Ci può piacere o non piacere, ma l’uso della Shoah come metafora del Male è un dato di fatto. Dietro questa metafora c’è la consapevolezza della Shoah come Male assoluto, il massimo a cui si può giungere nel confronto. Un superlativo di per sè. Il messaggio che si dà, finisce per essere un messaggio semplificato: “questo è come la Shoah”. In realtà, spesso si voleva dire diversamente, significare ad esempio che l’indifferenza degli esseri umani di fronte ad altri esseri umani mandati alla morte è la stessa. Un confronto, credo, più che legittimo. Ritengo che, paradossalmente, sia proprio l’insistenza sull’unicità assoluta della Shoah a trasformarla in una metafora: se un evento è singolare e unico, e per questo inconfrontabile, è anche un simbolo, e tutti i simboli hanno un uso pubblico, che prevede il confronto indiscriminato. Anche per questo, diffido del dogma dell’unicità, e sono d’accordo con gli studiosi che portano avanti le comparazioni, che analizzano somiglianze e differenze. Parlo delle comparazioni fra i genocidi, non fra eventi di peso incommensurabilmente diverso, naturalmente. Il confronto, solo quello, può aiutare a rendere perspicuo il linguaggio, chiare le definizioni. Ma nel nostro mondo mediatico, l’uso della metafora equivale all’irrompere improvviso di un’immagine: il linguaggio diventa messaggio visivo, non esiste più in quanto espressione chiara e distinta del pensiero.
Anna Foa, storica
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