venerdì 30 gennaio 2009

Negazionisti




Prima è stata la volta di Richard Williamson (a sinistra nella foto), vescovo lefebvriano che nega la Shoah e che ha ribadito in un'intervista televisiva che: "Neppure un ebreo è stato ucciso nelle camere a gas". Williamson è uno dei quattro vescovi lefebvriani a cui Benedetto XVI ha tolto la scomunica.
Adesso un altro prete lefevriano don Floriano Abrahamowicz (a destra nella foto) si è lasciato andare a considerazioni come queste:" Le camere a gas sono state usate per disinfettare, è l'unica cosa certa, non so dire se abbiano fatti morti" ed ancora "I 6 milioni di morti derivano da quello che il capo della comunità ebraica tedesca disse agli angloamericani subito dopo la liberazione. Nella foga ha sparato una cifra".
Queste ignobili affermazioni sono la chiara dimostrazione della presenza di correnti di pensiero antisemita all'interno della chiesa cattolica, degne eredi di una tradizione che lo storico David I. Kertzer ha così ben descritto nel libro "I Papi contro gli ebrei" - Il ruolo del vaticano nell'ascesa dell'antisemitismo moderno, (edito da Rizzoli).
Queste parole codarde ed infami che negando l'esistenza della Shoah, uccidono ed umiliano una seconda volta le vittime, devono farci riflettere sulla necessità di ricordare, d'indignarsi e di reagire di fronte alla banalità del male.

giovedì 29 gennaio 2009

La religione civile che manca all'Italia

Non mi risulta ci sia lingua al mondo che usi l' aggettivo della propria nazionalità per designare qualcosa di imperfetto e di furbesco, come invece facciamo noi italiani dicendo "all' italiana". C' è sfiducia verso l' Italia anzitutto da parte degli stessi italiani: quanti di noi oggi, immaginando di scegliere dove poter nascere, sceglierebbero l' Italia? La crisi però non dipende dal fatto che valiamo poco, ma dal fatto che valiamo molto, nel senso che la notevole intelligenza degli italiani è incapace di trovare un valore-guida comune. Già nel 1513 Machiavelli scriveva che «in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma»: il nostro problema non è la materia umana, che c' è; è piuttosto la mancanza di una forma su cui modellare l' esuberanza della materia. Il problema non è il valore dei singoli, ma l' armonia tra tanti singoli di valore. Il problema, in altri termini, è "religioso", nel senso etimologico del termine religio: in Italia, a differenza degli altri paesi occidentali, manca una religione "civile", capace di legare responsabilmente l' individuo alla società. Si tratta, per dirla ancora in altro modo, di capire come mai l' Italia, ai primi posti quanto a pratica religiosa, lo sia anche per corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata e litigiosità della politica. Per argomentare il mio pensiero procedo mediante tre tesi. Prima tesi: Una società è tanto più forte quanto più è unita, e ciò che tiene unita una società è la sua religione. Con questa tesi non voglio dire che il cattolicesimo in quanto religione istituita del nostro paese sia ciò che unisce la società e che per "salvare l' occidente" anche i non credenti debbano giungere a dirsi culturalmente cattolici, come vogliono gli "atei devoti". Intendo dire, al contrario, che ciò che tiene insieme una società rappresenta de facto la religione di quella società, religione da intendersi nel senso etimologico di religio, cioè legame, principio unificatore dei singoli. Nel suo senso più profondo, infatti, che cos' è la religione? È il fatto che talora un individuo avverta un' attrazione irresistibile verso una realtà più grande di lui, nella quale egli, tuttavia, si identifica. Il termine "religione" porta al pensiero questo fenomeno fisico di dipendenza e insieme di identificazione. Chi ne è abitato non conosce nulla di più forte, e se poi condivide con altri questo legame, la struttura che si crea è solidissima. Per questo, quanto più una società condivide un principio unificatore, tanto più è forte. Il principio unificatore condiviso è stato visto dai nostri padri latini e chiamato religio, legame dei singoli che trasforma un insieme casuale in un sistema operativo. La religione civile è la particolare disposizione della mente per cui un antico romano concepiva Roma più importante di sé, o per cui i politici americani ripetono God bless America sapendo che è l' America l' idea che tiene insieme gli americani. È superficiale pensare che la società sia la semplice somma degli individui: l' Impero romano non era la somma dei cittadini romani, e l' America non è la somma degli americani. Roma e l' America rappresentano idee in grado di far sì che i singoli si sommino in modo ordinato, formando un sistema. E più l' idea è unificante, più il sistema è operativo. Seconda tesi: L' Italia non ha una religione civile e questo è il suo problema più grave. L' Italia è ai primissimi posti in Europa quanto a corruzione. La corruzione lacera il legame sociale producendo un diffuso senso di sfiducia e sfilacciamento nel Paese e un' immagine negativa all' estero. Occorre chiedersi come mai siamo così corrotti e corruttori. Anche senza la retorica degli "italiani brava gente", io non penso che la causa di tale fenomeno sia che gli italiani, individualmente presi, siano moralmente peggiori degli altri europei. Penso piuttosto che la causa sia la mancanza, all' interno della coscienza comune, di un' idea superiore rispetto all' Io e ai suoi interessi. I danesi, che risultano il popolo meno corrotto d' Europa, come singoli non penso siano moralmente migliori degli italiani; penso piuttosto che essi condividano in misura molto maggiore la convinzione che vi sia qualcosa più importante del loro particulare, per usare la classica espressione di Guicciardini. Questo qualcosa cui l' Io sa cedere il passo è la società: il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che essa è più importante di lui e perché al contempo vi si identifica, secondo la logica di dipendenza e identificazione vista sopra. Viceversa in Italia i più ritengono che il singolo sia più importante della società, e per il bene del singolo non si esita a depredare il bene comune della società. Da qui il tipico male italiano che è la furbizia, uso distorto dell' intelligenza. Il furbo è un intelligente che sbaglia mira, che non ha un oggetto adeguato su cui dirigere l' intelligenza, che non capisce il primato dell' oggettività e la dirige solo su di sé. Al contrario chi sa usare davvero l' intelligenza capisce che la vita contiene valori più grandi del suo piccolo Io, e di conseguenza vi si dedica. L' intelligente gravita attorno a una stella, il furbo invece fa di se stesso la stella attorno a cui tutto deve ruotare. Con l' ovvio risultato che un insieme di intelligenti è in grado di creare un sistema, in questo caso non solare ma sociale, mentre un insieme di furbi è destinato semplicemente al caos e alla reciproca sopraffazione. Noi italiani siamo più corrotti perché usiamo in modo distorto la nostra intelligenza, e tale distorsione la si deve alla mancanza di un' idea comune più grande dell' Io, cioè di una religione civile e dell' etica che ne discende. La religione civile è ciò che consente di rispondere alla seguente domanda: perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo? Senza un legame di tipo "religioso" con la società, nessuno sacrifica il suo particulare, nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d' importanza vitale per il nostro paese. Terza tesi: Una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune. I tentativi di creare un' etica civile in Italia sono stati, e sono, di due tipi: guelfo e ghibellino. Il primo intende l' etica civile come traduzione diretta del cattolicesimo, anche a prescindere dalla fede: è l' idea degli atei devoti, guardata con notevole favore dall' attuale gerarchia cattolica. Il secondo ritiene al contrario che un' etica civile potrà sorgere solo dal superamento del cattolicesimo, ritenuto il principale responsabile della sua mancanza in Italia soprattutto per la presenza del papato. Io ritengo entrambi i tentativi destinati a fallire, il primo perché non tiene conto della secolarizzazione e della globalizzazione, il secondo della tradizione. La storia ci ha mostrato infatti che una religione civile contrapposta al cattolicesimo non sia politicamente concepibile in Italia, si pensi al mito risorgimentale della nazione confluito nel fascismo e al mito della società confluito nel comunismo. Una religione civile, e la conseguente etica di cui l' Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il cattolicesimo, non contro di esso. Non so in quale direzione si debba muovere il pensiero dei laici per contribuire alla nascita di un' etica civile in Italia pari a quella degli altri paesi occidentali. Mi sento però di dire, da teologo, che il lavoro in questa direzione da parte dei cattolici è uno dei compiti più urgenti. Si tratta di porre davvero la fede a servizio del mondo, di questo pezzo di mondo che si chiama Italia, pensandosi come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta. Fino a quando il seme vorrà preservare la sua identità di seme senza pensarsi in funzione della pianta, verrà meno al suo compito; fino a quando il lievito vorrà preservare la sua identità di lievito senza pensarsi in funzione della pasta, verrà meno al suo compito. Fino a quando i cattolici italiani vorranno preservare la loro identità di cattolici senza pensarsi al servizio della società italiana, verranno meno al loro compito; e fino a quando la Chiesa tutelerà i suoi interessi particolari come una delle tante lobby senza essere davvero "cattolica" cioè universale, non sarà fedele al suo compito che è spendersi "per la vita del mondo". La situazione del Paese richiede a ogni italiano, laico o cattolico, con responsabilità politiche in campo civile o in campo ecclesiastico, di ripensare il proprio rapporto con la società secondo ciò che in termini religiosi si chiama "conversione". Purtroppo non è più sdolcinata retorica dire che ne va del futuro dei nostri figli.

di VITO MANCUSO

(Fonte:la Repubblica.it)

martedì 27 gennaio 2009

Auschwitz, 64 anni dopo


Auschwitz, "Un indicibile incomprensibile" - La risposta di Paul Celan e di Theodor Adorno


Come si può mai comprendere Auschwitz? Come si può presumere di comprendere il male radicale? Questa domanda, in forma più o meno esplicita circola nella politica, nell’arte, nella psicologia, nella storia, nella filosofia. Già nell’immediato dopoguerra il filosofo ebreo tedesco Theodor W. Adorno prescrisse ai poeti il silenzio: nessuna poesia avrebbe mai potuto né dovuto osare dire l’indicibile. Da allora questa posizione si è andata – malgrado tutto – affermando. Ad esempio nell’arte: la difficoltà di rappresentare l’irrappresentabile emerge in quei monumenti non-monumenti costruiti negli ultimi anni nelle città europee e americane. Basterà ricordare il Memoriale di Berlino. Analoghe precauzioni attraversano altri ambiti, tra cui in particolare quello della filosofia dove vengono sottolineati i pericoli che deriverebbero da ogni tentativo di comprendere o anche solo di frequentare il male radicale nel suo infinito potere inglobante. Ma trincerarsi dietro la difficoltà di dire e di comprendere comporta pericoli non minori. Dal non dire al negare il passo è breve – e nella storia si è giunti perfino a negare i fatti. Il male sarebbe un nulla, fuori da ciò che si può dire e che si può comprendere. Questo negare è un modo di prendere parte all’impresa dello sterminio: il male ha voluto non solo la cancellazione delle coscienze e la morte dei corpi, ma la negazione totale della comprensione.Perché allora concedere ad Auschwitz il privilegio della mistica e adorarlo in silenzio? Perché confinarlo nel dominio del mistero, di ciò che è inesplicabile? Sono queste domande che hanno spinto Paul Celan a raccogliere il rantolo che minacciava di spegnersi, a lanciare la “anti-parola” della sua poesia contro ogni tentativo di fare di Auschwitz un indicibile incomprensibile, di dissolverlo nel nulla, di annientarlo ancora.


Donatella Di Cesare, filosofa

lunedì 26 gennaio 2009

Giornata della memoria


Domani è il 27 gennaio. Confesso che fino due giorni fa mi ponevo molte domande sul senso di questa giornata. Mi dicevo che non ha senso continuare ad affastellare commemorazioni, che bisognava guardare all'uso, o al buon uso, della memoria. Che il vero problema è per che cosa ricordiamo. E' bastato un vescovo negazionista e antisemita riaccolto in seno alla Chiesa per farmi dimenticare questi dubbi. No, non del tutto. Certo è che non mi sento più così ripetitiva a commemorare quella liberazione di Auschwitz. Grazie, vescovo Williamson, di avermi restituito il gusto della giornata della Memoria!

Anna Foa, storica

mercoledì 21 gennaio 2009

Barack Obama, discorso d'insediamento


Concittadini, oggi sono qui di fronte a voi con umiltà di fronte all'incarico, grato per la fiducia che avete accordato, memore dei sacrifici sostenuti dai nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il suo servizio alla nostra nazione, come anche per la generosità e la cooperazione che ha dimostrato durante questa transizione.
Sono quarantaquattro gli americani che hanno giurato come presidenti. Le parole sono state pronunciate nel corso di maree montanti di prosperità e in acque tranquille di pace. Ancora, il giuramento è stato pronunciato sotto un cielo denso di nuvole e tempeste furiose. In questi momenti, l'America va avanti non semplicemente per il livello o per la visione di coloro che ricoprono l'alto ufficio, ma perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati, e alla verità dei nostri documenti fondanti. Così è stato. Così deve essere con questa generazione di americani.
Che siamo nel mezzo della crisi ora è ben compreso. La nostra nazione è in guerra, contro una rete di vasta portata di violenza e odio. La nostra economia è duramente indebolita, in conseguenza dell'avidità e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era. Case sono andate perdute; posti di lavoro tagliati, attività chiuse. La nostra sanità è troppo costosa, le nostre scuole trascurano troppi; e ogni giorno aggiunge un'ulteriore prova del fatto che i modi in cui usiamo l'energia rafforzano i nostri avversari e minacciano il nostro pianeta.
Questi sono indicatori di crisi, soggetto di dati e di statistiche. Meno misurabile ma non meno profondo è l'inaridire della fiducia nella nostra terra: la fastidiosa paura che il declino dell'America sia inevitabile, e che la prossima generazione debba ridurre le proprie mire. Oggi vi dico che le sfide che affrontiamo sono reali. Sono serie e sono molte. Non saranno vinte facilmente o in un breve lasso di tempo. Ma sappi questo, America: saranno vinte. In questo giorno, ci riuniamo perché abbiamo scelto la speranza sulla paura, l'unità degli scopi sul conflitto e la discordia. In questo giorno, veniamo per proclamare la fine delle futili lagnanze e delle false promesse, delle recriminazioni e dei dogmi logori, che per troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
Rimaniamo una nazione giovane, ma, nelle parole della Scrittura, il tempo è venuto di mettere da parte le cose infantili. Il tempo è venuto di riaffermare il nostro spirito durevole; di scegliere la nostra storia migliore; di riportare a nuovo quel prezioso regalo, quella nobile idea, passata di generazione in generazione: la promessa mandata del cielo che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti meritano una possibilità per conseguire pienamente la loro felicità.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, capiamo che la grandezza non va mai data per scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie o di ribassi. Non è stato un sentiero per i deboli di cuore, per chi preferisce l’ozio al lavoro, o cerca solo i piaceri delle ricchezze e della celebrità. E’ stato invece il percorso di chi corre rischi, di chi agisce, di chi fabbrica: alcuni celebrato ma più spesso uomini e donne oscuri nelle loro fatiche, che ci hanno portato in cima a un percorso lungo e faticoso verso la prosperità e la libertà.
Per noi hanno messo in valigia le poche cose che possedevano e hanno traversato gli oceani alla ricerca di una nuova vita.
Per noi hanno faticato nelle fabbriche e hanno colonizzato il West; hanno tollerato il morso della frusta e arato il duroterreno.
Per noi hanno combattuto e sono morti in posti come Concord e Gettysburg, la Normandia e Khe Sahn.
Ancora e ancora questi uomini e queste donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato fino ad avere le mani in sangue, perché noi potessimo avere un futuro migliore. Vedevano l’America come più grande delle somme delle nostre ambizioni individuali, più grande di tutte le differenze di nascita o censo o partigianeria.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo il paese più prosperoso e più potente della Terra. I nostri operai non sono meno produttivi di quando la crisi è cominciata. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari della settimana scorsa o del mese scorso o dell’anno scorso. Le nostre capacità rimangono intatte. Ma il nostro tempo di stare fermi, di proteggere interessi meschini e rimandare le decisioni sgradevoli, quel tempo di sicuro è passato. A partire da oggi, dobbiamo tirarci su, rimetterci in piedi e ricominciare il lavoro di rifare l’America.
Perché ovunque guardiamo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo: non solo per creare nuovi lavori ma per gettare le fondamenta della crescita. Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche, le linee digitali per nutrire il nostro commercio e legarci assieme. Ridaremo alla scienza il posto che le spetta di diritto e piegheremo le meraviglie della tecnologia per migliorare le cure sanitarie e abbassarne i costi. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifornire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole e i college e le università per soddisfare le esigenze di una nuova era. Tutto questo possiamo farlo. E tutto questo faremo.
Ci sono alcuni che mettono in dubbio l’ampiezza delle nostre ambizioni, che suggeriscono che il nostro sistema non può tollerare troppi piani grandiosi. Hanno la memoria corta. Perché hanno dimenticato quanto questo paese ha già fatto: quanto uomini e donne libere possono ottenere quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune, la necessità al coraggio.
Quello che i cinici non riescono a capire è che il terreno si è mosso sotto i loro piedi, che i diverbi politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non hanno più corso. La domanda che ci poniamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona: se aiuta le famiglie a trovare lavori con stipendi decenti, cure che possono permettersi, unapensione dignitosa. Quando la risposta è sì, intendiamo andareavanti. Quando la risposta è no, i programmi saranno interrotti. E quelli di noi che gestiscono i dollari pubblici saranno chiamati a renderne conto: a spendere saggiamente, a riformare le cattive abitudini, e fare il loro lavoro alla luce del solo, perché solo allora potremo restaurare la fiducia vitale fra un popolo e il suo governo.
Né la domanda è se il mercato sia una forza per il bene o per il male. Il suo potere di generare ricchezza e aumentare la libertànon conosce paragoni, ma questa crisi ci ha ricordato che senza occhi vigili, il mercato può andare fuori controllo, e che unpaese non può prosperare a lungo se favorisce solo i ricchi. Il successo della nostra economia non dipende solo dalle dimensioni del nostro prodotto interno lordo, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di ampliare le opportunità a ogni cuore volonteroso, non per beneficenza ma perché è la via più sicura verso il bene comune.
Per quel che riguarda la nostra difesa comune, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali. I Padri Fondatori, di fronte a pericoli che facciamo fatica a immaginare, prepararono un Carta che garantisse il rispetto della legge e i diritti dell’uomo, una Carta ampliata con il sangue versato da generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondoe non vi rinunceremo in nome del bisogno. E a tutte le persone e i governi che oggi ci guardano, dalle capitali più grandi al piccolo villaggio in cui nacque mio padre, dico: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che cerca un futuro di pace e dignità, e che siamo pronti di nuovo a fare da guida.
Ricordate che le generazioni passate sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i carri armati e i missili, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Capirono che la nostra forza da sola non basta a proteggerci, né ci dà il diritto di fare come ci pare. Al contrario, seppero che il potere cresce quando se ne fa un uso prudente; che la nostra sicurezza promana dal fatto che la nostra causa giusta, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e della moderazione.
Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta da questi principi, possiamo affrontare quelle nuove minacce cherichiedono sforzi ancora maggiori - e ancora maggior cooperazione e comprensione fra le nazioni. Inizieremo a lasciare responsabilmente l’Iraq al suo popolo, e a forgiare una pace pagata a caro prezzo in Afghanistan. Insieme ai vecchi amici e agli ex nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e allontanare lo spettro di un pianeta surriscaldato. Non chiederemo scusa per la nostra maniera di vivere, né esiteremo a difenderla, e a coloro che cercano di ottenere i loro scopi attraverso il terrore e il massacro di persone innocenti, diciamo che il nostro spirito è più forte e non potrà essere spezzato. Non riuscirete a sopravviverci, e vi sconfiggeremo.
Perché sappiamo che il nostro multiforme retaggio è una forza, non una debolezza: siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù - e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra. E dal momento che abbiamo provato l’amaro calice della guerra civile e della segregazione razziale, per emergerne più forti e più uniti, non possiamo che credere che odii di lunga data un giorno scompariranno; che i confini delle tribù un giorno si dissolveranno; che mentre il mondo si va facendo più piccolo, la nostra comune umanità dovrà venire alla luce; e che l’America dovrà svolgere un suo ruolo nell’accogliere una nuova era di pace.
Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basato sull’interesse comune e sul reciproco rispetto. A quei dirigenti nel mondo che cercano di seminare la discordia, o di scaricare sull’Occidente la colpa dei mali delle loro società, diciamo: sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a ciò che siete in grado di costruire, non di distruggere. A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno.
Ai popoli dei Paesi poveri, diciamo di volerci impegnare insieme a voi per far rendere le vostre fattorie e far scorrere acque pulita; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quei Paesi che come noi hanno la fortuna di godere di una relativa abbondanza, diciamo che non possiamo più permetterci di essere indifferenti verso la sofferenza fuori dai nostri confini; né possiamo consumare le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Perché il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare insieme al mondo.
Volgendo lo sguardo alla strada che si snoda davanti a noi, ricordiamo con umile gratitudine quei coraggiosi americani che in questo stesso momento pattugliano deserti e montagne lontane. Oggi hanno qualcosa da dirci, così come il sussurro che ci arriva lungo gli anni dagli eroi caduti che riposano ad Arlington: rendiamo loro onore non solo perché sono custodi della nostra libertà, ma perché rappresentano lo spirito di servizio, la volontà di trovare un significato in qualcosa che li trascende. Eppure in questo momento - un momento che segnerà una generazione - è precisamente questo spirito che deve animarci tutti.
Perché, per quanto il governo debba e possa fare, in definitiva sono la fede e la determinazione del popolo americano su cui questo Paese si appoggia. E’ la bontà di chi accoglie uno straniero quando le dighe si spezzano, l’altruismo degli operai che preferiscono lavorare meno che vedere un amico perdere il lavoro, a guidarci nelle nostre ore più scure. E’ il coraggio del pompiere che affronta una scala piena di fumo, ma anche la prontezza di un genitore a curare un bambino, che in ultima analisi decidono il nostro destino.
Le nostre sfide possono essere nuove, gli strumenti con cui le affrontiamo possono essere nuovi, ma i valori da cui dipende il nostro successo - il lavoro duro e l’onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo - queste cose sono antiche. Queste cose sono vere. Sono state la quieta forza del progresso in tutta la nostra storia. Quello che serve è un ritorno a queste verità. Quello che ci è richiesto adesso è una nuova era di responsabilità - un riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, verso la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo a malincuore ma piuttosto afferriamo con gioia, saldi nella nozione che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, di più caratteristico della nostra anima, che dare tutto a un compito difficile.
Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia: la nozione che Dio ci chiama a forgiarci un destino incerto. Questo il significato della nostra libertà e del nostro credo: il motivo per cui uomini e donne e bambine di ogni razza e ogni fede possono unirsi in celebrazione attraverso questo splendido viale, e per cui un uomo il cui padre sessant’anni fa avrebbe potuto non essere servito al ristorante oggi può starvi davanti a pronunciare un giuramento sacro.
E allora segnamo questo giorno col ricordo di chi siamo e quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno della nascita dell’America, nel più freddo dei mesi, un drappello di patrioti si affollava vicino a fuochi morenti sulle rive di un fiume gelato. La capitale era abbandonata. Il nemico avanzava, la neve era macchiata di sangue. E nel momento in cui la nostra rivoluzione più era in dubbio, il padre della nostra nazione ordinò che queste parole fossero lette al popolo: “Che si dica al mondo futuro... Che nel profondo dell’inverno, quando nulla tranne la speranza e il coraggio potevano sopravvivere... Che la città e il paese, allarmati di fronte a un comune pericolo, vennero avanti a incontrarlo”.
America. Di fronte ai nostri comuni pericoli, in questo inverno delle nostre fatiche, ricordiamoci queste parole senza tempo. Con speranza e coraggio, affrontiamo una volta ancora le correnti gelide, e sopportiamo le tempeste che verranno. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio con noi, portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future.

martedì 20 gennaio 2009

Barack Obama discorso d'insediamento


Cari concittadini ... le sfide che dobbiamo affrontare sono molto e gravi ... ci riuniamo qui perchè abbiamo scelto la speranza e non la rassegnazione ... tutti siamo uguali e liberi e tutti dobbiamo avere una possibilità ... a partire da oggi dobbiamo metterci in moto per lavorare per rifare l'America ... i cinici non capiscono che il terreno gli è crollato sotto i piedi ... la discussione non è se il mercato e buono o cattivo, qui il mercato è uscito dal controllo ... noi cominceremo a lasciare l'Iraq ... noi sappiamo che la nostra eredità composita è una richezza ... ai dittatori sappiate che siete dalla parte sbagliata della storia ... al mondo mussulmano ... una mano tesa .. le sfide sono nuove, ma i valori sono vecchi ... un uomo meno di 60 anni non poteva essere servito in un locale e oggi può essere qui davanti a voi ... America dinnanzi ai nostri pericoli comuni davanti a questo inverno ... chiedo una nuova era di responsabilità ...

lunedì 19 gennaio 2009

GAZA NON E' SARAJEVO. PUO' BASTARE?

Tsahal e il «riservista» Asaf -Perché Gaza non è Sarajevo

Osservo i giovani e il volto delle ragazze al check point per Gerusalemme: eccoli qua gli interlocutori di Israele

di BERNARD-HENRI LÉVI

Yuval Diskin è il capo dello Shin Bet, il mitico e temibile Servizio di sicurezza interna dello Stato di Israele. Per quanto ne sappia, non ha mai parlato. Comunque, non dopo l'inizio di questa guerra. Ha una quarantina d'anni. È alto. Massiccio. Un aspetto da militare, smentito dal suo abbigliamento: jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Mi riceve, all'alba, nel suo ufficio a nord di Tel Aviv che, con le sue feritoie orizzontali, assomiglia a una casamatta. «Tutto questo per Sderot? — comincio io —. Questo diluvio di fuoco, e le vittime, per fermare i Qassam su Sderot, sulle altre città e sui kibbutz del Sud del Paese?». «Sì, certo — mi risponde irritato —. Nessuno Stato al mondo tollererebbe di veder cadere così, tutti i giorni, le granate sulla testa dei propri cittadini». Poi, visto che gli rispondo di saperlo e gli dico che, per una questione di principio e di solidarietà, vado a Sderot ogni volta che arrivo in Israele, e aggiungo che forse, negoziando, si poteva evitare di giungere a questo punto, egli s'interrompe, alza le spalle e, con il tono di chi decide, visto che gli altri ci tengono, d'entrare nei dettagli, riprende.
«Bisogna che lei capisca, in questo caso, chi sono quelli di Hamas. Noi li conosciamo meglio di chiunque. Talvolta, ho l'impressione di esser capace di seguire in tempo reale anche le loro minime decisioni, talvolta di precederle. Ebbene, siamo consapevoli di tre cose». Gli portano una tazza di caffè che beve in un sorso. «Intanto, la loro strategia, che è quella dei Fratelli musulmani di cui sono l'emanazione e che mira a prendere il potere, sulla lunga durata, in Libano, in Giordania, in Israele...». Faccio un cenno per dire che so. «Bene. In seguito, l'alleanza con l'Iran, che può sembrare contro natura tanto è pesante il contenzioso fra sunniti e sciiti, ma di cui conosciamo tutta la storia». La data: 1993. Lo scenario: un consiglio di ulema siriani, sauditi, cisgiordani, cittadini di Gaza. L'ispiratore: l'egiziano El Kardaoui, importatore in terra sunnita della strategia sciita degli attentati suicidi. «Infine, l'essenziale: la rete di trecento tunnel, scavati sotto la frontiera egiziana col tacito accordo di Mubarak il quale, ogni volta che ne parlavamo, giurava che se ne sarebbe occupato, ma purtroppo non faceva nulla, tanto era il timore di contrariare i suoi Fratelli musulmani». Come i pacifisti israeliani, si può pensare che la distruzione di quei tunnel sarebbe bastata. Si può ritenere — è il mio caso — che, avendo questa guerra già avuto come effetto di far scoprire al mondo intero l'esistenza dei tunnel e di aver messo quindi gli egiziani con le spalle al muro, Israele potrebbe fermarsi e decidere fin da oggi, 11 gennaio, un cessate il fuoco. Quel che non si può ignorare è il contesto: Gaza che, evacuata, non diviene l'embrione dello Stato palestinese tanto desiderato, ma la base avanzata di una guerra totale contro lo Stato ebraico.
Mi trovo a Baka-el-Garbil, vicino a Um-el-Fahem: è una delle città di arabi israeliani che nel 1948 hanno scelto di restare a casa loro e costituiscono, sessant'anni dopo, il 20 per cento della popolazione del Paese. Questo pomeriggio, la città è scesa in piazza: 15.000 persone protestano contro il «genocidio» di Gaza. Ci sono militanti, che indossano la kefiah a scacchi del Fatah. Altri, che sventolano la bandiera verde di Hamas. Vedo anche, all'inizio del corteo, giovani incappucciati che urlano — ricordo che siamo nel centro di Israele — facendo appello all'Intifada, alla Jihad, al martirio. «Questo Israele che voi rigettate non è il vostro Israele? — chiedo a uno di loro —. Non è lo Stato di cui siete cittadini allo stesso modo e con gli stessi diritti degli altri suoi cittadini?». Il ragazzo mi squadra come fossi un pazzo. Mi risponde che Israele è uno Stato razzista che lo tratta come una sottospecie, gli vieta di frequentare università e night- club e, di conseguenza, non si deve aspettare da parte sua che gli sia fedele. Raggiunge quindi i suoi compagni, abbandonandomi alle mie perplessità: bella solidità di una democrazia che, in tempo di guerra, si accontenta che un cittadino su cinque sia sull'orlo della secessione politica; e vertiginosa fragilità di un legame sociale di cui vediamo bene come potrebbe, dall'interno, sciogliersi. Altro contesto? No. Ma situazione di Israele.
«Nulla giustifica la morte di un ragazzino — mi ha detto Asaf, 33 anni, proprietario di un ristorante a New York e, nei periodi da riservista, pilota di elicotteri Cobra —. Nulla. Per questo, quando il rischio esiste, quando in cabina di pilotaggio mi accorgo che, prendendo di mira un obbiettivo militare, potrei colpire anche dei civili, lascio perdere e torno alla base». Ho sfidato Asaf a darmi la prova di quanto dice. È così che mi trovo nel Negev, sulla base di Palmachim, il sancta sanctorum della tecnologia israeliana dove in particolare sono stati sperimentati i famosi missili anti- missili Arrow. A bordo, videocassette di Asaf. Registrazione del suo dialogo, il 3 gennaio, con un interlocutore a terra durante il quale l'informa che ha deciso di interrompere la missione perché il «terrorista» in linea di mira è stato raggiunto da un bambino. E filmati incredibili — ne ho visti quattro — di missili già lanciati che il pilota, vedendo apparire un civile sul suo schermo o una jeep presa a bersaglio entrare nel garage di un edificio di cui non sono stati avvertiti, come è d'uso, gli occupanti, fa dirottare in piena corsa e esplodere in un campo. Che non tutti abbiano gli stessi scrupoli, lo immagino (infatti, come spiegare altrimenti i troppo numerosi e inaccettabili bagni di sangue?). Ma che in Tsahal esistano persone come Asaf, che le procedure comandino di agire piuttosto come Asaf, insomma che Asaf non sia l'eccezione ma la regola, è importante dirlo (e pazienza per il cliché che vuole ridurre Tsahal a un'accozzaglia di bruti che si accaniscono su donne e vegliardi).
Ehud Barak è a casa sua. L'avevo visto ieri a Palmachim, circondato dai suoi generali. Lo ritrovo oggi, in un salone lungo lungo, che sembra costruito attorno ai due pianoforti che egli suona da virtuoso. Anche lui evoca il dilemma morale a cui il suo esercito è confrontato. Descrive il calcolo di Hamas che, proprio perché sa come funzionano gli israeliani, installa i suoi depositi di armi nel cortile di una scuola, nella sala di un ospedale, in una moschea. «Delle due l'una — mi spiega con un tono in cui si scorge, ci giurerei, una curiosità da stratega di fronte a una tattica inedita —. O ne siamo informati e non spariamo, e loro hanno vinto. Oppure l'ignoriamo e spariamo, e loro filmano le vittime, inviano le immagini alle televisioni e hanno ugualmente vinto». Mi accingo a chiedergli come l'uomo di Camp David, la Colomba che offrì ad Arafat, nove anni fa, le chiavi di uno Stato palestinese che questi non volle, viva personalmente questo dilemma. E sto per fargli osservare che Israele non sarebbe a questo punto senza la serie di occasioni mancate, di passi falsi, di cecità dei governi che seguirono. Ma suona il telefono. È Condoleezza Rice che chiama per spingerlo, appunto, a concludere al più presto un cessate il fuoco. Perché al più presto, secondo lei? Il ministro-pianista sorride. Perché, per una questione di pochi giorni, lo stesso cessate il fuoco sarà opera sua, di Condy, o dell'altro Barack (Obama) che le ruberà la sua eredità.
Amos Oz è prostrato. Il grande scrittore, coscienza del Paese e, in particolare, del campo della Pace, autore di Aidez-nous à divorcer. Israël Palestine: deux Etats maintenant (Editions Gallimard 2004) che ritrovo a Gerusalemme dal nostro amico comune Shimon Peres, ricorda come Tsahal dovette trattare, sette anni fa, la vicenda del «genocidio di Jenin» (66 morti, di cui 23 israeliani). Poi, quando ci fu la guerra in Libano, il dramma di Cana (remake, secondo alcuni, dell'assalto al ghetto di Varsavia). Parliamo anche delle armi terrificanti che utilizzerebbe Tsahal (il cui effetto sarebbe di «assorbire» l'ossigeno attorno al punto di impatto). La voce che circola quel giorno, la storia di una casa, nella zona di Zeitun, dove sarebbero state attirate cento persone prima che si sparasse nel mucchio, gli sembra tuttavia così insensata che non sa come interpretarla, né come abbia preso forma. Pare che tutto sia cominciato con una vaga testimonianza raccolta da una Ong (Organizzazione non governativa). Poi ci si son messi i giornalisti: «Che si lasci entrare la stampa! Come possiamo smentire i "si dice" se non siamo presenti? ». Dopodiché, è il villaggio mediatico planetario ad agitarsi: «Tsahal avrebbe... Tsahal potrebbe... Il dottor X conferma che Tsahal sarebbe all'origine di...». Questi condizionali sottili e per modo di dire prudenti sono un vero veleno. Fra due giorni non si parlerà più delle dicerie di Zeitun. Ma quali saranno le conclusioni della gente? Che era una voce assurda? O che un orrore scaccia l'altro e che Tsahal, nel frattempo, avrebbe superato un altro gradino sulla scala dell'abominio e del crimine? Amos Oz, il Camus di Israele. La disinformazione, o il mito ebraico di Sisifo.
Un'altra voce, di cui io stesso ho potuto verificare l'infondatezza, è quella del «blocco umanitario». Sorvolo sul caso dell'Ospedale Shiba di Tel Aviv, il cui vice- direttore, Raphi Walden mi spiega che il 70 per cento dei pazienti sono palestinesi. Sorvolo sulla vicenda delle ambulanze colpite per sbaglio da Tsahal, ma deliberatamente bloccate dal ministero della Salute di Hamas, che prende in ostaggio i suoi civili e soprattutto non vuole che siano curati all'ospedale Soroka di Beer Sheva. L'informazione decisiva la ricevo il 14 gennaio, al terminal di Keren Shalom, estremo sud della striscia di Gaza, dove un centinaio di camion passano, come ogni mattina, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle Ong. Farina, medicinali, alimenti per neonati, coperte. Nulla, nessuno e soprattutto non gli abituali soccorsi umanitari potranno attenuare, qui come altrove, le sofferenze delle famiglie che hanno perso uno dei loro cari. Ma i fatti sono i fatti. E il fatto è che più di 20.000 tonnellate sono entrate, dall'inizio dell'operazione, sotto le insegne dell'Unicef o del World Food Program. Come mi dice il colonnello Jehuda Weintraub il quale, in un'altra vita, scrisse una tesi su Chrétien de Troyes e che, a sessant'anni, si impegna nel «coordinamento » degli aiuti: «La guerra è sempre orribile, criminale, piena di furore; perché aggiungere, alla sua atrocità, la menzogna?».
A Parigi, si alzano i toni. Jean-Marie Le Pen dichiara che Gaza è un campo di concentramento. Altri, vicini alla sinistra radicale, gridano che da molto tempo non c'era stato un massacro di musulmani peggiore di quello degli abitanti di Gaza. E i 300.000 del Darfur? E i 200.000 bosniaci? E le decine di migliaia di ceceni che Putin andò a «snidare fin dentro i cessi» e che non vi strapparono neanche una lacrima? Diversamente da voi, desideroso di provare almeno ad andare a vedere, il 13 gennaio, scesa la notte, sono entrato nei sobborghi di Gaza City, nel quartiere Abasan Al-Jadida, un chilometro a nord di Khan Yunis, «embedded» nell'unità di élite Golani. So, per averlo evitato tutta la vita, che il punto di vista dell'«embedded» non è mai il buon punto di vista. E non pretenderò di aver capito in qualche ora lo spirito di questa guerra. Ma, detto questo, ecco la mia testimonianza. I combattenti di Varsavia non avevano, purtroppo, le mine anticarro come quella appena esplosa sotto le ruote di un veicolo passato venti minuti prima del nostro. I loro aggressori non conoscevano quella stanchezza, quel profondo disgusto per la guerra che esprimono il comandante Gidi Kfirel e i quattro riservisti che ci accompagnano. Infine, posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo (palazzoni immersi nell'oscurità ma in piedi, frutteti all'abbandono, la via Khalil al-Wazeer con i negozi chiusi) indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo. Questo è ancora un fatto.
Ehud Olmert a Gerusalemme. Racconta, non senza comicità, il balletto dei mediatori troppo frettolosi. Torna a parlare del doppio gioco di un Mubarak che la comunità internazionale dovrà pur costringere a chiudere le sue frontiere ai beduini contrabbandieri. Ma ecco che Olmert cambia tono. E con una voce più bassa, quasi confidenziale, comincia a raccontarmi l'ultima visita di Abu Mazen, tre settimane fa, proprio in questo ufficio, dove ora mi trovo io. «Gli ho fatto un'offerta. 94,5 per cento della Cisgiordania. Più 4,5 per cento sotto forma di scambio di territori. Più un tunnel, sotto il suo controllo, che colleghi la Cisgiordania a Gaza e che equivale all'1 per cento mancante. Quanto a Gerusalemme, una soluzione logica e semplice: i quartieri arabi per lui; i quartieri ebraici per noi; e i Luoghi Santi sotto un'amministrazione congiunta saudita, giordana, israeliana, palestinese, americana. Abu Mazen m'ha chiesto di lasciargli il foglio su cui avevo disegnato lo schema. Non gliel'ho dato, perché lo conosco e so che, la prossima volta, l'avrebbe utilizzato come punto di partenza di un contro-negoziato. Comunque, l'offerta c'è... Aspetto...». È troppo bello per essere vero? Possibile che siamo passati, così di recente, tanto vicini alla pace?
Abu Mazen non è a Ramallah, capitale dei palestinesi moderati. E nemmeno Yasser Abed Rabbo, con il quale una volta sostenemmo il piano di pace di Ginevra e che, anche lui, si trova al Cairo. Al loro posto, in un edificio del centro, incontro Mustafa Barghuti, presidente della Palestinian Relief Society, e Mamdouh Aker, medico, autorità morale e veterano del dialogo israelo-palestinese. Né l'uno né l'altro credono alla serietà di un'offerta di pace proposta da un primo ministro che sta per lasciare il proprio posto. Entrambi parlano severamente di Abu Mazen, colpevole di instaurare uno «Stato poliziesco». Soprattutto, mi rendo conto di come stiano attenti a non dire nulla che sembri attaccare Hamas che, come sanno, ha la solidarietà della piazza palestinese. Eppure, riflettendo bene, ascoltando il primo parlarmi con nostalgia del «piano saudita » di coesistenza dei due Stati, osservando il secondo animarsi solo nell'evocare la sua «Lettera a Yitzhak Rabin», pubblicata nel 1988 dal Jerusalem Post perché i giornali arabi l'avevano rifiutata, guardando infine, al ritorno, l'atteggiamento dei giovani e il volto scoperto delle ragazze che fanno la fila con me per entrare a Gerusalemme, al check-point di Kalandiya, mi sorprendo a crederci di nuovo. Ma certo, eccoli qua, gli interlocutori di Israele. Sono qui i partner della pace futura. Una pace malgrado tutto. Una pace al di là delle devastazioni e delle lacrime. Una pace ragionata, senza effusioni né entusiasmi, ma forse, per questo, più che mai a portata di mano. Due popoli, due Stati. Una pace, e nulla di più.

(traduzione di Daniela Maggioni)
(Fonte: CORRIERE DELLA SERA)

sabato 17 gennaio 2009

I gemelli


Cristiani ed ebrei fratelli divisi


Oggi, 17 gennaio, vigilia della settimana di preghiera per l'unità visibile di tutte le confessioni cristiane, ebrei e cristiani avrebbero dovuto celebrare insieme la giornata dedicata al dialogo religioso tra loro. Questa iniziativa, voluta e perseguita da quel gruppetto sparuto che a partire dal Concilio Vaticano II si era particolarmente impegnato nell’incontro, nella conoscenza e nel confronto con gli ebrei (il Sae, la Comunità di Bose e il sottoscritto, altri pionieri del dialogo ecumenico...), trovò poi nel 1990 un’istituzione precisa e fissa grazie allo stimolo di mons. Alberto Ablondi, vescovo incaricato per l’ecumenismo di parte cattolica in Italia. Un’iniziativa «italiana», che fu più tardi assunta da altre Chiese europee, un’iniziativa convinta: nel dialogo tra le Chiese cristiane non si poteva dimenticare il dialogo con gli ebrei, i nostri fratelli (l’aggiunta dell’aggettivo «maggiori» ha solo un senso affettivo), perché noi e loro siamo stati generati sulla radice santa dell’Israele che è in alleanza eterna e mai revocata con il Dio uno, vivente e vero. Sappiamo che il dialogo tra ebrei e cristiani è asimmetrico. Noi cristiani abbiamo bisogno di dialogare con loro e di guardarli come popolo di Dio nella storia, mentre gli ebrei a livello teologico non hanno un eguale bisogno di noi; infatti, terminato il tempo della teologia del disprezzo nei loro confronti, noi abbiamo iniziato ad abbozzare una teologia dell’ebraismo, mentre sappiamo di non poter pretendere un cammino speculare da parte loro. Per noi cristiani «l’Israele di Dio» (Gal 6,16), cioè gli ebrei credenti e confessanti Dio (e solo Dio li conosce in verità), ci sta accanto in attesa del compimento delle promesse di Dio, che possiamo accelerare solo attraverso la preghiera. Non bisogna d’altra parte dimenticare che, dopo lo «scisma» tra ebrei e cristiani alla fine del I secolo e fino all’ora del Concilio Vaticano II, noi abbiamo pregato inoculando nelle nostre preghiere sovente disprezzo e a volte vero e proprio odio nei confronti degli ebrei. Basterebbe ricordare che il Venerdì Santo pregavamo «per i perfidi giudei» e per loro non ci inginocchiavamo, ma addirittura facevamo baccano con le raganelle, strumento sinistro in uso solo nei giorni santi. Poi venne la fine del disprezzo, soprattutto grazie a Giovanni XXIII, che tolse dalla liturgia l’aggettivo «perfidi» e chiese che si pregasse solo «per i giudei». Da allora è stato fatto un cammino impensabile anche per noi addetti ai lavori e, in un certo senso, impegnati nel dialogo ecumenico: lo dimostrano i testi del Vaticano II (in particolare la dichiarazione Nostra Aetate), la riforma liturgica, le parole sull’«alleanza mai revocata» pronunciate da Giovanni Paolo II nella sua visita del 1980 alla sinagoga di Magonza, la preghiera comune fatta nel 1986 nella sinagoga di Roma, fino ai recenti incontri di Benedetto XVI con gli ebrei. Va riconosciuto: è stato un cammino imprevedibile e molto più rapido dello stesso cammino ecumenico tra cristiani! E tuttavia oggi questa giornata di dialogo non sarà celebrata congiuntamente perché gli ebrei italiani ne hanno chiesto una «sospensione», in quanto la preghiera per gli ebrei formulata in sostituzione di quella presente nel Messale Romano promulgato da Giovanni XXIII (1962) è stata letta come offensiva da parte di alcuni rabbini e di gruppi di ebrei italiani. Cerchiamo dunque di comprendere con molta semplicità i problemi in gioco. Nella preghiera per gli ebrei contenuta nell’antico Messale Romano, sulla quale era già intervenuto Giovanni XXIII togliendo l’aggettivo «perfidi», rimanevano formulazioni non soddisfacenti: «Preghiamo per i giudei, affinché il Signore nostro Dio tolga dai loro cuori il velo, e anch’essi riconoscano Gesù Cristo nostro Signore... Dio onnipotente, che non rigetti dalla tua misericordia neppure i giudei, esaudisci le preghiere che ti rivolgiamo per questo popolo accecato affinché, riconoscendo la luce della tua verità che è Cristo, siano strappati alle loro tenebre». È vero che queste espressioni sono eco di parole e di pensieri presenti nelle Scritture, ma lo è altrettanto che il giudizio in esse formulato sugli ebrei può essere da loro recepito come offensivo. Occorre però ricordare - e per ora nessuno l’ha fatto - che queste osservazioni valgono anche per altri testi delle preghiere cristiane. Anche per i non cristiani si pregava (e si continua a pregare, secondo il Messale di Pio V) «affinché Dio onnipotente tolga l’iniquità dai loro cuori in modo che, abbandonati i loro idoli, si convertano al Dio vivente e vero». E in molte altre formule di preghiera della liturgia delle Ore si trovano parole simili; senza contare che, se uno conoscesse le preghiere della liturgia ortodossa, sarebbe ancora più imbarazzato di fronte all’antigiudaismo in esse ancora oggi presente. Dunque innanzitutto occorrerebbe una vera revisione di tutte le preghiere cristiane indirizzate a Dio per gli uomini non cristiani, appartenenti ad altre religioni, non credenti... La preghiera dev’essere sempre piena di rispetto, di amore, non deve mai esprimere giudizi di condanna degli uomini. Sì, occorre da parte di tutte le Chiese una revisione affinché le formule di preghiera obbediscano realmente all’adagio tradizionale «lex orandi lex credendi», siano conformi al Vangelo, al messaggio cristiano, siano preghiere che lo Spirito Santo possa assumere nella verità di un Dio che è carità. Una volta ricordata questa esigenza, occorre anche essere chiari sulla fede dei cristiani: quando essi pregano, pregano il Dio vivente sempre attraverso Gesù Cristo e in comunione con lo Spirito Santo. Questo significa che pregano non come gli ebrei, pur indirizzando la preghiera al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma lo fanno con Gesù, da loro confessato Signore, Cristo e Salvatore del mondo; lo fanno credendo che Gesù è la realizzazione delle promesse fatte ai padri, credendo che egli verrà presto nella gloria, e il suo giorno sarà «il giorno di Adonaj». Di conseguenza, i cristiani nella loro preghiera intercedono per tutti gli uomini, chiedono che «tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4); e poiché essi amano con tutto il cuore Gesù Cristo loro speranza, desiderano che la loro beatitudine nel sentirsi discepoli, fratelli di Gesù e figli di Dio in lui Figlio di Dio, sia condivisa dagli altri uomini. Non possono fare altrimenti, se non vogliono aprirsi a una schizofrenia nella fede, mettendo tale fede tra parentesi ogni volta che pregano per gli ebrei. E allora? Le preghiere che sono state proposte lo scorso anno in sostituzione di quelle pre-conciliari e che sono state rifiutate da alcuni ebrei suonano così: «Preghiamo per gli ebrei. Il Signore Dio nostro illumini i loro cuori affinché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini... Dio onnipotente ed eterno, tu che “vuoi che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4), concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvato (cf. Rm 11,25-27)». Ora, questa formulazione non è intitolata «Per la conversione degli ebrei» (come quella del 1962), non contiene nessun giudizio, nessuna offesa contro Israele, contro il popolo di Dio, il popolo delle alleanze e delle benedizioni; inoltre - occorre dirlo onestamente - non chiede agli ebrei la conversione come passaggio dall’ebraismo alla Chiesa cristiana. Le espressioni della preghiera sono bibliche, come abbiamo segnalato attraverso le citazioni poste tra parentesi, e fanno parte della fede cristiana. I cristiani sperano, desiderano e quindi pregano perché tutti gli uomini giungano alla conoscenza della verità, perché tutti siano salvati, e sperano che, al momento escatologico dell’ingresso di tutte le genti nella pienezza (pleroma), tutto Israele sia salvato. Una parte di Israele ha accolto Cristo (i giudei cristiani tra i quali gli apostoli, i discepoli, lo stesso Paolo ieri, e altri giudei cristiani oggi), un’altra parte non l’ha accolto, ma la speranza è che tutto Israele conosca la salvezza, come e quando vuole Dio. Dunque questa preghiera non chiede né una missione, né tanto meno un proselitismo verso gli ebrei. E se c’è una preghiera perché gli ebrei siano salvati e giungano a riconoscere colui che noi cristiani crediamo il Cristo, il Messia promesso a loro prima che a noi, non si pensi a un'imposizione né tanto meno a una strategia per la loro conversione. Quando preghiamo, ogni nostro desiderio è sempre sottomesso al: «Sia fatta, o Dio, la tua volontà», quindi non la nostra! E infine vorrei ricordare che in ogni caso gli ebrei stessi pregano come preghiamo noi, con gli stessi Salmi, perché gli idolatri conoscano il vero Dio, perché tutte le genti della Terra riconoscano il Dio di Israele, perché - come dice il profeta Isaia - tutti i popoli della Terra vengano in pellegrinaggio ad adorare il Dio unico a Gerusalemme. Di più, anche gli ebrei nella preghiera delle «Diciotto benedizioni», ed esattamente nella dodicesima, la cosiddetta benedizione «contro gli eretici (minim)», secondo la volontà di rabban Gamaliel (90 d. C.), che ha introdotto il termine minim in riferimento ai cristiani, pregano: «Non ci sia speranza per gli eretici»... Non si esageri dunque la decisione della sospensione di questa giornata, nessuno si offenda; si prenda però atto che per ora è difficile comunicare la nostra fede e le nostre intenzioni, e che secoli di diffidenza non sono ancora cancellati del tutto. Agli amati fratelli ebrei - ai quali ci uniscono l’invocazione di Dio, le sante Scritture contenenti la parola di Dio e soprattutto il Salterio pregato e cantato ogni giorno nelle loro sinagoghe e nei nostri monasteri, cioè ci unisce la speranza che «il Signore mandi colui che ha destinato come Messia» (At 3,20) - noi dobbiamo dire tutto il nostro amore, dobbiamo saper rinnovare la richiesta di perdono per l’ostilità che abbiamo nutrito nei loro confronti, ma chiediamo anche di capire la nostra fede: il loro desiderio-amore per il Dio loro rivelato è lo stesso desiderio-amore nostro nel confessare che «Gesù ha narrato Dio» (cf. Gv 1,18) definitivamente e che per noi egli è Messia, Signore e Salvatore. Come gli ebrei desiderano che la loro fede sia condivisa dalle genti, così anche noi desideriamo che lo sia la nostra fede, ma rispettiamo le vie diverse, non imponiamo nulla né chiediamo agli altri di fare la volontà di Dio nel modo che spetta a noi attuare. Tutto questo senza però mai dimenticare il vincolo indistruttibile che ci lega: cristiani ed ebrei siamo entrambi figli dell’alleanza perenne con Dio, figli dell’Israele dell’alleanza al Sinai, dell’alleanza con David... Sì, siamo fratelli - potremmo dire - «gemelli», perché abbiamo gli stessi padri, e siamo chiamati a vivere la speranza che ci unisce nella differenza che ci separa, fino al tempo escatologico, quando Dio darà compimento a tutte le sue promesse.

(Articolo di Enzo Bianchi –pubblicato da La Stampa)

venerdì 16 gennaio 2009

NAZISTI

In Olanda nel corso di un corteo uno degli slogan scanditi è stato:
"Viva Hamas, ebrei in camera a gas".
Sintetizzo il mio pensiero nel titolo.

giovedì 15 gennaio 2009

Martin Luther King


"Spesso gli uomini si odiano perché hanno paura l'uno dell'altro; hanno paura l'uno dell'altro perché non si conoscono; non si conoscono perché non possono comunicare; non possono comunicare perché sono separati".

mercoledì 14 gennaio 2009

Aiutiamo l’Istituto buddhista Lama Tzong Khapa di Pomaia


Fondato nel 1977 da Lama Thubten Yesce e Lama Zopa Rinpoche, l’Istituto Lama Tzong Khapa è uno dei più importanti centri di buddhismo tibetano della tradizione Ghelug in occidente ed è componente della Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana (FPMT) e dell’Unione Buddhista Italiana (UBI).
I corsi che qui vi si tengono si basano sugli insegnamenti di Buddha Sakyamuni e su quelli, successivi, di saggi e filosofi indiani quali Nagarjuna, Chandrakirti, Buddhapalita e tibetani come Lama Tzong Khapa, Jetsun Ciöghyi Ghieltsen e altri.
Lo scopo dell’intenso programma di attività non risiede affatto nell’indottrinamento ma nella promozione di una profonda trasformazione interiore, nello sviluppo di amore, compassione, saggezza.
Qui, tra l’altro, è stato più volte ospite il Dalai Lama che ha anche impartito alcune importanti iniziazioni e sempre qui hanno sede due case editrici che stanno svolgendo un notevole ruolo a favore di una corretta comprensione del buddhismo in Italia: la Chiara Luce edizioni (http://www.chiaraluce.it/, chiaraluce.due@tiscali.it; tel/fax 049 80 77 859 - 050 685 690 - 348 5666 501), che ha un catalogo di tutto rispetto (l’ultimo libro pubblicato è la traduzione delle Settanta stanze della vacuità di Nagarjuna), e la Je Tzong Jhapa Edizioni (www.jtkedizioni.org), sorta alla fine del 2002 per curare la digitalizzazione e la pubblicazione dei materiali didattici e delle registrazioni in forma di testi, audio e video, oltre alla traduzione di opere inerenti lo studio della filosofia buddhista (proprio in questi giorni, tradotto da Leonardo Cirulli, è uscito il testo Meditazioni sulla vacuità di Jeffrey Hopkins, docente di Studi Religiosi all'Università della Virginia, dove insegna buddhismo e lingua tibetana nonché dal 1979 al 1989 il principale interprete di S.S. il Dalai Lama).
Il 26 dicembre scorso, come sapete, un incendio ha, purtroppo, distrutto completamente il gompa principale (la grande sala di meditazione o tempio).
Il tetto è crollato, l'altare, le statue, i testi sacri, le tangkha, i vari arredi tradizionali sono stati implacabilmente divorati dal fuoco. E’ rimasto solo un cumulo di macerie.Gli ingenti danni hanno riguardato, per fortuna, soltanto il secondo piano mentre quelli inferiori sono stati risparmiati dalle fiamme scaturite, sembra, da un corto circuito.
Le attività sono adesso riprese ma resta il serio problema della ricostruzione. Non è cosa di poco conto se si considera che i buddhisti, a differenza di altre confessioni tra cui, in primis, quella cattolica, non usufruiscono di certo dei benefici dell’otto per mille. Di qui la richiesta che ci giunge da Pomaia (frazione del comune di Santa Luce, in provincia di Pisa) dove ha sede l’istituto, di contributi di qualsiasi entità. Chiunque lo voglia può utilizzare il seguente conto corrente bancario:

Istituto Lama Tzong Khapa
Cassa di risparmio di Lucca Pisa Livorno
Filiale di Rosignano Marittimo
tel 0586/799230 - fax 0586/760995
c/c ILTK n.48
Coord.IBAN: IT21-A-06200-25100-000000000048
causale: “gompa”.
Ogni altra iniziativa di solidarietà e di concreto sostegno potrà essere concordata con la Direzione: info@iltk.it
(di Francesco Pullia - Notizie radicali)

domenica 11 gennaio 2009

La cura


Il filantropo ebreo che divide la comunità per gli aiuti a Gaza


Non c'è un attimo da perdere. Mille bambini di Sderot e del Sud di Israele lo aspettano fra poche ore con la merenda nello zaino. Le scuole anche questa mattina ancora non potranno aprire i battenti. Da Gaza continuano a piovere missili sulla popolazione civile. Nella guerra contro il fondamentalismo islamico non ci sono solo i caduti, gli ospedali che accolgono i feriti, ma anche le sofferenze di tutti i giorni. Gli incubi. L'angoscia di doversi risvegliare sotto i missili lanciati da terroristi che prendono di mira la gente comune. Le corse disperate verso i rifugi. I quindici secondi, non uno di più, che restano a disposizione per tentare di mettersi al riparo.Mentre a Roma migliaia di cittadini si riuniscono per riaffermare Sosteniamo Israele, sosteniamo la pace, nel suo quartiere generale di Toronto lui segue gli avvenimenti a distanza, ma senza mai distogliersi dai suoi piani. Ci sono i bambini di Sderot, ci sono migliaia di lettori Mp3 da consegnare. Ci sono 300 mila euro di medicinali in viaggio verso l'Italia. E tante altre iniziative, tante richieste che provengono dalle zone di crisi del mondo. Fuori dai vetri, a Toronto, nessuno si stupisce se il termometro segna meno 20. Ma nella centrale operativa il clima è febbrile. Il piano è quasi pronto. Il suo esercito non mostra i colori di un Paese, ma quelli di SkyLink, l'azienda che gestisce con il suo socio indiano specializzata in trasporti aerei e terrestri per le grandi operazioni umanitarie. La sua armata schiera in campo una flottiglia di elicotteri, un grande aereo per il trasporto di mezzi pesanti, mezzi motorizzati e alcuni specialisti. La sua guerra la combatte con questi mezzi. Questa mattina tutti in gita, forse allo zoo, nelle aree di Israele che ancora non possono essere raggiunte dai missili di Hamas. La sera poi di nuovo a casa. Perché, nonostante i rischi, dividere le famiglie sarebbe la sconfitta peggiore. E mentre si definiscono i dettagli di questa operazione si accavallano altri piani. Il telefono continua a squillare. E' il Primo ministro canadese Stephen Harper. E' il Presidente di Israele Shimon Peres. E' qualcuno da Roma che vuole indicazioni sui 300 mila euro in medicinali destinati al Medio Oriente. “Tranquilli – risponde Walter Arbib, l'imprenditore di origine tripolina che grazie alla mediazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Roma ha donato 300 mila euro in medicinali per alleviare le sofferenze delle popolazioni civili, soprattutto dei bambini e in particolare di coloro che sono tenuti in ostaggio dai terroristi di Hamas – il carico è già in viaggio, il Governo italiano lo prende in consegna a breve”. Appena una pausa per rispondere a qualche domanda. Troppo poco per comprendere a fondo quest'uomo cacciato dalla sua terra, cittadino del mondo, imprenditore di successo che dice di essere ossessionato dall'idea di aiutare gli indifesi. Ma anche un'occasione rara per cogliere qualche frammento nella vita di un uomo. “Invece di parlare – commenta Arbib - cerco di fare. Nel mio lavoro ho visitato i posti più tristi del mondo, in cui genitori non possono neanche sfamare i propri figli e forse questo ha cambiato il mio modo di vedere la vita e i miei principi”.


Ma questa donazione dei medicinali non tutti hanno mostrato di capirla.

“I medicinali era giusto che fossero offerti. Sono destinati ai bambini. I bambini non hanno colpa di quella che è la politica del loro governo o degli adulti irresponsabili che li lasciano usare come scudo umano”.


Ma come fa lei ad agire sullo scenario internazionale per conto proprio, non si rende conto di quante implicazioni delicate ci sono dietro un'operazione del genere?

“Prima di avviare un'operazione mi accerto che sia ben compresa dal Canada, il Paese che mi ha accolto a braccia aperte e da dove opero, condivisa da Israele e in questo caso dall'Italia”.


E' stato lei a sollecitare i leader ebraici italiani a favorire questa operazione?

“I leader ebraici italiani hanno le migliori credenziali per qualsiasi cosa decidano di fare per Israele”.


Come è stata concepita questa donazione?

“Credo che l'offerta fosse quanto mai opportuna. Il Governo italiano e il ministro Frattini hanno appoggiato le ragioni di Israele e volevamo far sentire il nostro aiuto a bimbi usati come scudi e vittime di chi li tiene in ostaggio”.


E allora perché queste incomprensioni comparse sul forum degli ebrei tripolini “Mafrum per tutti” (dal nome di un cibo caratteristico) e riprese da alcuni irresponsabili?

“Mi auguravo di non dover intervenire. Non cerco notorietà. Non ho mai parlato con i giornali. Sono stato costretto dalla stupidità di chi non ha capito e ha voluto intervenire a sproposito. Parlano, fanno danni, ma quando c'è da agire non si fanno più vedere. Aiutiamo insieme Israele con i fatti e non con le parole”.


Scusi Arbib, molti le hanno chiesto perché questi aiuti vanno a Gaza, pochi invece le hanno domandato perché mai dovrebbero andare in Israele. Israele è un Paese straordinariamente avanzato e il suo sistema sanitario offre costantemente aiuto a tutte le popolazioni circostanti. E' sicuro che abbia bisogno delle sue medicine?

Certo che non ne ha bisogno per le sue strutture. Per quello che ne so Israele a sua volta è un grande benefattore, in questo momento sta provvedendo senza ostentarlo enormi aiuti alla popolazione civile palestinese. E non solo. Israele è intervenuta per le vittime dello Tsunami, in Pakistan e persino in Corea del Nord. Abbiamo mosso in tempi recenti aiuti in medicinali per 3,5 milioni di dollari. E stiamo valutando altri progetti in totale sintonia con Gerusalemme”.


Lei agisce sempre in tandem con il suo socio, il sikh Surjit Babra. Cosa lega persone provenienti da culture così diverse?

Prima di tutto le nostre esistenze hanno molto in comune. Abbiamo cominciato da zero tutti e due e quello che abbiamo ce lo siamo costruito con le nostre mani. Il mio socio partecipa a tutte le mie scelte ed è un grande amico di Israele. Quando il Bené Berith ha deciso di concedermi un'onoreficenza ho fatto loro presente che avrei potuto accettarla solo se la avessero consegnata a noi due assieme e non a me da solo.


E com’è finita?

A ritirarla ci siamo andati in due.


Curare con le medicine è la sua unica preoccupazione?

No, quando le emergenze me lo consentono cerco di dedicarmi anche alla cultura e alla conoscenza della nostra cultura di ebrei di origine libica. Vorrei invitare tutti a visitare il museo libico di Or Yehuda in Israele e quello che si sta costruendo a Roma. E' importante per conoscere la nostra storia e per comprendere quello che abbiamo sofferto quando ci hanno cacciato dalle nostre case quaranta anni fa. Ma è anche importante per comprendere che dobbiamo dimostrarci capaci di superare le nostre sofferenze, di guardare avanti e di costruire un mondo migliore”.


Altro da aggiungere?

“Adesso basta, lasciatemi lavorare”.Di parole, date le sue abitudini, ne ha dette anche troppe. Ora si torna ai fatti. Se qualcuno non ha capito, pazienza. Questa volta, in ogni caso, le mafrume le serve lui.


Guido Vitale

venerdì 9 gennaio 2009

Persecuzioni

Persecuzioni di omosessuali in Senegal: interrogazione parlamentare urgente dei deputati radicali del PD. Chiesta la convocazione dell'ambasciatore e iniziative con l'Europa.


In merito alle gravi notizie sugli omosessuali perseguitati in Senegal, uno dei pochi paesi africani che rispetta solitamente i diritti umani pur prevedendo nel suo Codice penale la persecuzione dell'omosessualità, i deputati radicali del Pd Matteo Mecacci, Rita Bernardini, Marco Beltrandi Maria Antonietta Farina Coscioni, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti, hanno oggi depositato un'interrogazione parlamentare urgente. Richiesta la convocazione dell'Ambasciatore del Senegal e un intervento presso l'Unione Europea. Di seguito il testo dell'interrogazione:
INTERROGAZIONE PARLAMENTARE URGENTE
Al Ministro degli Esteri
Considerato che:
Secondo quanto riportato da un articolo pubblicato il 9 gennaio 2009, a pagina 20, del Corriere della Sera a firma Massimo A. Alberizzi, in Senegal sono stati condannati a otto anni di carcere nove omosessuali per 'atti contro natura';
- Il Senegal è tra i 38 paesi del continente africano che puniscono i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti; la norma, che prevede una multa da 150 a 250 euro e la prigione da uno a cinque anni, non era stata mai severamente applicata;
- lo scorso febbraio 2008 una donna e 10 uomini sono stati arrestati a Dakar, dopo la pubblicazione su una rivista di fotografia di foto di un matrimonio gay;
- più di recente, il 19 dicembre scorso, nove persone omosessuali, tra questi il leader del movimento Lgbt senegalese, Diadji Diouf, impegnati anche in un'organizzazione che si batte contro l'aids, sono state arrestate;
- tali arresti sono avvenuti all'interno di un clima mediatico omofono;
- il Senegal ha mantenuto a lungo, sotto la Presidenza Wade una tradizione di rispetto dei principi democratici e di difesa dei diritti umani;
- L'Italia, di concerto con l'Unione Europea ha promosso la presentazione di una dichiarazione in sede ONU per la depenalizzazione dell'Omofobia lo scorso dicembre, quale iniziativa centrale per il rispetto dei diritti umani delle persone omosessuali
Per sapere:
- quali urgente iniziative intende promuovere il nostro Governo a tutti i livelli, incluso quello europeo, affinché vengano scongiurate iniziative ed azioni omofobe in Senegal;
- se non ritenga il Ministro di dover attivare la propria diplomazia per esprimere la preoccupazione del nostro Governo per i fatti succitati e, tra le azioni più concrete, convocare con la massima urgenza l'Ambasciatore del Senegal, anche per chiedere l'adeguamento della legislazione del paese agli standard internazionali in materia di diritti umani fondamentali;

giovedì 8 gennaio 2009

Gaudeix la vida


Il 12 gennaio parte una campagna pubblicitaria che utilizzerà gli autobus della città di Barcellona e che riguarderà un tema davvero interessante e cioè mandare al macero i sensi di colpa.

Gli slogan che recitano:" Dio probabilmente non esiste. Smetti di preoccuparti e goditi la vita" dovrebbero essere posizionati sugli autobus come si può vedere nella foto. La campagna è organizzata da alcune organizzazioni "Atei di catalogna" ed altre che si sono ispirate ad un'analoga iniziativa inglese. In sostanza viaggiare leggeri e liberi avendo nel viaggio la meta, senza inutili e perniciosi sensi di colpa.

mercoledì 7 gennaio 2009

Una boccata di gas

Mosca chiude i rubinetti del gas e l’Europa che con lungimiranza si è legata mani e piedi al regime di Putin rischia di ritrovarsi al gelo. Non tutta l’Europa, per il momento i paesi che come l'italia hanno stoccato discrete riserve si mostrano tranquilli e cercano di rassicurare l’opinione pubblica. Cosa che, invece, risulta particolarmente difficile per paesi come la Bulgaria che si trovano già ora alle prese con la morsa del freddo e i termosifoni spenti, tanto che stanno pensando di ripristinare alcune sezioni della centrale nucleare di Kozloduy.
L’Europa ha tranquillamente sorvolato sul fatto che il regime russo guidato da Putin ha distrutto la Cecenia, invaso la Georgia e soffocato, sul suolo russo, ogni alito di democrazia e di libertà. Chissà che il gelo o la paura del gelo risvegli le nostre coscienze sopite. Chissà.

martedì 6 gennaio 2009

Attentato antiebraico

Attentato antiebraico a Tolosa nella Francia meridionale. Ieri sera poco prima delle 22 un’auto è stata incendiata ed è poi stata lanciata contro la sinagoga. In quel momento all’interno si trovavano alcune persone che partecipavano a un incontro con il rabbino, fortunatamente, non ci sono state delle vittime nonostante l’incendio che si è sviluppato. Poco distante è stata trovata un’altra auto carica di bottiglie incendiarie.

lunedì 5 gennaio 2009

Dio è con noi!

Un libro che ci parla di un dei prossimi santi della chiesa cattolica e non solo.
"Dio è con noi!" - La chiesa di Pio XII complice del nazifascismo - di Mauro Aurelio Rivelli - Kaos edizioni.

sabato 3 gennaio 2009

Catene


Famiglia, società, nazionalità sono estensioni del nostro Sè. Il compito delle religioni dovrebbe essere il superamento di queste nozioni limitative, invece che di crearne delle nuove.


Vittorio Dan Segre, pensionato