonviolenti furono tentati di giustificare la violenza: durante la Guerra Civile, quando gli abolizionisti si schierarono con gli stati del Nord, e durante la depressione economica degli anni ’30, quando la violenza parve essere l’ultima risorsa dei “lavoratori comuni” e dei disoccupati.


Il nonviolento, specialmente se nutre convinzioni religiose, ha sempre di fronte un dilemma reale. La sua partecipazione alle sofferenze degli oppressi lo spinge ad impegnarsi per un cambiamento radicale. Tuttavia egli riconosce che anche l’oppressore è un figlio di Dio, “catturato” in un sistema che non è di sua invenzione. Pertanto l’oppressore non può essere trattato come una “cosa” da liquidare.


Il nonviolento crede che raramente cattivi metodi producano buoni frutti; le possibilità della violenza nell’effettuare miglioramenti a lungo termine, sono scarse. Comunque possiamo affermare, anche sulla scorta degli esempi citati, che nella sociodinamica della violenza, la frustrazione prolungata costituisce una forza motrice indiscutibilmente enorme.

Violenza acquisita, non innata. Alcune forme di rimozione

Prima di addentrarci nell’esplorazione di possibili alternative, dobbiamo chiederci se la violenza sia o meno una componente della natura umana.



L’evidenza indica, come ragionevolmente vera, l’ipotesi secondo la quale l’inclinazione dell’uomo alla violenza è acquisita più che istintiva od innata.


Nel 1902, Pietro Kropotkin pubblicò l’opera pionieristica sulla simbiosi: “Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione”, votata a correggere l’unilaterale enfasi darwiniana sugli aspetti predatori dell’esistenza. Negli anni ’50, Piritim Sorokin, del “Centro Ricerche di Harvard sull’Altruismo Creativo”, ne “Le vie ed il potere dell’Amore”, e in altri volumi, sottolineò il significato della simpatia e della cooperazione nell’evoluzione dell’uomo.


Più di recente, l’antropologo M.F. Ashley Montagu ha compilato numerosi volumi, nei quali giunge ad analoghe conclusioni. Nel 1968 egli pubblicò “Man and Agression”, contenente saggi di quattordici esperti, i quali criticano aspramente la metodologia di Ardrey e Lorenz, e la loro opinione che l’uomo sia, in modo preminente un animale violento per tendenze innate. Numerose ricerche attestano che i Primati pre-umani erano fondamentalmente amabili e che almeno alcune società umane hanno valorizzato la gentilezza e la pace, più che la forza e la violenza. Una schiacciante evidenza, secondo Montagu (pagg.12, 15-16, 34-35, 49, 61), indica l’importanza delle attività nonviolente e cooperative nella vita dell’uomo primitivo, le “potenzialità sociali” di quest’ultimo, la sua capacità di un comportamento costruttivo.


La violenza non è istintiva, ma emerge durante il processo di socializzazione ed è pertanto, in larga parte, un attributo culturale. Quando una società onora i portatori di violenza, nelle successive generazioni si trasmette e circola tale inclinazione. Quando invece l’azione ostile non è gratificata, come accade presso gli indiani Zuni e Hopi, essa si rileva a mala pena.


Negli ultimi decenni in America la gente ha “imparato” ad essere più violenta. Ma possiamo invertire questo orientamento, con l’ausilio di una autentica controcultura. Per fare ciò, disponiamo di due metodi principali, che non si escludono a vicenda. Il primo consiste nel ridurre i conflitti rimuovendone le cause sociali, per la massima estensione possibile. Si tratta di un rimedio ovvio, e, tuttavia, non è stato adeguatamente applicato, per quanto la sua urgenza fosse sottolineata nel “Report of The National Advisory Commission on Civil Disorders” (comunemente detto “Rapporto Kerner”).


Per quanto riguarda il secondo metodo, esso consiste nel trattare i rimanenti conflitti per mezzo di tecniche nonviolento. Nel libro “On Agression” Konrad Lorenz auspica che “l’entusiasmo militante della gioventù” sia convogliato verso “cause” di reale valore nel mondo contemporaneo. In precedenza, nel nostro secolo, lo psicologo William James, nel famoso saggio “The Moral Equivalent of War” accettava come positive le “virtù marziali”, ma affermava che esse potrebbero svilupparsi ed impiegarsi in progetti costruttivi. Questi autori, dunque, fanno riferimento ad una importante ipotesi nonviolenta: la de-direzione delle tendenze aggressive.


La prima alternativa alla violenza

L’uomo possiede risorse adeguate a ridurre drasticamente le frustrazioni che generano violenza. Ovviamente, i programmi costruttivi di alternativa socio-culturale non elimineranno ogni tensione e frustrazione; occorre, pertanto, escogitare ed impiegare metodi nonviolenti idonei a dirimere i conflitti che inevitabilmente nascono.

Un approccio nonviolento di grande efficacia fu quello di John Woolman, esponente quacchero nell’America coloniale. Egli è ricordato per l’intensa opera volta a sensibilizzare i correligionari sui mali dello schiavismo. Il suo metodo era basato in primo luogo sulla persuasione “faccia a faccia”; nel carattere di Woolman erano talmente infusi amore e umiltà, che egli destava ben poco risentimento ogni qual volta presentava il proprio messaggio. In ogni epoca e situazione, coloro che si oppongono al male possono trarre una considerevole facoltà di discernimento della comprensione della personalità di John Woolman, così com’è riflessa nel suo “Journal”. Qualsiasi altro metodo nonviolento si possa impiegare, l’esercitare la sorta di influenza che Woolman esercitò attraverso la forza del carattere e della persuasione, rafforzerebbe enormemente l’impatto totale contro le barriere del male.

Tuttavia, i soli metodi woolmaniani sarebbero insufficienti, nel ben più complesso mondo del tardo ‘900.

Resistenza aggressiva nonviolenta

E’ applicabile oggi, una autentica alternativa, che non è stata considerata a sufficienza: la resistenza aggressiva nonviolenta altrimenti detta “azione diretta nonviolenta”.

I critici della nonviolenza hanno sovente un’idea inadeguata delle sue possibili implicazioni. Molti, ad esempio, si riferiscono ad essa come ad un insieme di tecniche il cui impiego “è visto di buon occhio” dagli oppressori, essendo troppo innocuo per minacciare lo status quo. Per altri, il termine nonviolenza denota unicamente non-resistenza, passività, nei confronti del male.

La resistenza aggressiva nonviolenta di cui parliamo è del tutto differente. Nel rigettare la violenza essa è, appunto, aggressiva più che passiva, e comporta resistenza più che sottomissione.

Martin Luther King definiva questo progetto come “una sintesi superiore”; infatti esso incorpora gli elementi più validi della persuasione da un lato, e della rivolta dall’altro, mentre manca degli aspetti carenti della prima, e di quelli violenti, immorali, non risolutori, della seconda.
L’azione nonviolenta necessita di progettazione e di organizzazione disciplinate ed accurate. Numerose le tecniche a disposizione: dalla persuasione razionale, a proteste, dimostrazioni, scioperi, boicottaggi, sit-in, culminando nella disobbedienza civile di massa. L’obiettivo è quello di esercitare una notevole pressione – che M.L.King definiva “potere coercitivo costruttivo”.

Naturalmente la linea di demarcazione tra l’azione nonviolenta e quella violenta non può essere sempre tracciata in modo netto. I critici potrebbero obiettare che il “potere coercitivo costruttivo” di King si distingue a fatica dalle forme più edulcorate della violenza. Si può cavillare a non finire, ed immaginare situazioni ipotetiche nelle quali l’attivista nonviolento potrebbe difficilmente essere coerente al 100 per cento. Tutto ciò è ammissibile: nel nostro complicato mondo, di rado si può operare su “posizioni assolute”. Eppure, vi è una differenza qualitativa, di fondo, tra l’approccio di M.L.King al problema della violenza, e quello, ad esempio, di Franz Fanon: nei momenti delle scelte e delle decisioni, la distinzione può essere marcata.

Le basi etiche della resistenza aggressiva nonviolenta

La maggior parte degli esponenti della nonviolenza, non pensano ad essa come consistente unicamente in mere tecniche. Al contrario, la ritengono fondata su di una solida filosofia, la quale includa la fede nella essenziale natura morale dell’Universo.

Gandhi attribuiva la incapacità umana di calcolare con precisione il rapporto mezzi-fine, al nostro essere strumenti di una Volontà Superiore, piuttosto che arbitri dei nostri propri destini. Ciò lo induceva a focalizzarsi sulla purezza dei mezzi, e a considerare la percezione della Verità, e l’ampliamento nella sfera di coscienza umana, più importanti del conseguimento di obbiettivi “specifici”.

Martin Luther King metteva in rilievo la co-essenzialità di mezzi e fine: il mezzo rappresentava il fine in svolgimento, come nel rapporto tra il seme e la pianta. Strettamente legata a questo punto di vista, è la convinzione dell’imperativo del dovere (morale): si tratta della millenaria idea secondo cui l’uomo ha l’obbligo incondizionato di operare nella giustizia, e di astenersi dal compiere il male. Egli non deve prendere decisioni unicamente sulla base delle prevedibili conseguenze: deve agire per il valore dell’atto in sé (una delle più antiche formulazioni di questo assioma, particolarmente marcata, si trova nel testo induista “Bhagavad Gita”; ndr).

Cruciale, in questa concezione, è quella che Kant avrebbe definito una “buona volontà”, la quale “non è buona a causa di ciò che ha per effetto, o che realizza; è buona solo per il suo volere, è buona di per sé”. Anche se essa non ottenesse alcuno dei suoi propositi, “brillerebbe come un gioiello nella sua propria giustizia, come se qualcosa che ha piena ragione di essere in se stessa”. Kant elaborò una metafisica accuratamente ragionata, e non è il caso di svilupparla in questa sede; non tutti i nonviolenti concorderebbero su di essa nella stessa misura; tuttavia, in linea generale, essi concepiscono la nonviolenza in accordo con l’imperativo kantiano.

Il cuore della filosofia di Socrate pone pure l’accento sull’imperativo morale. Socrate insegnava che è meglio subire un’ingiustizia, piuttosto che infliggerla, poiché il più grave danno che si possa arrecare all’uomo è il male dell’anima, implicito nelle azioni malvagie.

L’opinione di Socrate è chiarita nella “Apologia” dove egli afferma che i suoi accusatori danneggiano se stessi, mettendolo a morte, poiché le loro anime si deteriorano in tale procedimento, essi non possono danneggiare lui, dal momento che sono incapaci di peggiorarlo sotto il profilo etico. “Danneggiare un uomo vuol dire renderlo meno buono”, sta scritto nella “Repubblica”.

Circa 570 anni dopo, Marco Aurelio, sviluppò il pensiero socratico in questo sillogismo: in un universo ragionevole l’estremo bene e l’estremo male non giungono a caso agli individui, cioè senza riferimento ai loro meriti e demeriti. Eppure, “la morte e la vita, la fatica ed il piacere, la ricchezza e la povertà” sembrano appunto giungere casualmente; dunque questi non possono costituire i valori ultimi dell’esistenza. I beni non sono la qualità del carattere, che la gente o le circostanze non possono accordarci o toglierci, in assoluto. Nulla, sostiene Marco Aurelio nelle “Meditazioni”, può trattenerci dall’essere equanimi, di gran cuore, casti, saggi, risoluti, veritieri, rispettosi del sé, liberi”. Il vero danno che può assediare un uomo è la corruzione della mente o dell’anima, “pestilenza che attacca le creature viventi nella loro umanità”. Basilarmente, continua Marco Aurelio, gli altri non possono danneggiarci, solo noi possiamo farlo. Situarsi dalla parte del bene, o del male, rientra, in ultima analisi, nel nostro potere.

Il problema dell’imperativo morale, variamente espresso in Kant, Socrate o Marco Aurelio, è di cruciale importanza per la comprensione della nonviolenza; il principio-chiave che distingue questa dalla violenza è che le azioni compiute in accordo con l’imperativo morale devono essere intrinsecamente giuste, buone in se stesse. Non è lecito, partendo dall’imperativo morale, uccidere una persona, o trattarla come un “oggetto” sia pure in vista di uno scopo benefico. Si cancella, di fatto, tale scopo, con i mezzi malvagi impegnati per raggiungerlo.

Tutto il discorso svolto fino ad ora incorpora una conclusione: il nonviolento deve avere la forza di volontà di soffrire. Egli cercherà attivamente di spezzare le catene dell’oppressione, ma, di fronte alla possibile scelta, egli accetterà volontariamente di soffrire, piuttosto che usare violenza. Gandhi sottolineò il fatto che l’essere pronti a soffrire per la salvezza dei valori della satyagraha (forza della Verità o dell’Amore), costituiva una parte integrante dell’azione nonviolenta.

Un riflesso dell’eredità che Gandhi ci ha lasciato, è la convinzione che il fine ultimo di ogni campagna nonviolenta debba essere la realizzazione della Verità. Questa idea fece sì che il Mahatma fosse sempre ricettivo ai suggerimenti dei suoi oppositori, e alla possibilità di revisionare gli obbiettivi specifici. Il rispetto per la Verità formava la base metafisica delle sue campagne, e lo rendeva fermissimo nel dirigerle.

Cristiani come Thomas Merton hanno, allo stesso modo, trovato stabilità e potere interiori nel confidare che la Verità, alla fine, è invincibile, poiché Gesù Cristo, “il Signore della Verità”, è davvero risorto e governa il Suo Regno, difendendo i più profondi valori di coloro che dimorsno in esso”.

Un’’altra convinzione comune agli apologeti della nonviolenza è che alla vita umana e la personalità siano, in qualche modo sacre. Anche qui incontriamo spesso un substrato religioso, ma “leaders” nonviolenti di chiara impostazione laica concordano sul fatto che, se il valore della vita umana è preso ala leggera, gli uomini e le società tendono a brutalizzarsi. Uno degli aspetti più devastanti della violenza è appunto questo: essa tende a ridurre, tanto i suoi perpetratori, quanto le sue vittime, ad un livello sub-umano.

La tesi secondo la quale chi usa violenza si spersonalizza, va a cozzare contro le posizioni di Fanon e di altri autori (sommariamente esposte in un precedente paragrafo), in difesa della violenza come mezzo di auto-realizzazione. Tuttavia si può notare, per inciso, che Fanon si riferisce unicamente agli agenti della violenza abbia un effetto energetico: in ogni caso, esso si ottiene necessariamente con il ricorso alla violenza, ma anche, ad esempio, con l’intraprendere una azione positiva per un fine definito. Non c’è ragione per cui una vigorosa azione nonviolenta non debba essere liberamente, sul piano psicologico, nell’offrire all’individuo un senso di identità, di potere, di “impresa”; i partecipanti alle campagne di Gandhi e di M.L.King attestarono che è proprio così: si riceve una raggiante sensazione di dignità umana, agendo in armonia con la propria natura morale. “Beati i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt.:5;9).

Gli atti violenti contro i propri simili, possono introdurre eccitazione in una esistenza opaca, ma hanno senz’altro un effetto degradante e deleterio sugli aspetti migliori di una personalità. Come Socrate asseriva, la struttura spirituale dell’essere si deteriora.

I nonviolenti condividono l’ulteriore convinzione che l’Umanità sia essenzialmente Una. Gli uomini non devono essere polarizzati in campi opposti; ogni metodologia che si attenda ad un simile schema è errata. Di più, essa è impraticabile dal momento che, alla fin fine, dobbiamo vivere insieme.

L’unità del genere umano è un corollario di quello che i Quaccheri chiamano “quel tanto di Dio che è in ogni uomo”. L’apostolo Paolo scopre le basi della riconciliazione in Gesù: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto di due uno solo, colui che ha abbattuto il muro di separazione l’inimicizia…che distruggendo in se stesso l’odio” (Ef,2: 14,16).

Sia Gandhi che M.L.King credevano che noi siamo stati concepiti per amare il nostro prossimo. Laddove la violenza ricerca il bene di una sola delle parti contendenti, la nonviolenza, guidata dall’Amore, si proietto verso l’autorealizzazione di tutti. L’Amore non è visto come una limitazione (alla lotta), ma visto come una dinamica che prevale sulle paure e gli odii delle parte opposte, e può così essere d’ausilio nella soluzione dei problemi. Esso è eminentemente pratico (checché se ne pensi) nel senso che, mentre non si può essere certi degli effetti di atti specifici, lo si può essere dei buoni frutti prodotti dall’Amore. “L’Amore è paziente, benigno… non va in cerca del suo, non si adira…tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto soffre…L’amore non cadrà mai” (Cor. 13:4, e segg.).

L 'efficienza pratica della resistenza aggressiva nonviolenta
Le basi etiche della nonviolenza ne ampliano l’efficacia. Il suo successo non dipende da una superiorità materiale; dunque, la nonviolenza si presta ad essere utilizzata dai “dannati della terra”, i quali, generalmente, mancano di risorse materiali.


La resistenza nonviolenta si fonda in primo luogo su ciò che potremmo definire “potere etico” – il senso di essere nel giusto, non solo in relazione agli scopi, ma anche ai mezzi. Esso crea uno spirito di corpo tra i partecipanti, che sono sospinti alla fermezza e alla continuità nell’impegno. Inoltre, il “potere etico” conquista il consenso di molti fra coloro che non sono impegnati nella dinamica sociale, ma il cui sostegno, in ultima istanza, è essenziale; non respinti, o disgustati, dalla violenza; essi possono convergere nella validità della causa.

Una ricerca nonviolenta facilita una più intelligente scelta degli obiettivi. Essa può definire scopi netti, specifici, mantenendo nel contempo una sufficiente flessibilità, che consente di modificarli o sostituirli, in caso di solide ragioni. Dalla parte opposta, gli scopi dei movimenti violenti sono proclivi a riflettere fattori emozionali; pertanto, sono suscettibili di giudiziose modifiche. Nel logorio della lotta, essi possono, in effetti, subire cambiamenti, ma, verosimilmente, in senso peggioritario: anche la vittoria può essere seguita dal caos, nel quale le fazioni lottano per il potere.

Un grande merito della nonviolenza consiste nel fatto che essa getta luce sulla distinzione morale tra l’oppressore, che usa violenza, e l’oppresso, che non lo fa. Quando ambo le parti sono violente, ognuna “razionalizza” la propria posizione, ha pretesti per accusare la parte opposta, cosicché ogni distinzione morale si vela nella oscurità. Se una parte vince, l’altra continua a sentirsi nel “giusto” e ostile: il conflitto ha piantato i semi di una futura lotta. Milton ha ben espresso il concetto: “Colui che vince con la forza, ha vinto solo metà del nemico”. Una vittoria nonviolenta, all’opposto, per la propria dinamica interna garantirebbe una riconciliazione di fondo ed una stabilità più profonda: non è poco.

D’altra parte, il rifiuto di usare violenza costituisce un appello alla coscienza dell’oppressore, il quale, impossibilitato ad accusare la vittima, è costretto ad ammettere, in sé, la non validità della propria posizione.

Nell’analizzare l’efficacia della resistenza nonviolenta, un elemento da non dimenticare è quello delle correnti prevalenti di opinione, le quali, peraltro, possono mutare abbastanza velocemente. In ogni caso, in linea di massima, la gente preferisce mezzi pacifici per sanare le controversie sociali, e ricorre alla violenza in casi-limite: si tratta di un dato sociologico reale. Un esempio: durante le campagne di disobbedienza civile di massa, in India, i partecipanti, forniti di una scarsa preparazione, rimasero cionondimeno nonviolenti dall’inizio alla fine (fatte le debite eccezioni); ciò fu particolarmente impressionante nel caso di Pathans musulmani alla frontiera nord-occidentle. Da generazioni essi si erano conquistati la fama di “gente crudele, assetata di sangue, vendicativa”; eppure, sotto la direzione di uno dei loro, i Pathans organizzarono un movimento nonviolento per l’indipendenza e per altre riforme, al quale rimasero fedeli, nonostante le “fucilazioni e le impiccagioni di massa” da parte delle truppe britanniche (Bondurant, pagg.132-138).

Poiché i programmi gandhiani sono generalmente misconosciuti, può essere istruttivo illuminarne alcuni aspetti. Citiamo la lotta contadina nella regione di Bardoli, contro il governo di Bombay. Il proposito era quello di costringere le autorità ad intraprendere un’inchiesta imparziale sugli aumenti fiscali decretati poco tempo prima, aumenti che i contadini giudicavano eccessivi. Alle azioni di protesta, durante un periodo di sei mesi, il governo rispose con attacchi alle proprietà rurali, arresti, brutalità, propaganda tendenziosa e minacce: a tutto ciò i contadini reagirono senza violenza; i risultati furono che l’inchiesta venne svolta, gli aumenti fiscali rescissi, e una cooperazione più fattiva si stabilì tra Indù e Musulmani; inoltre, la condizione dei contadini di tutta l’India si elevò. Come osservava Nerhu: “Il successo della campagna poggiò sull’effetto che essa produsse sulle masse rurali dell’intera India. Bardoli divenne un segno e un simbolo di speranza, forza e vittoria, per il contadino indiano” (Bondurant, pag. 61).

Successive campagne assicurarono diritti agli “intoccabili”, aumenti salariali per i lavoratori tessili, ecc. Una più ampia campagna fu condotta, nel 1930-31, contro il monopolio governativo sul sale, con la famosa marcia di duecento miglia verso il mare. Essa ebbe ripercussioni ben più vaste dell’obbiettivo specifico per il quale era stata organizzata.

Intorno all’efficacia della resistenza nonviolenta, è abbastanza diffusa una erronea valutazione, e cioè che essa sia stata tentata e trovata carente. Anche in questo caso rispondiamo, citando innanzitutto un esempio fra mille: quello di M.L.King. Il movimento del quale King era guida, stimolò corpi legislativi, istanze amministrative, tribunali, ecc., a rimuovere innumerevoli sostegni legali alla segregazione razziale. La morte precoce di King ha ritardato ulteriori progressi, e in ogni caso, ovviamente, molto rimane da fare. Eppure, discreti risultati sono stati ottenuti in un lasso di tempo comparativamente breve, specialmente nel campo dell’educazione, dell’estensione dei diritti, ecc. Non c’è alcuna ragione plausibile per cui i metodi nonviolenti usati, seguendo le linee radicali già consideratela King non possano permettere il raggiungimento di ben più ampie mete.

Per quanto riguarda la valutazione dell’efficacia della resistenza nonviolenta, nell’ipotesi di un’aggressione straniera, manca un sufficiente retroterra storico. Che essa abbia rivelato promettenti possibilità, comunque, è reso evidente dalle campagne di Gandhi per l’indipendenza indiana, e da numerose altre vicende: gli aspetti nonviolenti dell’opposizione danese e norvegese alle forze naziste occupanti, durante la seconda guerra mondiale e (in misura minore) la rivoltatedesco-orientale del ’53 e la resistenza cecoslovacca all’invasione russa del ’68, suggeriscono possibili lineamenti per una difesa disarmata.

I metodi nonviolenti sono stati impiegati per obiettivi disparati, in situazioni radicalmente diverse da gruppi etnici e sociali eterogenei. Inoltre, nella maggior parte dei casi, i partecipanti non erano coscienti, a fondo, della “filosofia” della nonviolenza(cioè del suo substrato morale e logico), e neppure erano adeguatamente addestrati al comportamento ed alle tecniche ad essa appropriati. Si può dunque dare per scontato che, con una maggiore coscienza, conoscensca ed addestramento da parte di quanti li praticano, i metodi nonviolenti risulterebbero ancor più efficaci.

Pertanto, considerando la lunga, triste storia della violenza, il tempo relativamente breve e le poche istanze nelle quali la resistenza nonviolenta è stata tentata, e considerando infine la sia pur parziale sua efficacia in tali istanze, dobbiamo concludere, non che “è stata tentata e trovata carente”, ma che, al contrario, essa ha avuto e può avere sorprendenti successi.

Scrivendo in “Resistenza civile come difesa nazionale”, il prof. T.C.Schelling, del Centro di Harvard per gli Affari Internazionali, riassume così l’importanza pratica della nonviolenza: “Il suo potenziale è enorme. Alla fine può essere considerato importante come quello della fissione nucleare. Come quest’ultima, la nonviolenza ha implicazioni che riguardano la pace, la guerra e la stabilità, la fiducia e il terrore, la politica nazionale ed internazionale”.

Senza dubbio, per una nazionale o un movimento sociale, fare assegnamento sulla nonviolenza significa esporsi a rischi di possibili sofferenze. Il nostro compito comunque non è quello di paragonare la nonviolenza con qualche desiderabile situazione ideale, ma con le probabili conseguenze e danni che la violenza apporterebbe. Gli argomenti a favore della nonviolenza aumentano, se tentiamo un tale paragone. Nel caso di un conflitto sociale, se una campagna nonviolenta fallisce, la situazione non sarà molto peggiore di quella precedente. La violenza, invece, non può essere contenuta nei limiti del conflitto specifico, e può facilmente traboccare in una guerra civile, disastrosa in quanto a perdite e a sofferenze umane.

Nel più ipotetico caso della difesa contro una nazione aggressiva, vale più o meno lo stesso criterio valutativo; la nazione aggredita (se la difesa nonviolenta fallisse) sarebbe occupata e dominata, ma esisterebbe ancora, e le possibilità di miglioramento delle condizioni, o di liberazione non sarebbero precluse. Tutt’altro quadro presenta la difesa violenta: non solo l’inevitabile guerra nucleare coinvolgerebbe le parti nell’abiezione morale di infliggere morte ed indicibili sofferenze a milioni di innocenti, così come alle future generazioni; essa non sarebbe neppure “pratica” poiché tutti morirebbero allo stesso modo! Da particolari circostanze potrebbe dipendere l’eventuale sopravvivenza di alcuni, ma vincitori o sconfitti, le conseguenze sarebbero disastrose.

Si può obiettare che la preparazione nucleare è un deterrente contro la guerra. Ciò può essere vero, a breve termine, e sulla base dell’attuale “equilibrio del terrore”. Ma dobbiamo considerare: a) Il numero delle nazioni che arriveranno a possedere armamenti nucleari efficienti. b) I pericoli di conflitto accidentale. c) La tendenza, in tempi di crisi, ad eliminare il nemico, “al primo attacco”. d) I molti aspetti imprevedibili e irrazionali delle relazioni tra gli stati e i popoli. Non è chiaro, a questo punto, che pensare di evitare a lungo la guerra, sulla base della potenza (difensiva), nuclerare, equivale a lanciare in aria una monetina, cento volte di seguito, e pretendere che sia sempre “testa”?

La conclusione è evidente: l’umanità, con l’ausilio dei movimenti nonviolenti, deve assumersi il duplice compito, delineato in un precedente paragrafo: 1) Applicare tutte le risorse utilizzabili per addivenire a soluzioni costruttive dei problemi sociali, e minimizzare le frustrazioni che generano violenza. 2) Nei casi residui di conflitto, quando una delle parti è violenta, contrastarla con le tecniche e la forza morale della resistenza aggressiva nonviolenta.

Bibliografia citata:

-  American Friends Service Committee: “In place of war. An inquiry into nonviolent national defense”, New York, 1967.

- Philip André: “Ch’ange Without Violence”, The Center Magazine, 1, Novembre 1968.

- Hannah Arendt: “Reflections on violence”, N.Y.Rewiew, febbraio 1969.

- Joan V. Bondurant: “Conquest of violence: the Gandhian philosophy of conclict”, Berkeley, 1965.

- John Dollard (e altri): “Frustration and Aggression”, New Haven, 1939.

- Denis Goulet: “The troubled conscience of the revolutionary”, The Center Magazine, 2, maggio 1969.

- Hugh Davis Graham: “Violence in America: historical and comparative perspectives”, New York, 1966.

- Richard Gregg: “The power of Nonviolence”, New York, 1968.

- Martin Luther King: “The Trumet of Conscience”, New York, 1968.

- Stephen King-Hall: “Defence in the Nuclear Age”, London, 1958.

- Staughton Lynd: “Nonviolence in America: A Documentary History”, Indianapolis, 1966.

- William Robert Miller: “Nonviolence: A Christian Interpretation”; New York, 1966.

- M.F.Ashleu Montagu: “Man and Aggression”; New York, 1968.

- Phillips Moulton: “The Journal and Major Essays of John Wolmann”, Oxford University Press, New York, 1971.

martedì 28 settembre 2010

SFT Projects Your Messages to Wen Jiabao in NYC

On Wednesday evening (Sept 23), SFT activists projected live twitter messages on and around Chinese Premier Wen Jiabao’s hotel in NYC.  Messages from dozens of countries, including Tibet and China were sent via twitter to @wjbny and emailed to protestwen@gmail.com. Read more about SFT’s Direct Line

http://www.flickr.com/photos/sfthq/sets/72157624897560501/show/

giovedì 23 settembre 2010

ANP: PENA DI MORTE PER CHI VENDE TERRA AGLI ISRAELIANI


Un tribunale della Cisgiordania ha ribadito che i palestinesi che vendono terreni agli israeliani sono passibili di condanna a morte.

Secondo l’Autorità Nazionale Palestinese, la misura è necessaria per prevenire l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e nel settore orientale di Gerusalemme.

La decisione del tribunale giunge in risposta ad una sentenza emessa da un tribunale di grado inferiore, che aveva definito questo tipo di vendita un “reato minore”.

Contro la sentenza del tribunale inferiore, il Procuratore Generale dell’ANP Ahmed al-Mughni ha presentato appello, sostenendo che la vendita di terreni ad Israeliani costituisca invece un “reato grave”, punibile con la morte. Il tribunale ha accolto l’appello.

lunedì 20 settembre 2010

XX settembre Radicale


La situazione. Il nostro XX settembre,laico, liberale, anticlericale; in una parola, radicale


20 settembre 2010

di Valter Vecellio

La “situazione” di oggi intende richiamare l’attenzione di tutti noi – e lo si vuole fare proprio oggi, anniversario del 20 settembre e della breccia di Porta Pia – su quella che possiamo definire l’agenda bioetica del Governo prossima futura.

L’antipasto di quello che preparano e vogliono propinarci lo si potrà comprendere il 21 settembre, martedì prossimo. Alla sala Zuccari del Senato, a palazzo Giustiniani, ci sarà un convegno, intitolato: “Primum vivere. L’agenda bioetica del Governo. E’ un convegno che hanno voluto e organizzato il capogruppo dei Senatori del Pdl e il suo vice, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, e dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Secondo le loro intenzioni servirà a presentare le iniziative dell’esecutivo in materia di bioetica annunciate nella conferenza stampa del 5 agosto scorso, e si pone due scopi: riaffermare che l’agenda bioetica della maggioranza rimane quella annunciata, senza alcuno spazio per divagazioni finiane. Il secondo è la costruzione sui temi eticamente sensibili, di terreni di intesa, oltre che con l’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli, anche con quella componente cattolica del PD che per esempio si richiama a Giuseppe Fioroni.

Abbiamo fatto cenno alla conferenza stampa del 5 agosto scorso. Quel giorno, mentre Fini lanciava la sua componente, i ministri Sacconi e Fazio e il sottosegretario Roccella presentavano l’agenda di Bioetica del Governo. Si trattava dell’ennesimo, rassicurante messaggio lanciato alle gerarchie cattoliche: approveremo il disegno di legge Calabrò sul fine vita; ci opporremo strenuamente alla RU486, sosterremo in ogni modo il volontariato cattolico per ostacolare l’applicazione della 194. Il Governo, attraverso Sacconi, Fazio e Roccella sostiene che la scienza e la libertà di ricerca vanno sottoposte all’etica, e che la scienza e la libertà di ricerca distruggono l’umano. Sacconi ha detto chiaro e tondo che i testamenti biologici non servono a niente, e che i registri istituiti da un centinaio di comuni sono “azioni demagogiche con scopo politico”. Il tutto condito con affermazioni letteralmente inaudite e che in modo altrettanto incredibile si sono lasciate passare senza colpo ferire. Per esempio: la “nutrizione e l’idratazione artificiale non sono una terapia perché l’ha detto il 90 per cento del Senato”, e con buona pace delle tante società scientifiche competenti.

Ma che il centro-destra dei Sacconi e dei Fazio, delle Roccella e dei Gasparri dica queste cose, e queste cose voglia fare, non stupisce, riuscendo a coniugare, non da ora, il peggio del vecchio e il peggio del nuovo. Quello che stupisce e avvilisce è il silenzio del centro-sinistra, del PD, dei liberali. Ancora una volta chi leva la sua voce, chi protesta, chi si mobilita sono sempre e solo i radicali.

Prepariamoci. Non sono tempi facili, quelli che ci aspettano.

Per tornare al XX settembre. Chissà: se andiamo avanti così, ci sarà prima o poi qualche bello spirito che chiederà, in nome della pacificazione e della concordia nazionale, di rimuovere il celebre dipinto di Michele Cammarano che ritrae i bersaglieri alla carica di Porta Pia il 20 settembre del 1870. Quel giorno di 140 anni fa, piaccia o non piaccia al Vaticano, al cardinale Tarcisio Bertone, all’attuale sindaco Gianni Alemanno, le cannonate dei militari italiani provocano una breccia larga una trentina di metri a Porta Pia, difesa da truppe di volontari pontifici e da soldati di varie nazionalità europee al comando del generale Hermann Kanzler; e attraverso quella breccia due battaglioni di bersaglieri guidati dal generale Cadorna entrano a Roma, e si segna finalmente la fine dello Stato Pontificio; Roma è annessa al Regno d’Italia e un anno dopo diventa la capitale, anche questo piaccia o non piaccia a Umberto Bossi, che ogni giorno si produce in una corbelleria, l’ultima che ora bisognerebbe fare una capitale del Nord. Quel giorno morirono 49 bersaglieri e altri 141 rimasero feriti; mentre tra gli zuavi pontifici, i morti furono 19 e i feriti 68. E mentre il generale Cadorna riconosce, con la delega ricevuta dal governo italiano la nuova giunta provvisoria di Roma e Provincia presieduta da Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, papa Pio IX si chiude in Vaticano, dichiarandosi prigioniero politico, e ordinando ai cattolici, con il famoso documento “Non expedit”, di non prendere parte alla politica italiana. Divieto che molti cattolici democratici e liberali non tennero in considerazione, come ben documenta un libro dimenticato di Vittorio Gorresio, “Risorgimento scomunicato” che venne pubblicato da Ernesto Rossi nella collana “Stato e Chiesa” che dirigeva per l’editore fiorentino Parenti, e che se avete fortuna potete trovare nei cataloghi delle librerie antiquarie, ma di cui esiste una versione telematica, perché tempo fa lo abbiamo pubblicato a puntate su “Notizie Radicali” nella rubrica “I sepolti vivi”.

Perché abbiamo detto che prima o poi qualche bello spirito chiederà che il bel quadro di Cammarano sulla presa di Porta Pia sia messo in soffitta? Perché quest’anno, per festeggiare l’anniversario, si è pensato bene di organizzare un programma di eventi che abbia ben cura di rimuovere ogni possibile venatura anticlericale e antivaticana, senza alcun elemento polemico non gradito dal Vaticano; e per giocare sul sicuro, la ricorrenza viene ricordata con una serie di incontri, convegni e manifestazioni publiche a cui prendono parte personaggi e relatori graditi e concordati con il segretario di Stato vaticano Bertone. Il Vaticano ha preteso e ottenuto che le celebrazioni non avessero alcuna connotazione anticlericale; proprio per questo, uno studioso, per altro di centro-destra Marcello Veneziani, editorialista del “Giornale”, è stato depennato dalla commissione paritetica, perché il titolo del convegno storico che ha curato, “Pio IX, il papa-Re” è stato giudicato troppo provocatorio.

Queste celebrazioni hanno richiesto – pensate! – ben dieci mesi di trattative tra comune di Roma e Vaticano; e sembra sia sceso in campo perfino il Quirinale, che ha esortato a ricercare un percorso condiviso; un percorso e un programma che è stato attentamente vagliato e poi approvato dal cardinale Bertone ed accettato di buon grado dal sindaco Alemanno.

C’è da ridere e da piangere insieme, a pensare come siamo ridotti. Come contravveleno a tutto ciò, prendiamo parte alla manifestazione radicale. E procuriamoci le “Pagine anticlericali” di Ernesto Rossi, ripubblicato dall’editore Kaos. Tra i saggi di quel libro ce n’è uno: “Il nostro XX settembre”, è il testo di un discorso dello stesso Rossi pronunciato a Firenze il 20 settembre 1959. Per quel discorso Rossi poi passò qualche piccolo guaio con la polizia e la magistratura, lo racconta lui stesso nel successivo saggio “Io e Garibaldi”.

Quelle “Pagine anticlericali” quando vennero pubblicate la prima volta vennero definite “una sorsata di benessere: una pagina, una sola, di Ernesto Rossi ci rischiara le idee”. Oggi come ieri.

Per la vera commemorazione del XX Settembre!


sabato 18 settembre 2010

A proposito di legalizzazione della droga




di Marco Pannella e Emma Bonino



Le cifre della strage di diritti, vite umane e ambiente della guerra alla droga, dal Messico alla regione andino-amazzonica, in Afghanistan Birmania, Laos o nelle ex repubbliche sovietiche, rendono necessario e urgente porre il problema politico planetario dei fallimenti del proibizionismo sulle sostanze stupefacenti.

Concordiamo con l'amico Felipe Gonzales che occorra una conferenza internazionale in cui coinvolgere pienamente anche l'Europa. Le sanzioni penali e amministrative a comportamenti individuali che non implicano danni ad altri hanno avuto impatti devastanti su milioni di persone in tutto il mondo cancellando, allo stesso tempo, la necessità di una ricerca scientifica che analizzi sia i possibili sviluppi medici delle sostanze proibite che una loro assunzione sotto stretto controllo medico.

L'ideologia del proibizionismo ha inoltre cancellato il dibattito sui fatti, nessuno si è mai posto il problema di quanti miliardi di euro, anche nei paesi poveri, vengano investiti quotidianamente in politiche che creano solo rendite esponenziali per le narco-mafie.

Negli anni il Partito Radicale Nonviolento ha elaborato proposte per una radicale revisione delle tre convenzioni delle Nazioni unite sugli stupefacenti, occorre che la Commissione sulle droghe dell'Onu di Vienna le acquisisca come documento di lavoro già dalla sessione del prossimo marzo. Forse proprio dalla Spagna può nascere una risposta di buon senso riformatore alla violenza della proibizione.

(Lettera pubblicata su El Paìs )

Carceri: ancora un suicidio


Otto righe. Otto righe di agenzia: tanto vale la vita di una persona. Certo: si trattava di un detenuto; un detenuto in libertà vigilata. Aveva cinquant’anni. Chissà, magari era pure un delinquente incallito. I carabinieri gli dovevano notificare un nuovo ordine di arresto, per una rapina nell’astigiano. Colpevole o no che fosse, quest’uomo, di cui l’agenzia non fornisce neppure le iniziali, in carcere proprio non ci voleva proprio tornare. Prima ha minacciato di far saltare per aria il condominio in cui viveva, a Torino. Poi, dopo una lunga trattativa per farlo desistere, ha pensato bene di farla finita tagliandosi le vene dei polsi. Nella sua abitazione i carabinieri hanno trovato alcune lettere, in cui l’uomo spiegava che preferiva farla finita, piuttosto che tornare in cella.

Quanti sono i detenuti che si sono tolti la vita, solo quest’anno? Quarantaquattro in cella; ma sono di più: il suicida di Torino non viene messo in conto, perché non si è suicidato all’interno di una struttura carceraria; dunque non viene censito; non sono censiti neppure quei detenuti che tentano di suicidarsi, ma non ce la fanno subito, e muoiono dopo essere stati portati in ospedale. Ma quand’anche fossero “solo” quarantaquattro, sono sempre una cifra enorme.

Non ci si stancherà mai di sostenere che anche quando il detenuto si toglie la vita, si tratta comunque di omicidio: perché quando un cittadino, non importa per quale ragione, si trova dentro una struttura dello Stato, sia esso un carcere o una cella di sicurezza dei carabinieri o della polizia, e viene privato della sua libertà, proprio per questo lo Stato si fa massimamente garante della sua incolumità fisica e psichica. Poi ci sono i tentati suicidi, sventati per la pronta reazione degli agenti di polizia penitenziaria. Sono centinaia; e ci sono anche molti suicidi tra gli stessi agenti, che vivono la stessa vita di chi hanno il compito di sorvegliare, e anche loro patiscono le stesse frustrazioni, gli stessi logoramenti. Drammi, tragedie quotidiane, che si consumano tra l’indifferenza di chi può e deve, e non fa nulla; e quando fa qualcosa fa male, e peggiora la situazione. Ogni riferimento al ministero della Giustizia è voluto.

Da Firenze un’iniziativa che piace segnalare, perché può costituire una preziosa e utile indicazione anche per altri sindaci; e magari sarà un’iniziativa simbolica, ma anche i simboli, i gesti contano e possono incidere. Si parte da una premessa: che il sindaco di una città rappresenta tutti gli abitanti del suo territorio: anche e soprattutto quelli che, come i detenuti, non hanno il diritto di scegliere dove risiedere; e che tra i compiti del sindaco c’è anche quello di assicurare e tutelare la salute e l’igiene pubblica; proprio per questo il sindaco ha il potere di emanare ordinanze “contingibili ed urgenti” – così pare siano definite – in caso di pericolo imminente. Facendosi forte di questa facoltà, l’ufficio preposto del gabinetto del sindaco di Firenze Matteo Renzi ha preso carta e penna e scritto all’amministrazione penitenziaria del locale carcere di Sollicciano: intimando a porre fine ai gravi problemi che rendono il penitenziario invivibile per agenti di custodia e detenuti: trenta giorni di tempo per intervenire e risolvere la questione. Poi il comune procederà a termini di legge. Trattandosi di Sollicciano, che non è esagerato definire un luogo di tortura di massa e permanente, a rigor di logica l’unico provvedimento possibile e coerente con quello che prevede la legge, dovrebbe essere il sequestro e la chiusura della struttura.

Naturalmente proprio perché è una cosa giusta, non se ne farà nulla. Però è comunque importante che il comune di Firenze abbia preso questa iniziativa. E sarebbe importante che molti altri sindaci nel cui territorio sorgono carceri in condizioni inaccettabili, assumessero e facessero loro questa iniziativa. Ancora più importante se fosse l’ANCI, l’associazione dei comuni d’Italia, a patrocinare la cosa.

Ci sono state già in passato analoghe iniziative, a Bologna, per esempio; ma prese in modo scoordinato, episodico; e per quanto riguarda il caso di Firenze-Sollicciano, c’è il precedente di un’ordinanza firmata dall’assessore Graziano Cioni e dal predecessore di Renzi, Leonardo Dominaci; un’ordinanza che, parola più parola meno sembra quella firmata ora da Renzi. Solo che è di quattro anni fa, il che sta a significare che nel frattempo non è cambiato nulla, e forse, anzi, è peggiorato qualcosa.


va.vecellio@gmail.com

venerdì 17 settembre 2010

Magnate dei media attacca Avaaz


Avaaz è stata presa di mira da un magnate dei media.

Un numero enorme di membri canadesi di Avaaz si sono recentemente mobilitati contro favori elargiti dal governo a un nuovo network tv di propaganda della destra radicale, diretto dall'ex consulente del Primo ministro. L'impero mediatico che si cela dietro quel network ha attaccato la nostra comunità con una serie di calunnie sui suoi giornali, e ha ammesso di essere a conoscenza di un sabotaggio criminale nei confronti della nostra petizione. Ora il magnate ha minacciato di fare causa ad Avaaz se non cancelleremo la nostra campagna entro 24 ore!

Questo è il modo in cui il potere delle grandi aziende silenzia la voce dei cittadini. Ma Avaaz è una comunità di quasi 6 milioni di persone, e insieme siamo molto più forti di qualunque prepotente che risponde agli ordini aziendali.

I media a braccetto coi potenti e la loro combinazione incestuosa con politici privi di scrupoli e informazione di parte è un pericolo crescente insediatosi nelle democrazie di molti paesi, dall'Italia agli Stati Uniti, fino all'Australia. Prendiamo una posizione forte, e dimostriamo che le loro tattiche intimidatorie si ritorceranno contro loro stessi. Ci hanno dato un ultimatum di 24 ore: facciamo una donazione per dare loro la risposta che si meritano e per tenere viva la battaglia contro i media a braccetto coi potenti in giro per il mondo:

https://secure.avaaz.org/it/stand_up_to_crony_media/?vl

La democrazia è in marcia in tutto il mondo, ma interessi antidemocratici hanno organizzato un contrattacco: i media a braccetto coi potenti. Quando un leader politico è alleato con un enorme impero mediatico, diventa difficile batterlo alle elezioni.

In Italia il Primo ministro Berlusconi controlla oltre l'80% dei canali televisivi generalisti, e ha partecipazioni di maggioranza nei principali quotidiani, riviste e pubblicazioni. Negli Stati Uniti, Regno Unito e Australia, il mega magnate Rupert Murdoch sfrutta il suo impero per ottenere accordi di comodo dai politici, dando loro in cambio la rielezione per il mandato successivo. La sua infame Fox News è il più grande network di informazione tv via cavo negli Stati Uniti. Dopo che il Presidente Obama ha disdegnato Murdoch e boicottato il suo network propagandistico, Fox News ha prodotto il movimento di estrema destra Tea Party e dotato l'odio e il razzismo di una piattaforma tv, additando Obama come un terrorista che odia i bianchi.

Molti di questi sfoghi stanno promuovendo idee che avvelenano i cuori delle persone e polarizzano il nostro mondo, mettendo in serio pericolo la democrazia e la pace. Il Canada è l'ultimo campo di battaglia in ordine di tempo - trasformiamolo nella battaglia in cui il potere dei cittadini ribalta l'idea sui media a braccetto coi potenti. Abbiamo 24 ore per vincere questa sfida: clicca sotto per fare una donazione!

https://secure.avaaz.org/it/stand_up_to_crony_media/?vl

Parte della scommessa del movimento di Avaaz è la nostra capacità di lavorare su argomenti che tagliano trasversalmente tutti gli altri. Il sovvertimento della democrazia messo in atto da aziende mediatiche potenti e dai loro alleati politici è un pericolo per tutto ciò che ci sta a cuore: dal cambiamento climatico, alla povertà, ai diritti umani. Con la sua voce globale, Avaaz potrebbe essere una fra le poche organizzazioni che possono combattere questa minaccia alla democrazia. Ci hanno dato 24 ore per vincere questa sfida: dimostriamoci all'altezza.

Con speranza,

Ricken, Luis, Iain, Emma, Alice, Ben, Giulia, Alex e tutto il team di Avaaz.

giovedì 16 settembre 2010

Il tempo stringe



di Martin Luther King


Questo articolo è l’ultimo che Martin Luther King ha scritto. Lo completò pochi giorni prima di essere assassinato a Memphis , e vi spiegava il significato e gli obiettivi della “grande marcia di emancipazione attraverso l’America” da lui organizzata per la primavera e l’estate.


Le proteste nonviolente ritornano questa primavera, fosse per l’ultima volta. Ai bianchi viene dato il benvenuto. Perfino i gruppi militanti del Potere Negro hanno deciso di prendervi parte. Ma se le proteste nonviolente naufragano, potrebbe seguire un olocausto.

Malgrado due estati consecutive di violenza, non una singola causa delle sommosse è stata eliminata. Tutta l’infelicità che attizzò le fiamme della rabbia e della ribellione, è rimasta qual era.

Con la disoccupazione, le abitazioni intollerabili e l’educazione discriminatoria, flagello dei ghetti negri, il Congresso e l’amministrazione si contentano ancora di mezze misure futili. Eppure, soltanto pochi anni fa, si poteva discernere, anche se limitato, un certo progresso mediante la nonviolenza. Ogni anno si delineava maggiormente una sana sicurezza di sé dei negri.

L’azione diretta nonviolenta rese capaci i negri di andare per le strade di una protesta attiva, ma tappò le canne dei fucili dell’oppressore, poiché neanche lui poteva abbattere, alla luce del giorno, degli uomini, delle donne, dei bambini senza armi. Ecco la ragione per cui ci furono meno perdite di vite in dieci giorni di sommosse nel Nord.

Noi dobbiamo esercitare pressione sul Congresso, perché le cose vengano fatte. Lo faremo alla luce del Primo Emendamento. Se il Congresso rimane insensibile, bisognerà dare la scalata per mantenere in vita la questione. Questa azione può arrivare a dimensioni di rottura, ma non sarà violenta nel senso di distruggere vite o beni: sarà una nonviolenza militante.

Noi sentiamo veramente che le sommosse tendono a intensificare la paura della maggioranza bianca, mentre ne diminuisce il senso di colpa, dando così adito ad una maggiore repressione. Non abbiamo visto alcun cambiamento in Watts – nessun cambiamento strutturale ha avuto luogo come risultato delle sommosse.

Ma non tollereremo la violenza e abbiamo detto chiaramente: i dimostranti che non sono pronti a essere nonviolenti, non dovrebbero partecipare. Durante le ultime sei settimane abbiamo avuto degli incontri preparatori sulla nonviolenza con quelli che andranno a Washington. Le dimostrazioni hanno servito da forze unificanti nel movimento: hanno riunito neri e bianchi in situazioni molto pratiche, quando avrebbero potuto star discutendo in via filosofica del Potere Negro.

E’ singolare come le dimostrazioni tendano a risolvere problemi. Ogni volta che abbiamo avuto delle dimostrazioni in una comunità, la gente ha trovato un modo per liberarsi dell’odio verso sé stessi, ed un mezzo per esprimere i suoi desideri e per lottare senza violenza – per giungere alla struttura del potere, sapendo di fare qualche cosa, senza aver da usare la violenza.

Noi abbiamo bisogno di questo movimento. Vogliamo che esso ci porti una nuova specie di unione tra neri e bianchi. Vogliamo che esso unisca degli alleati, che unisca la coalizione delle coscienze. Io penso che siamo arrivati al punto in cui non vi è più scelta tra nonviolenza e sommosse. Deve essere o una massiccia nonviolenza, o la sommossa.

Il malcontento è così profondo, la rabbia è tanto connaturata, la disperazione, l’inquietudine tanto grandi, che qualche cosa deve nascere che serva di sfogo per questi profondi sentimenti di rabbia.

Uno sfogo deve esserci, ed io vedo in questa campagna un mezzo per tramutare la rudimentale rabbia del ghetto in qualche cosa di costruttivo e creativo.

Anche se non pensassi alle dimensioni morali del rapporto fra violenza e nonviolenza, da un punto di vista pratico non vedo che le sommosse abbiano alcun senso. Di più, sono convinto che, se le sommosse continuano, ciò rafforzerà l’ala destra del paese, e finiremo con la vittoria della destra nelle città e con uno sviluppo fascista, che sarà terribilmente nocivo a tutto il paese.

Io non credo che l’America possa sostenere un’altra estate di sommosse come quelle di Detroit senza il pericolo di distruggere l’anima del paese ed anche le sue possibilità democratiche. Io mi sono votato alla nonviolenza in modo assoluto, io non ucciderò nessuno, sia nel Vietnam o qui. Io non metterò fuoco a nessun edificio. Se la protesta nonviolenta naufragherà questa estate, io continuerò a predicarla e insegnarla.

Sono deciso alla nonviolenza perché ho trovato che è una filosofia della vita che regola non soltanto la mia condotta nella lotta per la giustizia razziale, ma anche la mia condotta verso le persone, verso me stesso.

Ma sono abbastanza franco per ammettere che se la nostra campagna nonviolenta non genera qualche progresso, la gente sceglierà un’attività più violenta, e la discussione sulla guerriglia diventerà più estesa.

Gli americani neri sono stati gente paziente, e forse potranno continuare ad esserlo se avessero un minimo di speranza: ma soprattutto il tempo stringe, come dicono le parole di un nostro spiritual: “La corruzione è nel paese, gente, state pronti, il tempo stringe”.

Nonostante gli anni di progresso nazionale, la condizione dei poveri peggiora. I posti di lavoro diminuiscono a causa del progresso tecnologico, le scuole del nord e del sud si rivelano sempre più inadeguate, le cure mediche sono praticamente inaccessibili per milioni di poveri bianchi o neri. Nel Mississipi i bambini muoiono di fame, mentre i latifondisti hanno “messo in banca” le loro terre e incassano milioni di dollari all’anno per non piantare grano o cotone.

L’America bianca si è concessa di essere indifferente al pregiudizio razziale e all’ingiustizia economica. Li ha trattati come difetti superficiali, ma adesso si sveglia nell’orribile realtà di un potenziale morbo fatale. Le insurrezioni nelle città sono “una campana a fuoco nella notte” che clamorosamente avverte che le suture di tutta la nostra società stanno indebolendosi per la tensione della noncuranza.

Gli americani sono infetti di razzismo, ecco il pericolo. Paradossalmente, essi sono anche contagiati dagli ideali democratici, e questa è la speranza. Mentre essi fanno del male, hanno il potenziale di fare del bene. Ma non hanno un millennio per cambiare le cose.

L’avvenire che essi sono chiamati a inaugurare non è tanto sgradevole da giustificare i mali che assillano la nazione. Por fine alla misura, estirpare il pregiudizio, liberare una coscienza tormentata, creare un domani di giustizia, di lealtà e creatività – tutto ciò è degno dell’ideale americano.

Noi abbiamo mediante l’azione nonviolenta di massa, l’occasione per evitare un disastro nazionale e creare un nuovo spirito di classe e di armonia razziale. Tutti noi siamo sotto processo in questa ora travagliata, ma ancora il tempo ci permette di andare incontro all’avvenire con la coscienza pulita.


(da “Azione Nonviolenta”, aprile maggio 1968)

mercoledì 15 settembre 2010

LIBIA: INTERVENTO DEL DEPUTATO MATTEO MECACCI SU AGGRESSIONE A PESCHERECCIO ITALIANO

Nella giornata di oggi il deputato Radicale Matteo Mecacci è intervenuto nel question time alla Camera dei Deputati per chiedere al Governo di rivedere il trattato di "Amicizia" con la Libia che viene usato da Gheddafi per mitragliare i pescherecci italiani in acque internazionale e per respingere i migranti in Libia al di fuori di qualsiasi rispetto dei più fondamentali Diritti Umani.

Agunda Vataeva sopravvissuta all'assedio della scuola di Beslan racconta


Agunda Vataeva sopravvissuta all'assedio della scuola di Beslan racconta sul suo blog cosa accadde fra il 1° e il 3 di settembre di 6 anni fa.
Era una ragazzina di 13 anni che stava per iniziare il suo primo anno alle superiori quando, il 1 settembre 2004, lei, la madre e un altro migliaio di persone furono prese in ostaggio in una scuola di Beslan, in Ossezia del nord. Agunda, oggi diciannovenne, ha recentemente pubblicato i suoi ricordi di quei tragici tre giorni.
Leggi il suo racconto su Global Voices.

martedì 14 settembre 2010

Trattati come la Libia tratta i clandestini. I silenzi imbarazzati di chi ha voluto e imposto un infame trattato di amicizia per fare affari


Cominciamo dai fatti: sono le 22 di lunedì; e all’improvviso dei potenti fari illuminano il motopesca “Ariete”. Dalla motovedetta libica viene intimato l’ordine di consegnarsi. L’equipaggio del peschereccio non se ne dà per inteso, e si allontana a tutta forza. A questo punto i libici cominciano a sparare e parte l’inseguimento. A bordo dell’unità libica risono a bordo anche dei militari italiani della Guardia di Finanza. Cosa ci fanno. La loro funzione è quella di “osservatori”, consulenti tecnici. La motovedetta è una delle sei unità che il Governo italiano ha donato al dittatore libico Gheddafi, nell’ambito degli accordi di amicizia per fermare l’immigrazione clandestina. Il peschereccio italiano è riuscito a sottrarsi alla cattura ed è rientrato a Lampedusa. Per fortuna nessuno dei dieci uomini dell’equipaggio ha patito conseguenze. Il problema però c’è tutto. L’assalto libico è avvenuto a circa trenta miglia dalle coste libiche, al confine con la Tunisia, all’interno del golfo della Sirte: una zona di mare controversa: le norme del diritto marittimo internazionale, che parla di dodici miglia dalla costa, danno ragione agli italiani: è una zona di mare libera. Tripoli però sostiene che è di competenza libica.

Per riassumere: in una zona di mare che la comunità internazionale ritiene libera, un motopeschereccio italiano viene attaccato e mitragliato da una motovedetta libica donata dagli italiani nel quadro di un accordo di amicizia tra Italia e Libia, e a bordo della motonave ci sono dei militari italiani.

A questo punto si comprende bene come mai il loquacissimo presidente del Consiglio questa volta taccia; e sì che non più di qualche giorno fa aveva accolto con calore il “caro amico Gheddafi”, accettando con serena condiscendenza ogni sua sguaiata stravaganza. Tace anche Massimo D’Alema, che ha fatto votare il PD assieme alla maggioranza a favore dell’infame trattato; dalle parti del PD si leva solo una flebile richiesta, attraverso la coordinatrice delle Commissioni istituzionali del gruppo alla Camera Sesa Amici, che il Governo riferisca in Aula, e “chiarisca tutti gli aspetti dell’accordo siglato con la Libia”. Questa richiesta sugli aspetti da chiarire perché è stata fatta due anni fa, quando c’è stato il dibattito parlamentare, e invano i deputati radicali, Furio Colombo e un altro paio di deputati del PD invano si sono opposti a che venisse firmato quello che tutto il resto del PD ha approvato? Da chiarire indubbiamente c’è molto. Anche, per esempio, perché D’Alema ha preso la posizione che ha preso, e perché l’intero PD l’ha supinamente accettata.

Tacciono, e si capisce. E come definire se non patetico un ministro degli Esteri che fa sapere di aver attivato "l'ambasciata d'Italia a Tripoli per acquisire in raccordo con le competenti autorità libiche, dettagliati elementi sulla vicenda e per accertare l’esatta dinamica dei fatti, alla luce dello stretto rapporto di collaborazione fra i due paesi"? Non meno patetico il ministro dell’Interno Maroni che dispone un’inchiesta “per accertare se nella vicenda emerga un’utilizzazione dei mezzi donati dall'Italia per potenziare il contrasto all’immigrazione clandestina non coerente con le previsioni del trattato firmato nel 2007”, ha cura di sottolineare, dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato. Ma come? Se fino a ieri con orgoglio rivendicava in comunicati, conferenze stampa, comizi, il fatto che grazie a quel trattato di amicizia non arrivavano più clandestini in Italia, che Lampedusa era vuota e non più terra di sbarco, e che tutto ciò era dovuto al fatto che la Lega era intervenuta possente e con decisione? Ora che i libici, in virtù di quel trattato, mitragliano un peschereccio italiano come fosse un barcone carico di extracomunitari clandestini, ecco che ci si ricorda che il trattato è del 2007 e porta la firma di Amato?

La verità è che si dovrebbero tutti vergognare. Quel trattato di amicizia tra Italia e Libia è stato votato da PdL, Lega e PD nel suo complesso; un trattato che vìola Costituzione, la Carta dei Diritti dell’Uomo e la Carta dell’ONU. Ed è una grave macchia sul PD, quel voto dato per ragioni inspiegate per ordine di D’Alema, un trattato anche militare con Gheddafi che cambia la politica estera italiana.

Come dice il detto popolare: hanno seminato vento. Ora si raccoglie tempesta.


di Valter Vecellio

(Fonte: Radicali.it)

venerdì 10 settembre 2010

LEADER MONDIALI: SALVATE LE MADRI E I BAMBINI


Ogni anno muoiono milioni di donne incinte e bambini a causa della malnutrizione e di servizi sanitari inadeguati. E' scioccante, ma se i nostri governi rispettassero le promesse fatte al vertice sulla povertà dello scorso mese, tutto ciò sarebbe evitabile.

Dieci anni fa i leader mondiali si impegnarono per ridurre drasticamente il numero vergognoso di decessi materni in gravidanza entro il 2015, tuttavia gli aiuti rimangono vergognosamente bassi. Ora alcuni governi sarebbero pronti ad aumentare gli aiuti per le mamme e i bambini, ma hanno bisogno di un supporto massiccio dell'opinione pubblica per far sì che tutti i governi facciano lo stesso.

Fra qualche giorno i nostri leader si incontreranno a New York. Eleviamo un grido globale contro queste morti insensate. Firma la petizione sotto per raddoppiare gli aiuti per la salute materna: consegneremo le firme ai leader dei governi chiave al vertice di New York.

https://secure.avaaz.org/it/save_children_and_mothers/?vl

Negli ultimi 10 anni, da quando cioè sono stati stabiliti gli Obiettivi del Millennio, sono stati fatti grandi passi avanti per combattere la povertà - ben un terzo in meno di morti durante il parto - grazie all'incremento degli aiuti e all'investimento nella cura sanitaria materna. Ma sono milioni le gestanti che ancora muoiono, e ogni anno 9 milioni di bambini non sopravvivono oltre il quinto compleanno.

Esiste già un meccanismo specifico per distribuire gli aiuti per HIV/AIDS, malaria e tubercolosi, ma non esiste niente di simile per supportare la salute delle madri e dei bambini. Gli esperti ritengono che il miglior modo per avere un impatto immediato sia di garantire che gli aiuti siano riuniti e coordinati, per portare effettivamente l'assistenza sanitaria alle madri e ai bambini che ne hanno più bisogno.

Con soli 5 anni rimasti per raggiungere gli Obiettivi del Millennio, c'è il pericolo che i nostri leader useranno la recessione per sottrarsi dalle responsabilità di assistenza che abbiamo nei confronti dei più poveri nel mondo. Sono sempre stati i cittadini di tutto il mondo che hanno portato avanti la battaglia contro la povertà e spinto i nostri leader a prendere azioni decisive, e questa volta sta a noi. Firma la petizione per salvare madri e bambini:

https://secure.avaaz.org/it/save_children_and_mothers/?vl

Troppo spesso accade che le comunità più povere e vulnerabili siano rappresentate soltanto da statistiche ai vertici internazionali. Alla vigilia di questo summit cruciale mobilitiamoci e diamo alle mamme ai bambini più poveri una voce. Firma la petizione sotto:

https://secure.avaaz.org/it/save_children_and_mothers/?vl

Con la speranza di un mondo più giusto,

Alice, Luis, Alex, Pascal, Mia, Ricken, Ben, Iain, Graziela e tutto il team di Avaaz.

lunedì 6 settembre 2010

IRAN: IHR, CENTINAIA DI ESECUZIONI NEL CARCERE DI MASHHAD NELL’ULTIMO ANNO


Sarebbero centinaia le esecuzioni capitali effettuate nell’ultimo anno nel carcere Vakilabad di Mashhad, nell'Iran nord-orientale, rivela 'Iran Human Rights' (Ihr), ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica.
Fonti iraniane citate da Ihr riferiscono che le esecuzioni a Mashhad hanno avuto luogo in segreto e senza preavvisare né i detenuti né i loro familiari. La maggior parte dei giustiziati, riferisce il sito web di Ihr, era stata riconosciuta colpevole di reati legati alla droga.
"Ci sono riscontri su esecuzioni di massa", ha affermato Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Ihr, riferendosi alle voci sempre piu' insistenti su quanto sta accadendo a Valikabad.
"Decine, forse centinaia di detenuti, e noi riteniamo siano centinaia, sono in pericolo di imminente esecuzione", ha aggiunto l'avvocato invocando "l'intervento della comunita' internazionale, in particolare dell'Onu, affinché invii lo Special Rapporteur per indagare su queste testimonianze".
Le rivelazioni delle fonti citate da 'Ihr' su esecuzioni di massa a Mashhad trovano conferma nella testimonianza pubblicata circa due settimane fa dal sito web d'opposizione 'Green Voice of Freedom', secondo cui sarebbero stati giustiziati 70 prigionieri senza preavviso.
Uno studente di teologia vicino all'ex presidente riformista Mohammad Khatami, Ahmad Ghabel, che ha trascorso 170 giorni nel carcere di Vakilabad ed è stato rilasciato a giugno, ha detto essere almeno 50 le persone giustiziate nel carcere nel periodo della sua detenzione.
Il 10 aprile – ha aggiunto Ghabel - 35 prigionieri sono stati impiccati a Vakilabad. Di queste esecuzioni solo cinque sono state riportate dalla stampa ufficiale.
Secondo diverse fonti, nelle carceri iraniane si sta eseguendo il piano del capo della magistratura, l'ayatollah Sadeq Larijani, che avrebbe inviato una lettera riservata alla Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, chiedendogli il proprio avallo politico per rendere esecutive 1.120 sentenze di morte gia' emesse dai tribunali del Paese.

(Fonte: Nessuno Tocchi Caino)

giovedì 2 settembre 2010

IRAN: SAKINEH, FINTA ESECUZIONE PER TORTURARLA


Il 31 agosto 2010 le autorità del carcere iraniano in cui è rinchiusa Sakineh Mohammadi Ashtiani hanno annunciato alla donna che sarebbe stata impiccata il giorno seguente, cosa che non è poi avvenuta, ha denunciato al giornale inglese The Guardian il figlio della Ashtiani.
In base alla falsa comunicazione data alla donna il 28 luglio, l’impiccagione sarebbe dovuta avvenire la mattina seguente all’alba.
La Ashtiani, che è stata condannata alla lapidazione per adulterio, ha messo per iscritto le proprie volontà ed ha abbracciato i compagni di cella nel carcere di Tabriz all’approssimarsi della chiamata per la preghiera del mattino, quando cioè si aspettava di essere portata al patibolo.
“Le pressioni internazionali hanno finora evitato che le autorità iraniane eseguissero la condanna a morte, ma la stanno uccidendo ogni giorno in tutti i modi possibili”, ha detto al giornale uno dei due figli della Ashtiani, il 22enne Sajad.
L’annuncio alla donna della finta esecuzione è giunto dopo che per giorni le autorità carcerarie hanno negato a familiari ed avvocati la visita alla prigioniera.
Ai suoi bambini è stato detto che la donna non voleva vederli mentre a lei è stato detto che nessuno aveva chiesto di incontrarla.
Sajad è venuto a conoscenza di questo ultimo episodio di violenza psicologica contro sua madre da una telefonata avuta con lei ieri.
“Sono furiosi per la mobilitazione internazionale in favore di mia madre, così si vendicano contro di lei”, ha detto. “Più sono le pressioni provenienti dall’estero, più loro la maltrattano”.
La Ashtiani, 43 anni, ha già subito 99 frustate per aver avuto “una relazione illecita fuori dal matrimonio” nel 2006, ma un altro tribunale ha riaperto il suo caso dopo l’omicidio di suo marito. La donna è stata assolta dall’accusa di omicidio ma giudicata colpevole di adulterio e condannata alla lapidazione.
Da quando il suo caso è alla ribalta internazionale, le autorità iraniane la indicano come complice nell’omicidio di suo marito, nonostante il suo avvocato Houtan Kian, nominato dal governo, abbia accusato le stesse autorità di aver inventato accuse contro di lei.
Sajad crede che l’unico motivo per cui sua madre è ancora viva sia la mobilitazione internazionale per il suo rilascio. “Prego che tutti nel mondo continuino a sostenerla, è l’unico modo utile per evitarle l’esecuzione”.
In un incontro avuto oggi nell’ufficio della magistratura della sua città, a Sajad è stato detto che il fascicolo relativo all’omicidio di suo padre è andato perso. “Stanno mentendo sulle accuse mosse a mia madre. Lei è stata assolta rispetto all’omicidio di mio padre, ma ora il governo sta presentando la propria falsa versione”.
La settimana scorsa l’abitazione dell’avvocato Kian è stata rovistata da agenti in borghese e diversi documenti, compreso quello che attesta l’assoluzione di Sakineh nel caso dell’omicidio del marito, sono stati confiscati.
Da allora le autorità hanno reso impossibile reperire una copia della sentenza. “Stanno distruggendo tutti i documenti ufficiali”, denuncia Sajad, “perché sanno che contengono molte discrepanze e contraddizioni”.