di Gianfranco Spadaccia
Da lettore di giornali e da osservatore dei fatti politici di questo paese (senza pretendere quindi di atteggiarmi ad economista e ad esperto di diritto del lavoro) non ho mai avuto nei confronti di Marchionne un pregiudizio negativo. Devo anche chiarire che, pur critico della famiglia Agnelli, non sono mai stato a differenza di altri un fautore della vendita della FIAT o del suo abbandono dell’Italia. Mi sembrava che, se si fosse verificato, un tale evento avrebbe indebolito ulteriormente una struttura industriale priva di grandi imprese e di multinazionali. Ho quindi seguito con interesse e, dal mio punto di vista, con soddisfazione, i risultati ottenuti nel risanamento finanziario della Fiat e considerato un atto di grande intelligenza e coraggio imprenditoriale aver reagito alla grave crisi economica del 2008 con le offerte di acquisto dell’Opel e della Chrysler. Compiuto dalla più fragile delle grandi multinazionali dell’auto poteva essere considerato un atto di disperazione, si è rivelato invece un atto opportuno e necessario per tentare di conseguire la dimensione e le sinergie industriali, tecnologiche e commerciali adeguate ad affrontare i problemi della FIAT e a superare le difficoltà del mercato dell’auto mondiale.
Anche a chi, come me, consideri la FIAT (con la Ferrari) e la Famiglia Agnelli, nonostante i costi scaricati sulla collettività, un risorsa e non solo un peso per il paese, non potevano tuttavia sfuggire alcuni squilibri evidenti. Nonostante le agevolazioni pubbliche e nonostante il mantenimento in Italia di una quota di mercato del 35 per cento, paragonabile a quella che gli altri grandi costruttori europei hanno nei rispettivi paesi, l’impegno produttivo in Italia si è affievolito fino a scendere, alla vigilia dell’esplodere della crisi economica, a una produzione di poco più di 700mila vetture annue. Nello stesso anno in Germania i costruttori tedeschi ne producevano circa quattro milioni e mezzo e quelli francesi circa tre milioni e mezzo (si tratta di società che producono, al pari della FIAT, in ogni parte del mondo). La differenza dipende probabilmente da molteplici fattori: da una parte sicuramente la ben diversa autorevolezza e anche il potere contrattuale degli altri governi rispetto alle società automobilistiche nel far pesare i costi sopportati da agevolazioni e finanziamenti pubblici e ottenere il mantenimento di insediamenti e di quote di produzione nazionali. Dall’altra parte, oltre alla palese assenza politica del governo italiano, hanno probabilmente influito la vecchiezza di molti impianti, la scarsa competitività dei modelli, la mancanza di una offerta corrispondente alle nuove domande e ai nuovi segmenti del mercato. E certamente un importante ruolo ha giocato anche la bassa produttività del lavoro. Sarebbe stupido negarlo. E’ sufficiente per rendersene conto mettere a confronto il numero di auto prodotte in un anno negli stabilimenti italiani rispetto a quello degli altri stabilimenti (italiani e stranieri) quasi ovunque in ogni altra parte del mondo. Ciò che per onestà intellettuale mi rifiuto di fare è considerare questa l’unica causa della decadenza della produzione automobilistica italiana.
Il mio entusiasmo per Marchionne si è cominciato ad attenuare nell’estate scorsa con la vicenda di Pomigliano. In un primo momento è prevalso il desiderio di comprendere e perfino di giustificare: se i dati sull’assenteismo erano veri, se gli indici della produttività (numero di auto prodotte per numero di operai impiegati) erano così bassi, l’amministratore delegato della FIAT non poteva non preoccuparsi di porre alcune condizioni precise che consentissero, a salvaguardia dei consistenti investimenti che si impegnava a fare, il pieno rispetto del contratto e la piena utilizzabilità degli impianti. Nella situazione stagnante di un diritto del lavoro e di una prassi contrattuale che si era rivelato impossibile adeguare alle esigenze imposte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati, anche il ricorso al referendum sul nuovo contratto aziendale con le sue deroghe al contratto nazionale di categoria, poteva essere forse considerato un opportuno atto di rottura.
Poi sono cominciati a prevalere preoccupazioni e interrogativi, riserve e dissensi.
Mi è parso che l’atto di rottura, che sembrava rivolto a dare uno scossone all’immobile prassi contrattuale, divenisse fine a sé stesso: una sorta di politica del “cosa fatta capo ha”, rivolta a piegare gli interlocutori e non a modificare innovandoli ma a cancellare i vincoli, qualsiasi vincolo, posti dalla legislazione e dai sistemi contrattuali vigenti. Ed infatti, dopo il voto di Pomigliano (dove si è registrata, se non ricordo male, la nettissima maggioranza del 64,4 per cento), il numero dei no (poco più di un terzo) è stato considerato così rilevante da far temere una marcia indietro della FIAT rispetto all’impegno preso dei nuovi investimenti. La marcia indietro non si è verificata, ma è entrato subito in scena il progetto di Fabbrica Italia, un nuovo soggetto che avrebbe dovuto interrompere la continuità con il vecchio stabilimento FIAT , nel quale sarebbero stati assunti solo i lavoratori che avessero sottoscritto individualmente il nuovo contratto aziendale già firmato a titolo collettivo e con valore erga omnes dai sindacati del Sì. A questo si sono aggiunti, prima, l’annuncio di uscita di FIAT da Federmeccanica per dar vita a una Federazione dell’Auto (che diverrebbe un sindacato per così dire domestico dal momento che per volontà della FIAT l’Italia è l’unico dei grandi paesi europei dove opera un unico produttore di automobili) e, poi, la minaccia di abbandonare Confindustria. Infine la soluzione di Pomigliano, che secondo Bonanni e Angeletti doveva rimanere una eccezione isolata, è diventata invece un modello subito esportato a Mirafiori e proposto all’intero mondo imprenditoriale italiano nella logica “a casa mia comando io”: o accettate le mie condizioni o restate senza lavoro.
Ora mi pare che, se è vero che esiste un massimalismo FIOM datato e inaccettabile, che da un decennio non firma contratti con la FIAT e che si mette di traverso ogni volta che si deve discutere di riforma del diritto di lavoro e della contrattazione sindacale, c’è il rischio che ad esso si stia contrapponendo un massimalismo uguale e contrario da parte dell’Amministratore delegato della FIAT-Chrysler. Perciò inviterei a una maggiore prudenza e a un po’ di pazienza prima di proclamare Marchionne “uomo dell’anno” come improvvidamente ha fatto Sergio Romano sul “Corriere della Sera”. E lo dice uno che fino a qualche tempo fa ha avuto solo pregiudizi positivi nei suoi confronti.
Vorrei porre in particolare due problemi che investono il pericolo di un ulteriore impoverimento delle già pesanti condizioni salariali dei lavoratori italiani e il rischio di un ulteriore colpo alla già labile democrazia sindacale.
Il primo problema riguarda una maggiore articolazione della contrattazione sindacale, che oggi privilegia il contratto nazionale di categoria, rischiando di appiattire le retribuzioni e scoraggiare la produttività. Il pericolo che intravedo è che, dietro i colpi inferti da Marchionne, la contrattazione aziendale diventi l’unico effettivo livello normativo e salariale a scapito di contratti nazionali ridotti nella migliore delle ipotesi a una esile griglia minimalista. Questa prospettiva, vista non con l’ottica della FIAT e dei settori trainanti dell’industria e dei servizi, ma con l’ottica della generalità dei lavoratori, non può non far temere una ulteriore diminuzione dei livelli retributivi e del potere d’acquisto delle classi lavoratrici. Siamo lontani insomma da quel nuovo equilibrio più articolato e virtuoso dei livelli di contrattazione, auspicato da molti. E rischiamo, se ci si continuerà ad affidare alla forza d’inerzia e alla logica delle prove di forza, di veder ripetere lo stesso errore che, in materia di flessibilità, fu commesso da chi attuò a metà i progetti Biagi, lasciando fuori della porta la riforma degli ammortizzatori sociali e gli investimenti per la formazione, con l’effetto che abbiamo prodotto molta precarietà e molto poca flessibilità (a meno di non volerla confondere con il puro e semplice sfruttamento).
Il secondo, purtroppo annoso e irrisolto, è quello della rappresentanza e della democrazia sindacale, due aspetti strettamente collegati tra loro. Michele De Lucia ha scritto che “l’assenza di democrazia sindacale produce mostri”. L’affermazione vale in generale, sempre e comunque, soprattutto in un paese dove l’articolo della Costituzione che prevede la regolazione per legge dell’attività sindacale non è mai stato attuato innanzi tutto per volontà e responsabilità dei sindacati, di tutti i tre maggiori sindacati (come del resto è avvenuto per quello riguardante i partiti politici). Ma in particolare proprio oggi sta nascendo un nuovo mostro partorito dal contratto di Mirafiori. A Mirafiori l’unica forma di democrazia sindacale, non so sinceramente se si possa considerare tale, è infatti il referendum che si sta svolgendo in queste ore (un referendum prendere o lasciare). Poi i lavoratori torneranno al lavoro e saranno esclusi da ogni altra forma di partecipazione democratica perché l’attuazione degli accordi, la vigilanza su di essi e gli spazi di contrattazione saranno gestiti da una rappresentanza solo burocratica dei sindacati firmatari del contratto (quindici delegati sindacali per ogni sigla) mentre la FIOM, che può piacere o non piacere ma è stata fino ad oggi considerata il sindacato maggioritario dei metalmeccanici, non avrà alcun diritto di rappresentanza in fabbrica. Sul Corriere De Vico ha giustamente paragonato questa situazione al “Porcellum”.
Appartengo a un Partito, il Radicale, che è a giusto titolo considerato il partito della democrazia e dei diritti umani. Questa situazione non mi sembra accettabile né per le condizioni dei lavoratori di Mirafiori e tanto meno come modello da esportare alle altre aziende e agli altri settori del mondo del lavoro. Mi piacerebbe che a queste preoccupazioni non si rispondesse con l’accusa ingiusta e superficiale di conservatorismo. Questo articolo non nasce dalla negazione ma dalla assoluta consapevolezza della gravità dell’emergenza economica del paese e della necessità di affrontare con urgenza e con strumenti adeguati i problemi della produttività del lavoro. Riforma della contrattazione e riforma delle regole della rappresentanza sindacale, che garantiscano l’esercizio dei diritti dei lavoratori, il rispetto del contratto e il pieno utilizzo degli impianti, ne costituiscono le necessarie premesse. A questo sindacati e Confindustria giungono con grave ritardo mentre il Governo è rimasto per un intero anno silenzioso, paralizzato e assente.
Ieri Berlusconi, Presidente del Consiglio di un governo latitante, ha interrotto un silenzio assordante per legittimare l’ultimatum di Marchionne (se vincessero i No sarebbe giusto andare a produrre fuori d’Italia). Berlusconi aveva accanto Angela Merkel, un cancelliere tedesco, che si è adoperata per mantenere la produzione di milioni di autoveicoli in Germania e che, quando si è profilata per effetto della crisi economica, la possibilità di chiusura della Opel da parte della General Motor, non solo ha fatto di tutto perchè la chiusura fosse evitata ma anche perché la Opel non finisse come la Chrysler in mano alla FIAT. Quest’ultima scelta è stata dettata da una mediocre miopia nazionale (il cancelliere si rivolse perfino a una azienda russa) ma le scelte del Governo italiano non si sono mai contrapposte per una maggiore visione europea.
In quel caso onore a Marchionne e alla sua offerta d’acquisto. Tuttavia, in un’ottica europea e non solo globale, sia Marchionne sia le organizzazioni imprenditoriali e sindacali dovrebbero guardare di più al modello tedesco delle relazioni industriali a cominciare da quelle del settore dell’auto invece di guardare indietro agli anni 70 (la FIOM) o di guardare con preferenza alla Serbia o al Brasile (come sembra fare Marchionne). Il discorso del costo del lavoro non è determinante a fronte di investimenti ad altissima intensità di capitale come sono quelli dell’auto. Forse è tempo che cominciamo a guardare al modo in cui in Germania in Francia e in Gran Bretagna si affrontino, con successi maggiori dei nostri, i problemi della globalizzazione. Forse lì non si è dimenticato che il lavoro, oltre ad essere un costo, è anche una risorsa.
Chiedere inoltre alla FIAT qualche chiarimento sui tempi e i progetti che dovrebbero caratterizzare il promesso investimento di venti miliardi non è macchiarsi di un reato di lesa maestà, come sembra ritenere il suo A.D. A farlo sono stati non i massimalisti della FIOM ma giornalisti autorevoli e indipendenti come Mucchetti e Cisnetto, che hanno rimproverato all’estremismo Fiom e alla arrendevolezza degli altri sindacati la responsabilità di aver fornito un alibi alla reticenza fin qui gelosamente difesa da Marchionne.
(Fonte:
Notizie Radicali)