mercoledì 29 settembre 2010

Violenza o resistenza aggressiva nonviolenta?

Il saggio che segue è tratto da un opuscolo pubblicato anni fa negli Stati Uniti. L’autore, Phillips P.Moulton, è stato professore di filosofia all’Adrian College, ed ha lavorato specialmente in corsi interdisciplinari, tenendo seminari su “L’integrazione della Conoscenza”.
(Fonte: Notizie Radicali)
Premessa.



Gli attentati, le rivolte, ed altre forme di spargimento di sangue nella seconda metà degli anni ’60 hanno accresciuto l’ansia degli americani.

Eppure, la violenza diffusa ed intensa non costituisce un elemento nuovo nella storia del nostro paese. Con una crudeltà sconfinante nel genocidio venne strappato agli Indiani il controllo del continente; per mezzo di una rivoluzione violenta si ottenne l’indipendenza nazionale; spargimenti di sangue caratterizzarono la marcia verso la frontiera dell’Ovest, e gli atti scalmanati dei “vigilantes”; un grave problema sociale precipitò nella selvaggia Guerra Civile. La dialettica lavoro-capitale, per un periodo di oltre sessant’anni, fu segnata da rivolte, dinamite, incendi, assassini, su un fronte, e dal brutale, spietato esercizio del potere, ad opera degli ufficiali di compagnia, della polizia, sull’altro. Ci trovammo invischiati, in due guerre mondiali.

In aggiunta alla violenza aperta, visibile, una valutazione realistica dell’attuale stadio di civiltà deve considerare la violenza velata, che potremmo definire “sistematica”, impregnante l’intero organismo sociale, intessuta nei suoi gangli più intimi. Lev Tolstoj richiamò l’attenzione su di essa oltre 70 anni fa, ne “La Legge dell’Amore e la Legge della Violenza”. Riferendosi a figure sociali rispettate, quali il giudice e il proprietario terriero, egli osservava: “Noi non riusciamo a percepire tutti i crimini che essi commettono ogni giorno, in nome del bene pubblico”.


Ne “I dannati della terra”, lo psicoanalista negro algerino Franz Fanon descrive la violenza economica messa in atto da coloro che impoveriscono i nativi africani attraverso il controllo dei mezzi di produzione. Questo processo è sostenuto dalla violenza psicologica, mediante la quale si tende ad instillare negli oppressi “la mentalità dello schiavo”.

Sociodinamica della violenza.

In larga misura, la violenza di chi detiene il potere è talmente diluita nelle istituzioni politico-sociali, che i suoi agenti hanno solo un’oscura coscienza di essa. Velata od implicita, essa diviene aperta quando il potere è minacciato. Detto nei minimi termini: la violenza è il mezzo estremo, mediante il quale i detentori del potere sociale difendono la propria collocazione.

Per quanto riguarda la violenza degli oppressi, il problema si complica. La causa più rilevante è senza dubbio la frustrazione. Le tesi sul rapporto tra l’intensità della frustrazione e l’ “escalation” della violenza, delineata dallo psicologo Dollard e dal suo gruppo nel 1939, sono state confermate e sviluppate in recenti studi. Tale rapporti (frustrazione-violenza) non si riferisce meramente alla contraddizione materiale che separa ciò a cui la gente aspira da ciò che le è possibile ottenere. La frustrazione è originata spesso da un vero e proprio senso di oltraggio morale – “io merito, e dovrei essere in grado di raggiungere, molto di più” – e dalla convinzione che si stia compiendo un progresso inadeguato.


Posti di fronte alla frustrazione dei negri degli USA e di milioni di “emarginati” del Terzo Mondo, numerosi esponenti religiosi e teologi sono giunti ad approvare la violenza. Essi tendono a “condonarla”, quando siano convinti che si tratti di una giusta causa, che un risultato favorevole sia possibile, e che nessun altro metodo sia idoneo a raggiungere la meta. E’, in sostanza, la dottrina della “guerra giusta”, elaborata da Sant’Agostino. La tendenza odierna è quella di negarne l’applicabilità alla guerra internazionale, ma di affermarla nelle lotte rivoluzionarie. Un primo esempio fu Camillo Torres, il prete rivoluzionario colombiano. Dapprima oppositore della violenza, egli giunse ad aggregarsi al movimento di guerriglia, asserendo che “il popolo sa che i sentieri legali sono esauriti. Il popolo è in uno stato di disperazione ed è risoluto a rischiare la vita, affinché le nuove generazioni di colombiani non restino schiave…Ogni sincero rivoluzionario deve riconoscere che la lotta armata è l’unica alternativa rimasta” (Goulet, pag.44).

I vantaggi e i mali della violenza
In taluni casi, ed entro qualche limite, la violenza può raggiungere gli scopi che i suoi agenti di prefiggono.

Dal punto di vista degli oppressi essa può servire almeno come un risonante mezzo di comunicazione. Essa drammatizza i bisogni, e costringe l’ordine costituito a riconoscerli. Ad esempio: le rivolte della seconda metà degli anni ’60 hanno stimolato la consapevolezza del pubblico sulle condizioni di vita nei ghetti, e sulla determinazione dei negri a non tollerarle più a lungo. Così, il “Black Manifesto”, con le sue implicite minacce di violenza spinse molte comunità ecclesiali, che nel complesso lo rigettavano, a fare passi positivi in favore della popolazione di colore.


La violenza raggiunge talora i suoi scopi immediati. Ne fa fede la Rivoluzione Americana; e come sottolinea Hannah Arendt: “La Francia non avrebbe ottenuto la più radicale legge di riforma da Napoleone ad oggi, per modificare il suo antiquato sistema educativo, senza le rivolte studentesche”.


I “vantaggi” della violenza non si militano ai possibili mutamenti nell’ordine sociale. Franz Fanon, Jean Paul Sartre ed altri autori, pongono l’accento sulla auto-realizzazione personale del partecipante all’evento violento. Quando la violenza “sistemica” della società ha, per intere generazioni frustrato un gruppo di persone, queste tendono a diventare “cose”, con un carente senso della propria identità e della propria umanità. Il reagire violentemente può avere soltanto un effetto purificante: si ottiene una “liberazione psicologica”, purgandosi dalla paura e lasciando sfogo alla rabbia repressa. Nell’atto violento, l’individuo può momentaneamente ribaltare il proprio rapporto con l’ambiente; per una volta, almeno, egli “conta qualcosa”, guadagna un senso di potenza e di identità.


Anche il sentimento dell’ “unità di gruppo” può essere sperimentato, nell’azione violenta. Nell’opera di Remarque “All’Ovest niente di nuovo”, si avverte il cameratismo vissuto dai soldati nelle trincee. Allo stesso modo, il partecipante ad una rivolta può provare un nuovo spirito comunitario. Anche l’assurdo di “soffrire e far soffrire insieme”, può, in apparenza, dare significato ad un’esistenza precedentemente monotona.


Per quanto autentici possano sembrare i sopraelencati vantaggi (in realtà è opinabile che lo siano, in quanto non sono necessariamente correlati all’azione violenta, ed i medesimi risultati di comunicazione drammatica, di “liberazione psicologica” ecc, si ottengono in misura ben più consistente e stabile, mediante tecniche nonviolente), i mali che la violenza incorpora e semina sopravanzano di gran lunga i possibili vantaggi.


A prescindere (per ora) da ogni considerazione etico-religiosa, ciò vale anche sul piano pratico. Studi compiuti da numerosi esperti, in vari settori concordano sul fatto che raramente la violenza migliora una situazione, e che, anzi, in linea generale, la peggiora, si tratti dell’azione di un governo contro i dissidenti o viceversa (Graham, pagg.362, 785-788). I governi “vincono” più spesso dei dissidenti, ma i “vantaggi” sono, in genere, di breve durata. I conflitti sociali riesplodono a meno che non si sia posto rimedio alle cause prime del malcontento. Quando i dissidenti hanno successo, come nei casi di Russia, Cina e Cuba, i risultati ultimi sono difficilmente migliori, anche dal punto di vista di chi ha sostenuto la violenza.


Qualunque sia la parte vincente, è verosimile che emergano molte caratteristiche di uno stato di polizia. I governi adottano misure repressive per prevenire ulteriori rivolte; i dissidenti, giunti al potere, fanno altrettanto, per frenare i “contro-rivoluzionari. La “calma” e l’“ordine” sono ottenuti spianando la via al totalitarismo. Anche la ragione diviene una vittima: le emozioni di timore ed ostilità guadagnano un forte ascendente. “Ero diventato una bestia”, esclamò un poliziotto al sociologo Alberto Reiss, dell’università del Michigan, durante una inchiesta sulla rivolta di Newark, nel 1967.


Quando un conflitto si prolunga o di rinnova, ognuna delle parti tende a sviluppare una ideologia di base irrazionale, per rafforzare il proprio atteggiamento (pseudo-motivazioni d’ordine etico-religioso, informazione “sistematicamente” calunniosa sul “nemico”, ecc.).


Nella sfera dei rapporti internazionali, l’impossibilità di controllo e l’irrazionalità della violenza sono particolarmente evidenti. La guerra non può mai essere efficace più che al 50 per cento per ogni parte vincente, ve n’è una che perde. In genere, anche i vincitori ottengono solo una piccola porzione dei loro obiettivi originari. La tendenza della violenza a riprodursi in modo incontrollato preannuncia il disastro: quasi ogni conflitto locale può ingigantirsi in un olocausto nucleare. Ciò impone che un metodo alternativo di trattare le controversie internazionali venga adottato: la catena della violenza deve essere spezzata.


Il male forse più pernicioso che la violenza contiene, consiste nel porre un “precedente”, un esempio. Quando gli Americani sostengono lo spargimento di sangue in Indovina, quando la TV a colori trasporta gli orrori e le mutilazioni nei nostri salotti, non può far meraviglia che i gruppi oppressi ricorrano a gradi inferiori di violenza per rettificare le ingiustizie. Se si può uccidere per la nazione, perché non uccidere per una Harlem migliore?

Vista in questa luce, la Rivoluzione Statunitense fu una delle più tragiche catastrofi della storia umana. Includendo le battaglie tra Whigs e Tories, prima e dopo la Dichiarazione di Indipendenza, una enorme quantità di stragi e di torture fu attuata in nome della libertà. Poiché la rivoluzione ebbe successo, essa è stata onorata nella nostra storia ed usata poi per giustificare quasi ogni genere di violenza. Le ribellioni agrarie del 1790, i killers della storia delle frontiere: costoro, e molti altri, giustificarono gli spargimenti di sangue per mezzo di un “precedente”: la Rivoluzione Americana. Alcuni portavoce del Vietcong, del Nord Vietnam, di rivoluzioni contemporanee, del Black Power hanno citato…la Rivoluzione Americana.


La natura viziosa di questo precedente” fu ben espressa da Tolstoj: “Se si ammette per una volta che gli uomini possano torturare e uccidere i propri simili, in nome dell’umanità, altri possono rivendicare lo stesso diritto di torturare e di uccidere in nome di qualche ideale”.


Il “precedente”, e l’esempio, già gravi nello stimolare ulteriori atti specifici, sono ancora più insidiosi nell’acclimatare la violenza dei nostri costumi; il carattere del nostro pensare muta gradualmente: atti che una volta ci apparivano orribili, divengono accettabili, i tabù contro l’uccisione diminuiscono, e il rispetto per la vita umana decade.


Questa è l’eredità avvelenata che la Rivoluzione Americana, le successive guerre e gli atti di violenza ci hanno trasmesso, e che noi aumentiamo e trasmettiamo alla posterità.


Questa constatazione ci riporta ad una obiezione fondamentale contro la violenza, di portata più rilevante che non quelle d’ordine pratico: la violenza è moralmente ingiusta.


Si accetta ormai universalmente che alcuni tipi di violenza, quali la tortura, l’uccisione indiscriminata, il trattare le persone come “cose”, siano intrinsecamente ingiusti; ma le opinioni divergono in relazione a quali atti siano “giusti” od “ingiusti”, nel caso in cui, ad esempio, esistano due sole alternative, entrambi implicanti l’uccisione. E’ giusto uccidere un Hitler, per salvare innumerevoli vite? O uccidere un neonato i cui pianti potrebbero rivelare la presenza di un gruppo di inermi ad un feroce nemico? Qualcuno può affermare che tali atti non sono moralmente giustificati: secondo questa visione, la legge morale dell’universo (legge divina), il Giudizio Ultimo, faranno giustizia, ed all’uomo non resta che uniformarsi al precetto della assoluta non-uccisione, anche a rischio del sacrificio collettivo.


Molti non assumono questa posizione; essi affermano che si deve scegliere il minore tra i due mali, o, per esprimerci in modo diverso, che un fine sommamente buono giustifica i mezzi i quali, in se stessi sarebbero considerati malvagi (vedi, esempio di Hitler, ecc.). Senza tentare di risolvere qui l’intero complesso problema del rapporto tra fini e mezzi, notiamo solo che l’uccisione è, in ogni caso, un mezzo estremamente pericoloso, ed è generalmente incerto il conseguimento dei fini per i quali è commessa. Trascurando dunque casi paradossali (quali gli aut aut succitati), e singoli, possiamo affermare, sulla base della disamina svolta, che l’uccisione e, più in generale, la violenza sono mezzi immorali e non risolutori.



Nel Sud Africa, molti seguaci di A.Luthuli hanno rinnegato la nonviolenza e si sono raccolti in armi attorno al movimento “Spear of the Nation”, poiché lunghi anni di frustrazione li hanno convinti che nessun’altra soluzione è possibile.


Durante due periodi in particolare, della storia statunitense, anche i più sinceri nonviolenti furono tentati di giustificare la violenza: durante la Guerra Civile, quando gli abolizionisti si schierarono con gli stati del Nord, e durante la depressione economica degli anni ’30, quando la violenza parve essere l’ultima risorsa dei “lavoratori comuni” e dei disoccupati.


Il nonviolento, specialmente se nutre convinzioni religiose, ha sempre di fronte un dilemma reale. La sua partecipazione alle sofferenze degli oppressi lo spinge ad impegnarsi per un cambiamento radicale. Tuttavia egli riconosce che anche l’oppressore è un figlio di Dio, “catturato” in un sistema che non è di sua invenzione. Pertanto l’oppressore non può essere trattato come una “cosa” da liquidare.


Il nonviolento crede che raramente cattivi metodi producano buoni frutti; le possibilità della violenza nell’effettuare miglioramenti a lungo termine, sono scarse. Comunque possiamo affermare, anche sulla scorta degli esempi citati, che nella sociodinamica della violenza, la frustrazione prolungata costituisce una forza motrice indiscutibilmente enorme.

Violenza acquisita, non innata. Alcune forme di rimozione

Prima di addentrarci nell’esplorazione di possibili alternative, dobbiamo chiederci se la violenza sia o meno una componente della natura umana.



L’evidenza indica, come ragionevolmente vera, l’ipotesi secondo la quale l’inclinazione dell’uomo alla violenza è acquisita più che istintiva od innata.


Nel 1902, Pietro Kropotkin pubblicò l’opera pionieristica sulla simbiosi: “Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione”, votata a correggere l’unilaterale enfasi darwiniana sugli aspetti predatori dell’esistenza. Negli anni ’50, Piritim Sorokin, del “Centro Ricerche di Harvard sull’Altruismo Creativo”, ne “Le vie ed il potere dell’Amore”, e in altri volumi, sottolineò il significato della simpatia e della cooperazione nell’evoluzione dell’uomo.


Più di recente, l’antropologo M.F. Ashley Montagu ha compilato numerosi volumi, nei quali giunge ad analoghe conclusioni. Nel 1968 egli pubblicò “Man and Agression”, contenente saggi di quattordici esperti, i quali criticano aspramente la metodologia di Ardrey e Lorenz, e la loro opinione che l’uomo sia, in modo preminente un animale violento per tendenze innate. Numerose ricerche attestano che i Primati pre-umani erano fondamentalmente amabili e che almeno alcune società umane hanno valorizzato la gentilezza e la pace, più che la forza e la violenza. Una schiacciante evidenza, secondo Montagu (pagg.12, 15-16, 34-35, 49, 61), indica l’importanza delle attività nonviolente e cooperative nella vita dell’uomo primitivo, le “potenzialità sociali” di quest’ultimo, la sua capacità di un comportamento costruttivo.


La violenza non è istintiva, ma emerge durante il processo di socializzazione ed è pertanto, in larga parte, un attributo culturale. Quando una società onora i portatori di violenza, nelle successive generazioni si trasmette e circola tale inclinazione. Quando invece l’azione ostile non è gratificata, come accade presso gli indiani Zuni e Hopi, essa si rileva a mala pena.


Negli ultimi decenni in America la gente ha “imparato” ad essere più violenta. Ma possiamo invertire questo orientamento, con l’ausilio di una autentica controcultura. Per fare ciò, disponiamo di due metodi principali, che non si escludono a vicenda. Il primo consiste nel ridurre i conflitti rimuovendone le cause sociali, per la massima estensione possibile. Si tratta di un rimedio ovvio, e, tuttavia, non è stato adeguatamente applicato, per quanto la sua urgenza fosse sottolineata nel “Report of The National Advisory Commission on Civil Disorders” (comunemente detto “Rapporto Kerner”).


Per quanto riguarda il secondo metodo, esso consiste nel trattare i rimanenti conflitti per mezzo di tecniche nonviolento. Nel libro “On Agression” Konrad Lorenz auspica che “l’entusiasmo militante della gioventù” sia convogliato verso “cause” di reale valore nel mondo contemporaneo. In precedenza, nel nostro secolo, lo psicologo William James, nel famoso saggio “The Moral Equivalent of War” accettava come positive le “virtù marziali”, ma affermava che esse potrebbero svilupparsi ed impiegarsi in progetti costruttivi. Questi autori, dunque, fanno riferimento ad una importante ipotesi nonviolenta: la de-direzione delle tendenze aggressive.


La prima alternativa alla violenza

L’uomo possiede risorse adeguate a ridurre drasticamente le frustrazioni che generano violenza. Ovviamente, i programmi costruttivi di alternativa socio-culturale non elimineranno ogni tensione e frustrazione; occorre, pertanto, escogitare ed impiegare metodi nonviolenti idonei a dirimere i conflitti che inevitabilmente nascono.

Un approccio nonviolento di grande efficacia fu quello di John Woolman, esponente quacchero nell’America coloniale. Egli è ricordato per l’intensa opera volta a sensibilizzare i correligionari sui mali dello schiavismo. Il suo metodo era basato in primo luogo sulla persuasione “faccia a faccia”; nel carattere di Woolman erano talmente infusi amore e umiltà, che egli destava ben poco risentimento ogni qual volta presentava il proprio messaggio. In ogni epoca e situazione, coloro che si oppongono al male possono trarre una considerevole facoltà di discernimento della comprensione della personalità di John Woolman, così com’è riflessa nel suo “Journal”. Qualsiasi altro metodo nonviolento si possa impiegare, l’esercitare la sorta di influenza che Woolman esercitò attraverso la forza del carattere e della persuasione, rafforzerebbe enormemente l’impatto totale contro le barriere del male.

Tuttavia, i soli metodi woolmaniani sarebbero insufficienti, nel ben più complesso mondo del tardo ‘900.

Resistenza aggressiva nonviolenta

E’ applicabile oggi, una autentica alternativa, che non è stata considerata a sufficienza: la resistenza aggressiva nonviolenta altrimenti detta “azione diretta nonviolenta”.

I critici della nonviolenza hanno sovente un’idea inadeguata delle sue possibili implicazioni. Molti, ad esempio, si riferiscono ad essa come ad un insieme di tecniche il cui impiego “è visto di buon occhio” dagli oppressori, essendo troppo innocuo per minacciare lo status quo. Per altri, il termine nonviolenza denota unicamente non-resistenza, passività, nei confronti del male.

La resistenza aggressiva nonviolenta di cui parliamo è del tutto differente. Nel rigettare la violenza essa è, appunto, aggressiva più che passiva, e comporta resistenza più che sottomissione.

Martin Luther King definiva questo progetto come “una sintesi superiore”; infatti esso incorpora gli elementi più validi della persuasione da un lato, e della rivolta dall’altro, mentre manca degli aspetti carenti della prima, e di quelli violenti, immorali, non risolutori, della seconda.
L’azione nonviolenta necessita di progettazione e di organizzazione disciplinate ed accurate. Numerose le tecniche a disposizione: dalla persuasione razionale, a proteste, dimostrazioni, scioperi, boicottaggi, sit-in, culminando nella disobbedienza civile di massa. L’obiettivo è quello di esercitare una notevole pressione – che M.L.King definiva “potere coercitivo costruttivo”.

Naturalmente la linea di demarcazione tra l’azione nonviolenta e quella violenta non può essere sempre tracciata in modo netto. I critici potrebbero obiettare che il “potere coercitivo costruttivo” di King si distingue a fatica dalle forme più edulcorate della violenza. Si può cavillare a non finire, ed immaginare situazioni ipotetiche nelle quali l’attivista nonviolento potrebbe difficilmente essere coerente al 100 per cento. Tutto ciò è ammissibile: nel nostro complicato mondo, di rado si può operare su “posizioni assolute”. Eppure, vi è una differenza qualitativa, di fondo, tra l’approccio di M.L.King al problema della violenza, e quello, ad esempio, di Franz Fanon: nei momenti delle scelte e delle decisioni, la distinzione può essere marcata.

Le basi etiche della resistenza aggressiva nonviolenta

La maggior parte degli esponenti della nonviolenza, non pensano ad essa come consistente unicamente in mere tecniche. Al contrario, la ritengono fondata su di una solida filosofia, la quale includa la fede nella essenziale natura morale dell’Universo.

Gandhi attribuiva la incapacità umana di calcolare con precisione il rapporto mezzi-fine, al nostro essere strumenti di una Volontà Superiore, piuttosto che arbitri dei nostri propri destini. Ciò lo induceva a focalizzarsi sulla purezza dei mezzi, e a considerare la percezione della Verità, e l’ampliamento nella sfera di coscienza umana, più importanti del conseguimento di obbiettivi “specifici”.

Martin Luther King metteva in rilievo la co-essenzialità di mezzi e fine: il mezzo rappresentava il fine in svolgimento, come nel rapporto tra il seme e la pianta. Strettamente legata a questo punto di vista, è la convinzione dell’imperativo del dovere (morale): si tratta della millenaria idea secondo cui l’uomo ha l’obbligo incondizionato di operare nella giustizia, e di astenersi dal compiere il male. Egli non deve prendere decisioni unicamente sulla base delle prevedibili conseguenze: deve agire per il valore dell’atto in sé (una delle più antiche formulazioni di questo assioma, particolarmente marcata, si trova nel testo induista “Bhagavad Gita”; ndr).

Cruciale, in questa concezione, è quella che Kant avrebbe definito una “buona volontà”, la quale “non è buona a causa di ciò che ha per effetto, o che realizza; è buona solo per il suo volere, è buona di per sé”. Anche se essa non ottenesse alcuno dei suoi propositi, “brillerebbe come un gioiello nella sua propria giustizia, come se qualcosa che ha piena ragione di essere in se stessa”. Kant elaborò una metafisica accuratamente ragionata, e non è il caso di svilupparla in questa sede; non tutti i nonviolenti concorderebbero su di essa nella stessa misura; tuttavia, in linea generale, essi concepiscono la nonviolenza in accordo con l’imperativo kantiano.

Il cuore della filosofia di Socrate pone pure l’accento sull’imperativo morale. Socrate insegnava che è meglio subire un’ingiustizia, piuttosto che infliggerla, poiché il più grave danno che si possa arrecare all’uomo è il male dell’anima, implicito nelle azioni malvagie.

L’opinione di Socrate è chiarita nella “Apologia” dove egli afferma che i suoi accusatori danneggiano se stessi, mettendolo a morte, poiché le loro anime si deteriorano in tale procedimento, essi non possono danneggiare lui, dal momento che sono incapaci di peggiorarlo sotto il profilo etico. “Danneggiare un uomo vuol dire renderlo meno buono”, sta scritto nella “Repubblica”.

Circa 570 anni dopo, Marco Aurelio, sviluppò il pensiero socratico in questo sillogismo: in un universo ragionevole l’estremo bene e l’estremo male non giungono a caso agli individui, cioè senza riferimento ai loro meriti e demeriti. Eppure, “la morte e la vita, la fatica ed il piacere, la ricchezza e la povertà” sembrano appunto giungere casualmente; dunque questi non possono costituire i valori ultimi dell’esistenza. I beni non sono la qualità del carattere, che la gente o le circostanze non possono accordarci o toglierci, in assoluto. Nulla, sostiene Marco Aurelio nelle “Meditazioni”, può trattenerci dall’essere equanimi, di gran cuore, casti, saggi, risoluti, veritieri, rispettosi del sé, liberi”. Il vero danno che può assediare un uomo è la corruzione della mente o dell’anima, “pestilenza che attacca le creature viventi nella loro umanità”. Basilarmente, continua Marco Aurelio, gli altri non possono danneggiarci, solo noi possiamo farlo. Situarsi dalla parte del bene, o del male, rientra, in ultima analisi, nel nostro potere.

Il problema dell’imperativo morale, variamente espresso in Kant, Socrate o Marco Aurelio, è di cruciale importanza per la comprensione della nonviolenza; il principio-chiave che distingue questa dalla violenza è che le azioni compiute in accordo con l’imperativo morale devono essere intrinsecamente giuste, buone in se stesse. Non è lecito, partendo dall’imperativo morale, uccidere una persona, o trattarla come un “oggetto” sia pure in vista di uno scopo benefico. Si cancella, di fatto, tale scopo, con i mezzi malvagi impegnati per raggiungerlo.

Tutto il discorso svolto fino ad ora incorpora una conclusione: il nonviolento deve avere la forza di volontà di soffrire. Egli cercherà attivamente di spezzare le catene dell’oppressione, ma, di fronte alla possibile scelta, egli accetterà volontariamente di soffrire, piuttosto che usare violenza. Gandhi sottolineò il fatto che l’essere pronti a soffrire per la salvezza dei valori della satyagraha (forza della Verità o dell’Amore), costituiva una parte integrante dell’azione nonviolenta.

Un riflesso dell’eredità che Gandhi ci ha lasciato, è la convinzione che il fine ultimo di ogni campagna nonviolenta debba essere la realizzazione della Verità. Questa idea fece sì che il Mahatma fosse sempre ricettivo ai suggerimenti dei suoi oppositori, e alla possibilità di revisionare gli obbiettivi specifici. Il rispetto per la Verità formava la base metafisica delle sue campagne, e lo rendeva fermissimo nel dirigerle.

Cristiani come Thomas Merton hanno, allo stesso modo, trovato stabilità e potere interiori nel confidare che la Verità, alla fine, è invincibile, poiché Gesù Cristo, “il Signore della Verità”, è davvero risorto e governa il Suo Regno, difendendo i più profondi valori di coloro che dimorsno in esso”.

Un’’altra convinzione comune agli apologeti della nonviolenza è che alla vita umana e la personalità siano, in qualche modo sacre. Anche qui incontriamo spesso un substrato religioso, ma “leaders” nonviolenti di chiara impostazione laica concordano sul fatto che, se il valore della vita umana è preso ala leggera, gli uomini e le società tendono a brutalizzarsi. Uno degli aspetti più devastanti della violenza è appunto questo: essa tende a ridurre, tanto i suoi perpetratori, quanto le sue vittime, ad un livello sub-umano.

La tesi secondo la quale chi usa violenza si spersonalizza, va a cozzare contro le posizioni di Fanon e di altri autori (sommariamente esposte in un precedente paragrafo), in difesa della violenza come mezzo di auto-realizzazione. Tuttavia si può notare, per inciso, che Fanon si riferisce unicamente agli agenti della violenza abbia un effetto energetico: in ogni caso, esso si ottiene necessariamente con il ricorso alla violenza, ma anche, ad esempio, con l’intraprendere una azione positiva per un fine definito. Non c’è ragione per cui una vigorosa azione nonviolenta non debba essere liberamente, sul piano psicologico, nell’offrire all’individuo un senso di identità, di potere, di “impresa”; i partecipanti alle campagne di Gandhi e di M.L.King attestarono che è proprio così: si riceve una raggiante sensazione di dignità umana, agendo in armonia con la propria natura morale. “Beati i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt.:5;9).

Gli atti violenti contro i propri simili, possono introdurre eccitazione in una esistenza opaca, ma hanno senz’altro un effetto degradante e deleterio sugli aspetti migliori di una personalità. Come Socrate asseriva, la struttura spirituale dell’essere si deteriora.

I nonviolenti condividono l’ulteriore convinzione che l’Umanità sia essenzialmente Una. Gli uomini non devono essere polarizzati in campi opposti; ogni metodologia che si attenda ad un simile schema è errata. Di più, essa è impraticabile dal momento che, alla fin fine, dobbiamo vivere insieme.

L’unità del genere umano è un corollario di quello che i Quaccheri chiamano “quel tanto di Dio che è in ogni uomo”. L’apostolo Paolo scopre le basi della riconciliazione in Gesù: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto di due uno solo, colui che ha abbattuto il muro di separazione l’inimicizia…che distruggendo in se stesso l’odio” (Ef,2: 14,16).

Sia Gandhi che M.L.King credevano che noi siamo stati concepiti per amare il nostro prossimo. Laddove la violenza ricerca il bene di una sola delle parti contendenti, la nonviolenza, guidata dall’Amore, si proietto verso l’autorealizzazione di tutti. L’Amore non è visto come una limitazione (alla lotta), ma visto come una dinamica che prevale sulle paure e gli odii delle parte opposte, e può così essere d’ausilio nella soluzione dei problemi. Esso è eminentemente pratico (checché se ne pensi) nel senso che, mentre non si può essere certi degli effetti di atti specifici, lo si può essere dei buoni frutti prodotti dall’Amore. “L’Amore è paziente, benigno… non va in cerca del suo, non si adira…tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto soffre…L’amore non cadrà mai” (Cor. 13:4, e segg.).

L 'efficienza pratica della resistenza aggressiva nonviolenta
Le basi etiche della nonviolenza ne ampliano l’efficacia. Il suo successo non dipende da una superiorità materiale; dunque, la nonviolenza si presta ad essere utilizzata dai “dannati della terra”, i quali, generalmente, mancano di risorse materiali.


La resistenza nonviolenta si fonda in primo luogo su ciò che potremmo definire “potere etico” – il senso di essere nel giusto, non solo in relazione agli scopi, ma anche ai mezzi. Esso crea uno spirito di corpo tra i partecipanti, che sono sospinti alla fermezza e alla continuità nell’impegno. Inoltre, il “potere etico” conquista il consenso di molti fra coloro che non sono impegnati nella dinamica sociale, ma il cui sostegno, in ultima istanza, è essenziale; non respinti, o disgustati, dalla violenza; essi possono convergere nella validità della causa.

Una ricerca nonviolenta facilita una più intelligente scelta degli obiettivi. Essa può definire scopi netti, specifici, mantenendo nel contempo una sufficiente flessibilità, che consente di modificarli o sostituirli, in caso di solide ragioni. Dalla parte opposta, gli scopi dei movimenti violenti sono proclivi a riflettere fattori emozionali; pertanto, sono suscettibili di giudiziose modifiche. Nel logorio della lotta, essi possono, in effetti, subire cambiamenti, ma, verosimilmente, in senso peggioritario: anche la vittoria può essere seguita dal caos, nel quale le fazioni lottano per il potere.

Un grande merito della nonviolenza consiste nel fatto che essa getta luce sulla distinzione morale tra l’oppressore, che usa violenza, e l’oppresso, che non lo fa. Quando ambo le parti sono violente, ognuna “razionalizza” la propria posizione, ha pretesti per accusare la parte opposta, cosicché ogni distinzione morale si vela nella oscurità. Se una parte vince, l’altra continua a sentirsi nel “giusto” e ostile: il conflitto ha piantato i semi di una futura lotta. Milton ha ben espresso il concetto: “Colui che vince con la forza, ha vinto solo metà del nemico”. Una vittoria nonviolenta, all’opposto, per la propria dinamica interna garantirebbe una riconciliazione di fondo ed una stabilità più profonda: non è poco.

D’altra parte, il rifiuto di usare violenza costituisce un appello alla coscienza dell’oppressore, il quale, impossibilitato ad accusare la vittima, è costretto ad ammettere, in sé, la non validità della propria posizione.

Nell’analizzare l’efficacia della resistenza nonviolenta, un elemento da non dimenticare è quello delle correnti prevalenti di opinione, le quali, peraltro, possono mutare abbastanza velocemente. In ogni caso, in linea di massima, la gente preferisce mezzi pacifici per sanare le controversie sociali, e ricorre alla violenza in casi-limite: si tratta di un dato sociologico reale. Un esempio: durante le campagne di disobbedienza civile di massa, in India, i partecipanti, forniti di una scarsa preparazione, rimasero cionondimeno nonviolenti dall’inizio alla fine (fatte le debite eccezioni); ciò fu particolarmente impressionante nel caso di Pathans musulmani alla frontiera nord-occidentle. Da generazioni essi si erano conquistati la fama di “gente crudele, assetata di sangue, vendicativa”; eppure, sotto la direzione di uno dei loro, i Pathans organizzarono un movimento nonviolento per l’indipendenza e per altre riforme, al quale rimasero fedeli, nonostante le “fucilazioni e le impiccagioni di massa” da parte delle truppe britanniche (Bondurant, pagg.132-138).

Poiché i programmi gandhiani sono generalmente misconosciuti, può essere istruttivo illuminarne alcuni aspetti. Citiamo la lotta contadina nella regione di Bardoli, contro il governo di Bombay. Il proposito era quello di costringere le autorità ad intraprendere un’inchiesta imparziale sugli aumenti fiscali decretati poco tempo prima, aumenti che i contadini giudicavano eccessivi. Alle azioni di protesta, durante un periodo di sei mesi, il governo rispose con attacchi alle proprietà rurali, arresti, brutalità, propaganda tendenziosa e minacce: a tutto ciò i contadini reagirono senza violenza; i risultati furono che l’inchiesta venne svolta, gli aumenti fiscali rescissi, e una cooperazione più fattiva si stabilì tra Indù e Musulmani; inoltre, la condizione dei contadini di tutta l’India si elevò. Come osservava Nerhu: “Il successo della campagna poggiò sull’effetto che essa produsse sulle masse rurali dell’intera India. Bardoli divenne un segno e un simbolo di speranza, forza e vittoria, per il contadino indiano” (Bondurant, pag. 61).

Successive campagne assicurarono diritti agli “intoccabili”, aumenti salariali per i lavoratori tessili, ecc. Una più ampia campagna fu condotta, nel 1930-31, contro il monopolio governativo sul sale, con la famosa marcia di duecento miglia verso il mare. Essa ebbe ripercussioni ben più vaste dell’obbiettivo specifico per il quale era stata organizzata.

Intorno all’efficacia della resistenza nonviolenta, è abbastanza diffusa una erronea valutazione, e cioè che essa sia stata tentata e trovata carente. Anche in questo caso rispondiamo, citando innanzitutto un esempio fra mille: quello di M.L.King. Il movimento del quale King era guida, stimolò corpi legislativi, istanze amministrative, tribunali, ecc., a rimuovere innumerevoli sostegni legali alla segregazione razziale. La morte precoce di King ha ritardato ulteriori progressi, e in ogni caso, ovviamente, molto rimane da fare. Eppure, discreti risultati sono stati ottenuti in un lasso di tempo comparativamente breve, specialmente nel campo dell’educazione, dell’estensione dei diritti, ecc. Non c’è alcuna ragione plausibile per cui i metodi nonviolenti usati, seguendo le linee radicali già consideratela King non possano permettere il raggiungimento di ben più ampie mete.

Per quanto riguarda la valutazione dell’efficacia della resistenza nonviolenta, nell’ipotesi di un’aggressione straniera, manca un sufficiente retroterra storico. Che essa abbia rivelato promettenti possibilità, comunque, è reso evidente dalle campagne di Gandhi per l’indipendenza indiana, e da numerose altre vicende: gli aspetti nonviolenti dell’opposizione danese e norvegese alle forze naziste occupanti, durante la seconda guerra mondiale e (in misura minore) la rivoltatedesco-orientale del ’53 e la resistenza cecoslovacca all’invasione russa del ’68, suggeriscono possibili lineamenti per una difesa disarmata.

I metodi nonviolenti sono stati impiegati per obiettivi disparati, in situazioni radicalmente diverse da gruppi etnici e sociali eterogenei. Inoltre, nella maggior parte dei casi, i partecipanti non erano coscienti, a fondo, della “filosofia” della nonviolenza(cioè del suo substrato morale e logico), e neppure erano adeguatamente addestrati al comportamento ed alle tecniche ad essa appropriati. Si può dunque dare per scontato che, con una maggiore coscienza, conoscensca ed addestramento da parte di quanti li praticano, i metodi nonviolenti risulterebbero ancor più efficaci.

Pertanto, considerando la lunga, triste storia della violenza, il tempo relativamente breve e le poche istanze nelle quali la resistenza nonviolenta è stata tentata, e considerando infine la sia pur parziale sua efficacia in tali istanze, dobbiamo concludere, non che “è stata tentata e trovata carente”, ma che, al contrario, essa ha avuto e può avere sorprendenti successi.

Scrivendo in “Resistenza civile come difesa nazionale”, il prof. T.C.Schelling, del Centro di Harvard per gli Affari Internazionali, riassume così l’importanza pratica della nonviolenza: “Il suo potenziale è enorme. Alla fine può essere considerato importante come quello della fissione nucleare. Come quest’ultima, la nonviolenza ha implicazioni che riguardano la pace, la guerra e la stabilità, la fiducia e il terrore, la politica nazionale ed internazionale”.

Senza dubbio, per una nazionale o un movimento sociale, fare assegnamento sulla nonviolenza significa esporsi a rischi di possibili sofferenze. Il nostro compito comunque non è quello di paragonare la nonviolenza con qualche desiderabile situazione ideale, ma con le probabili conseguenze e danni che la violenza apporterebbe. Gli argomenti a favore della nonviolenza aumentano, se tentiamo un tale paragone. Nel caso di un conflitto sociale, se una campagna nonviolenta fallisce, la situazione non sarà molto peggiore di quella precedente. La violenza, invece, non può essere contenuta nei limiti del conflitto specifico, e può facilmente traboccare in una guerra civile, disastrosa in quanto a perdite e a sofferenze umane.

Nel più ipotetico caso della difesa contro una nazione aggressiva, vale più o meno lo stesso criterio valutativo; la nazione aggredita (se la difesa nonviolenta fallisse) sarebbe occupata e dominata, ma esisterebbe ancora, e le possibilità di miglioramento delle condizioni, o di liberazione non sarebbero precluse. Tutt’altro quadro presenta la difesa violenta: non solo l’inevitabile guerra nucleare coinvolgerebbe le parti nell’abiezione morale di infliggere morte ed indicibili sofferenze a milioni di innocenti, così come alle future generazioni; essa non sarebbe neppure “pratica” poiché tutti morirebbero allo stesso modo! Da particolari circostanze potrebbe dipendere l’eventuale sopravvivenza di alcuni, ma vincitori o sconfitti, le conseguenze sarebbero disastrose.

Si può obiettare che la preparazione nucleare è un deterrente contro la guerra. Ciò può essere vero, a breve termine, e sulla base dell’attuale “equilibrio del terrore”. Ma dobbiamo considerare: a) Il numero delle nazioni che arriveranno a possedere armamenti nucleari efficienti. b) I pericoli di conflitto accidentale. c) La tendenza, in tempi di crisi, ad eliminare il nemico, “al primo attacco”. d) I molti aspetti imprevedibili e irrazionali delle relazioni tra gli stati e i popoli. Non è chiaro, a questo punto, che pensare di evitare a lungo la guerra, sulla base della potenza (difensiva), nuclerare, equivale a lanciare in aria una monetina, cento volte di seguito, e pretendere che sia sempre “testa”?

La conclusione è evidente: l’umanità, con l’ausilio dei movimenti nonviolenti, deve assumersi il duplice compito, delineato in un precedente paragrafo: 1) Applicare tutte le risorse utilizzabili per addivenire a soluzioni costruttive dei problemi sociali, e minimizzare le frustrazioni che generano violenza. 2) Nei casi residui di conflitto, quando una delle parti è violenta, contrastarla con le tecniche e la forza morale della resistenza aggressiva nonviolenta.

Bibliografia citata:

-  American Friends Service Committee: “In place of war. An inquiry into nonviolent national defense”, New York, 1967.

- Philip André: “Ch’ange Without Violence”, The Center Magazine, 1, Novembre 1968.

- Hannah Arendt: “Reflections on violence”, N.Y.Rewiew, febbraio 1969.

- Joan V. Bondurant: “Conquest of violence: the Gandhian philosophy of conclict”, Berkeley, 1965.

- John Dollard (e altri): “Frustration and Aggression”, New Haven, 1939.

- Denis Goulet: “The troubled conscience of the revolutionary”, The Center Magazine, 2, maggio 1969.

- Hugh Davis Graham: “Violence in America: historical and comparative perspectives”, New York, 1966.

- Richard Gregg: “The power of Nonviolence”, New York, 1968.

- Martin Luther King: “The Trumet of Conscience”, New York, 1968.

- Stephen King-Hall: “Defence in the Nuclear Age”, London, 1958.

- Staughton Lynd: “Nonviolence in America: A Documentary History”, Indianapolis, 1966.

- William Robert Miller: “Nonviolence: A Christian Interpretation”; New York, 1966.

- M.F.Ashleu Montagu: “Man and Aggression”; New York, 1968.

- Phillips Moulton: “The Journal and Major Essays of John Wolmann”, Oxford University Press, New York, 1971.

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