Anche se era atteso da tempo, l’annuncio che il Dalai Lama abbandonerà il suo ruolo politico complica la situazione in Tibet e crea una serie di nuove sfide per la Cina e l’India, il paese che lo ospita da molti anni.
In occasione del 52° anniversario dell’insurrezione tibetana, il Dalai Lama, 76 anni, ha annunciato che presto passerà il testimone a un “leader liberamente eletto”. “Fin dagli anni Sessanta ho più volte sottolineato che i tibetani devono avere un leader eletto dal popolo, al quale io possa cedere il momento. E’ arrivato il momento di passare ai fatti”, ha dichiarato.
L’annuncio del Dalai Lama arriva in un momento particolare dopo il diffondersi delle rivolte che nel mondo arabo si moltiplicano le pressioni su Pechino affinché allenti la presa sul Tibet, e questo rende più complicati i negoziati con gli esuli tibetani.
Inoltre gli Stati Uniti sembrano aver assunto un nuovo atteggiamento verso il Tibet, ma ultimamente Washington sembra mostrare maggiore solidarietà al Dalai Lama. Il 24 febbraio 2011 Timothy Roemer, l’ambasciatore statunitense in India, ha partecipato all’inaugurazione del nuovo centro di accoglienza per i rifugiati tibetani di Dharamsala.
Dato che il Dalai Lama si limiterà a svolgere un ruolo religioso, sarà necessario organizzare al più presto delle elezioni per scegliere un primo ministro, che sarà il nuovo volto dei tibetani in esilio. I candidati probabili sono tre e due di loro sembrano essere molto vicini agli Stati Uniti. Il favorito, Lobsang Sangay, è un docente di Harvard, dove ha conseguito il dottorato. Gli altri due sono il filoamericano Lobsang Namgyel, esponente dell’aristocrazia tibetana, e Tashi Wangdi, che per anni ha guidato l’ufficio del Dalai Lama e che è generalmente considerato un filoeuropeo.
Secondo gli esuli tibetani il resto del mondo sta traendo conclusioni arbitrarie sulle ragioni che hanno spinto il Dalai Lama a rinunciare al suo ruolo politico. “E’ una mossa per preparare i tibetani a gestire i loro affari con forza e fermezza”, spiega lo scrittore e attivista Tenzin Tsundue. “La Cina ha sempre diretto le sue critiche contro il Dalai Lama. Ma ora dovrà confrontarsi con le decisioni prese da una base più ampia, che saranno più difficili da attaccare”.
La diaspora tibetana è presente in tutto il mondo, ma ha il suo centro in Dharamsala, dove il Dalai Lama guida un governo affiancato da un parlamento eletto, commissari elettorali e giudici che può licenziare a suo piacimento. E’ a questo potere, e al ruolo di rappresentante della resistenza tibetana, che il leader religioso vuole rinunciare.
Anche se l’India ospita il Dalai Lama dal 1858, l’anno in cui fuggì dal Tibet, New Delhi non riconosce formalmente l’organismo denominato “ufficio del Dalai Lama”. La sua presenza in India, però è sempre stata un asso nella manica per il governo indiano, in particolare per quanto riguarda i rapporti con il vicino cinese, che appare sempre più forte e determinato. L’annuncio del Dalai Lama rafforza la posizione dell’India perché la questione tibetana non si spegnerà con la sua morte ma proseguirà con una leadership nuova e giovane.
Il portavoce del ministro degli esteri indiano Vishnu Prakash non ha voluto commentare la notizia, ma ha detto che l’India continuerà a ospitare il Dalai Lama perché lo considera “una figura religiosa profondamente rispettata”.Alcuni analisti pensano che New Delhi possa beneficiare della piega che hanno preso gli eventi.
“L’India è stata fondamentale per muovere il processo di democratizzazione in Nepal e in Buthan”, dice Srikanth Kondapalli, esperto di Cina della Jawaharlal Nerhu University di New Delhi: “ed è perfettamente consapevole che l’emergere di un Tibet più democratico sarà certamente un fatto positivo”.
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