Oggi la Camera dei deputati – relatore Maurizio Turco - ha approvato all’unanimità il progetto di legge Rita Bernardini ed altri, volto a consentire l'esercizio del voto domiciliare ai disabili intrasportabili anche nel caso in cui questi non dipendano in modo continuativo da apparecchiature elettromedicali.
“Ringrazio tutti coloro che in questi giorni – sollecitati da un'iniziativa nonviolenta di dirigenti e militanti radicali - hanno voluto richiamare l'attenzione del Parlamento su questo tema.
Come Radicali e Come Associazione Luca Coscioni dedichiamo questo primo risultato (ora la proposta deve essere approvata rapidamente anche al Senato) a Luca Coscioni, Piergiorgio Welby e Severino Mingroni, nostro candidato alle elezioni europee.
Sin dal primo momento (8 maggio dello scorso anno, è il giorno del deposito della pdl n. 907) abbiamo voluto che questa legge fosse la legge di tutto il Parlamento perché – finalmente – dopo 61 anni di un diritto costituzionale negato poniamo fine all’odiosa discriminazione che fino ad oggi ha impedito di poter esercitare il diritto di voto a chi per grave disabilità non è in grado di recarsi al seggio elettorale. Se anche il Senato non opporrà ostacoli temporali come è accaduto alla Camera grazie al presidente Fini e ai capigruppo di tutti i partiti, avremo assicurato – anche in Italia, come in tutta Europa - il “suffragio universale”.
Dichiarazione di Rita Bernardini, deputata radicale-Pd, membro della Commissione Giustizia
giovedì 30 aprile 2009
Diritto di voto agli intrasportabili
mercoledì 29 aprile 2009
Esistenze
Sessantuno anni dopo l’Unità d’Italia, nel 1922, avveniva la Marcia su Roma. Ancora oggi si sta discutendo in Italia su come rappresentare la liberazione dalle conseguenze di quell’infausto momento. Oggi, nella data ebraica del 5 di Iyàr, festeggiando il 61° anniversario dell’Indipendenza dello Stato d’Israele ci chiedevamo se sarebbe possibile anche qui una “Marcia su Gerusalemme”. La storia insegna come le vicissitudini delle nazioni, le guerre, le grandi crisi economiche, possano scardinare i principi della convivenza civile generando sconsiderate e tragiche avventure. La società israeliana non è meno complessa e frastagliata rispetto a quella italiana, nelle diverse ideologie politiche e nei contrasti socioeconomici. E in più ha dovuto sopportare l’incessante ostilità del contesto geopolitico che in 61 anni ha causato 22.570 vittime militari e civili. Lo Stato israeliano ha finora saputo esprimere meccanismi di autocritica e di autocontrollo che ne hanno garantito il carattere civile democratico e rappresentativo. La chiave della futura esistenza di Israele sta nella sua capacità di difendere i propri interessi di sopravvivenza e di politica reale, che a volte impongono anche l’uso della forza, senza però mai dimenticare l’eterno imperativo ebraico di perseguire la verità, la giustizia, la vita, l’amore per il prossimo, la pace. È questo il vero senso dell’esigenza irrinunciabile che Israele sia lo Stato ebraico.
Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme
Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme
sabato 25 aprile 2009
Liberazione
Il 25 aprile del 1945, gli eserciti alleati hanno liberato l'Italia del Nord dall'occupazione dei tedeschi e del regime di Salò. Le grandi città del Nord, Genova, Torino e Milano sono insorte, e i partigiani vi sono entrati. Mussolini, in fuga in divisa tedesca, è stato giustiziato. L'Italia era liberata e la guerra era finita. E' vero che questa liberazione è stata opera degli Alleati, non della guerra partigiana, che è rimasta comunque un fenomeno minoritario. Ma è anche vero che si deve alla lotta partigiana e all'insurrezione dell'aprile 1945 se gli italiani hanno potuto, in qualche maniera, entrare a far parte delle nazioni vincitrici e non semplicemente di quelle vinte. Se hanno lavato la vergogna del giugno 1940, dell'attacco alla Francia moribonda. Non è solo la retorica dei decenni successivi a dirlo, ma la storia di quei giorni. Ho in mente l'immagine della cerimonia della Liberazione a Milano, con il rappresentante del CLN a fianco degli alti ufficiali alleati, che parla in piazza del Duomo e bacia in segno di omaggio la bandiera italiana. Quel 25 aprile avevo quattro mesi, e uscii anch'io dalla clandestinità. Come tanta parte degli italiani, come tutti gli ebrei.
Anna Foa, storica
Anna Foa, storica
mercoledì 22 aprile 2009
Durban II - La conferenza della vergogna
Durban 2, le minacce di Ahmadinejad, l’impotenza dell’Occidente
di Valter Vecellio
Solo un ingenuo si può sorprendere per l’intervento del dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad alla conferenza sul razzismo delle Nazioni Unite a Ginevra. Piuttosto, sarebbe stato sorprendente, avrebbe costituito “notizia”, il contrario: che Ahmadinejad cioè non avesse detto quello che ha detto, qualificando Israele “governo razzista” nel cuore del Medio Oriente insediato dopo il 1945.
Nessuna sorpresa, dunque; e reazione scontata, per quanto opportuna: i delegati dell’Unione Europea presenti che lasciano la conferenza, già disertata da molte delegazioni occidentali (oltre a Israele, Canada, Stati Uniti, Italia, Svezia, Germania, Olanda ed Australia); il presidente francese Nicolas Sarkozy che chiede all'Unione europea di reagire con “estrema fermezza”; il segretario dell’ONU Ban Ki-moon, che ripete la sua condanna per quanti negano l’Olocausto. Peccato solo che poco prima avesse ricevuto a colloquio lo stesso Ahmadinejad, e avesse difeso ad oltranza la “conferenza” criticando l’assenza di numerosi paesi.
Il problema non è dunque condannare le parole e i propositi di Ahmadinejad, ci mancherebbe altro! Il punto è: perché l’Occidente continua ad offrire al dittatore iraniano palcoscenici di visibilità e possibilità di veicolare i suoi messaggi? Soprattutto quello che più lascia l’amaro in bocca è che l’Unione Europea non abbia saputo (o voluto?) trovare una posizione comune.
Quello che è accaduto a Ginevra era ampiamente prevedibile e previsto. Ahmadinejad a parte, i testi predisposti per l’appuntamento svizzero sono caratterizzati da un’impostazione di base inaccettabile: Israele equiparato ad un paese razzista anziché a una democrazia, pur con tutti i suoi limiti e difetti. Che il Vaticano si trovi a suo agio in un consesso convocato con simili piattaforme, anche questo non sorprende. La Chiesa dei Ratzinger e dei Bertone, dei Martino e dei Fisichella (e fino a ieri dei Barragan), è quella che è; quella presenza è una coerenza.
A questo punto conviene chiedersi che cosa si cela dietro le intemerate del leader iraniano; e di quale forza dispone per potersi porre con tale virulenza al centro di uno schieramento che è sempre stato politicamente frammentato, nonostante il potente cemento religioso sconosciuto a Occidente. La risposta, oltre a petrolio e risorse energetiche, si chiama “nucleare”: un deterrente che l’Iran sta creandosi passo dopo passo, senza che nel mondo si apprestino efficaci contromisure.
In proposito è istruttiva, almeno nella sua parte descrittiva, la lettura di un recente saggio di Emanuele Ottolenghi, “La bomba iraniana”. Docente universitario a Oxford e a Gerusalemme, Ottolenghi dirige il “Transatlantic Institute”, un think tank con sede a Bruxelles. Il programma nucleare iraniano, sostiene, prosegue al di là delle tranquillizzanti dichiarazioni. Lo scopo più volte enunciato (il potenziamento del nucleare civile), non trova conferme: nessuna delle ipotizzate centrali è stata mai costruita da vent’anni a questa parte mentre l’intero programma è gestito da istituti legati alle forze armate. Al contrario, gli iraniani continuano ad accumulare l'uranio e a incentivare il lavoro sui missili balistici.
Il “dossier Iran” è una delle questioni di politica estera e di sicurezza più importante e strategica oggi sul tappeto. E’ anche tra le più complesse: sono in gioco giganteschi e divergenti interessi economici legati al petrolio all'interno dello schieramento occidentale. Che può fare la comunità internazionale? Certamente molto di più di quanto non abbia fatto sinora, inasprendo le sanzioni, forte della dipendenza di Teheran con l'Europa in fatto di forniture commerciali e tecnologiche. L’Iran di Ahmadinejad forse non è “la” minaccia per la stabilità mondiale come sostiene Ottolenghi, ma certamente è “una” minaccia; una realtà con cui piaccia o no, dovremo fare i conti.
(Fonte: “Notizie radicali”)
di Valter Vecellio
Solo un ingenuo si può sorprendere per l’intervento del dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad alla conferenza sul razzismo delle Nazioni Unite a Ginevra. Piuttosto, sarebbe stato sorprendente, avrebbe costituito “notizia”, il contrario: che Ahmadinejad cioè non avesse detto quello che ha detto, qualificando Israele “governo razzista” nel cuore del Medio Oriente insediato dopo il 1945.
Nessuna sorpresa, dunque; e reazione scontata, per quanto opportuna: i delegati dell’Unione Europea presenti che lasciano la conferenza, già disertata da molte delegazioni occidentali (oltre a Israele, Canada, Stati Uniti, Italia, Svezia, Germania, Olanda ed Australia); il presidente francese Nicolas Sarkozy che chiede all'Unione europea di reagire con “estrema fermezza”; il segretario dell’ONU Ban Ki-moon, che ripete la sua condanna per quanti negano l’Olocausto. Peccato solo che poco prima avesse ricevuto a colloquio lo stesso Ahmadinejad, e avesse difeso ad oltranza la “conferenza” criticando l’assenza di numerosi paesi.
Il problema non è dunque condannare le parole e i propositi di Ahmadinejad, ci mancherebbe altro! Il punto è: perché l’Occidente continua ad offrire al dittatore iraniano palcoscenici di visibilità e possibilità di veicolare i suoi messaggi? Soprattutto quello che più lascia l’amaro in bocca è che l’Unione Europea non abbia saputo (o voluto?) trovare una posizione comune.
Quello che è accaduto a Ginevra era ampiamente prevedibile e previsto. Ahmadinejad a parte, i testi predisposti per l’appuntamento svizzero sono caratterizzati da un’impostazione di base inaccettabile: Israele equiparato ad un paese razzista anziché a una democrazia, pur con tutti i suoi limiti e difetti. Che il Vaticano si trovi a suo agio in un consesso convocato con simili piattaforme, anche questo non sorprende. La Chiesa dei Ratzinger e dei Bertone, dei Martino e dei Fisichella (e fino a ieri dei Barragan), è quella che è; quella presenza è una coerenza.
A questo punto conviene chiedersi che cosa si cela dietro le intemerate del leader iraniano; e di quale forza dispone per potersi porre con tale virulenza al centro di uno schieramento che è sempre stato politicamente frammentato, nonostante il potente cemento religioso sconosciuto a Occidente. La risposta, oltre a petrolio e risorse energetiche, si chiama “nucleare”: un deterrente che l’Iran sta creandosi passo dopo passo, senza che nel mondo si apprestino efficaci contromisure.
In proposito è istruttiva, almeno nella sua parte descrittiva, la lettura di un recente saggio di Emanuele Ottolenghi, “La bomba iraniana”. Docente universitario a Oxford e a Gerusalemme, Ottolenghi dirige il “Transatlantic Institute”, un think tank con sede a Bruxelles. Il programma nucleare iraniano, sostiene, prosegue al di là delle tranquillizzanti dichiarazioni. Lo scopo più volte enunciato (il potenziamento del nucleare civile), non trova conferme: nessuna delle ipotizzate centrali è stata mai costruita da vent’anni a questa parte mentre l’intero programma è gestito da istituti legati alle forze armate. Al contrario, gli iraniani continuano ad accumulare l'uranio e a incentivare il lavoro sui missili balistici.
Il “dossier Iran” è una delle questioni di politica estera e di sicurezza più importante e strategica oggi sul tappeto. E’ anche tra le più complesse: sono in gioco giganteschi e divergenti interessi economici legati al petrolio all'interno dello schieramento occidentale. Che può fare la comunità internazionale? Certamente molto di più di quanto non abbia fatto sinora, inasprendo le sanzioni, forte della dipendenza di Teheran con l'Europa in fatto di forniture commerciali e tecnologiche. L’Iran di Ahmadinejad forse non è “la” minaccia per la stabilità mondiale come sostiene Ottolenghi, ma certamente è “una” minaccia; una realtà con cui piaccia o no, dovremo fare i conti.
(Fonte: “Notizie radicali”)
martedì 21 aprile 2009
Terribili ricordi d'oggi
Centoquaranta esseri umani, in pericolo di vita su una nave respinta da un porto all'altro, saranno sbarcati in Italia per ragioni di emergenza umanitaria. Curati, rifocillati, salvati dalla morte. E' una decisione molto giusta, e come cittadina italiana sono sollevata che il mio Paese l'abbia infine presa, che abbia posto la salvezza delle vite umane al di sopra di ogni altra considerazione. Di fronte alle stesse scelte, Malta ha deciso invece di anteporre ragioni politiche e di opportunità a quelle umanitarie. Di navi cariche di profughi disperati, sballottate da un porto all'altro senza accoglienza da parte di nessuno, è piena la storia recente degli ebrei: l'Exodus, per esempio, ma anche, meno conosciuta ma più tragica, la St. Louis, la nave respinta prima da Cuba e poi dagli Stati Uniti nel 1939, con il suo carico di novecento ebrei, restituiti alla morte nazista in Europa. Quando guardo le immagini del Pinar, è questo che mi torna alla mente.
Anna Foa, storica
Anna Foa, storica
lunedì 20 aprile 2009
James G. Ballard
Non uccidete il re. Per la laicità
Un prete radicale nella rivoluzione francese (*)
di Angiolo Bandinelli
Chiunque segua il dibattito in corso sui temi dell’incontro - o scontro - tra laici e cattolici, i vestali dello Stato e gli alfieri della Chiesa, non può non aver avuto, prima o poi, la sensazione di scorrere i capitoli di una apologetica monotona e arida, povera di basi storiche, ideali, religiose e filosofiche, preoccupata soprattutto di nutrire una schermaglia più aggressiva che convincente. I laici appaiono impacciati e sulla difensiva, mentre la parte cattolica si accontenta di giocare una partita evasiva e ripetitiva. La cultura cattolica ha valori grandiosi e rispettabili ma, nell’attuale polemica, solo raramente i suoi paladini avanzano tesi e posizioni di un qualche spessore: più spesso, queste vengono eluse o, se affiorano, sono accantonate con fretta sospetta, quasi per non offrire spazio al nuovo, al profondo, all’essenziale, valori o passioni senza i quali gli slanci della fede intristiscono come piantine rinsecchite.
A chi volesse rintracciare i termini alti della problematica cattolica siamo oggi in grado di consigliare una gratificante lettura, che ci immerge in un clima di discussioni su temi non distanti dall’oggi, però tenuti ad un eccezionale livello. Il libro, compatto ed essenziale, tratteggia la figura e alle opere di un prete, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), in gioventù partecipe, seppur defilato, dello scontro tra giansenismo (con annessi gallicanesimo, figurismo, richerismo…) e gesuiti, poi invece protagonista originale delle vicende della rivoluzione francese, cui partecipò fin dall’inizio come eletto agli Stati Generali in rappresentanza del basso clero. Nell’acceso clima di Versailles l’abbé Grégoire si segnala come uno dei “venti o trenta deputati più noti, subito riconoscibili già dalla voce”. Sarà tra i promotori della Pallacorda, poi figura eminente della Assemblea Costituente, della Legislativa e della Convenzione. Benché avesse votato contro la costituzione civile del clero accettò, alla fine, di essere nominato vescovo “assermenté” di Blois e di Mans.
Il libro si sofferma in particolare sulla presa di posizione del nostro abate contro la pena capitale irrogata a re Luigi XVI, il sovrano che lui (di passioni repubblicane) aveva contribuito a far processare e condannare. A sottolinearne l’attualità, il curatore Luigi Recupero fa un puntuale riferimento alla campagna per la moratoria della pena di morte dei radicali di “Nessuno tocchi Caino”. Ma l’intervento parlamentare per evitare la decapitazione di Luigi XVI è solo uno dei tanti con i quali l’abbé viene man mano costruendo l’immagine di un credente, un cattolico, fautore coraggioso di grandi principi liberali e di modernissimi valori democratici. A pochi giorni dalla nascita dell’Assemblea Costituente, Grégoire presentava una mozione per chiedere l’ammissione dei delegati ebrei. Interverrà poi a più riprese, a favore del basso clero angariato dalle gerarchie o per chiedere che alla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” ne venisse allegata una sui “Doveri” e che nel documento fosse fatto esplicito riferimento a Dio quale garante di quei diritti; ma anche per opporsi al sistema elettorale censitario o per fare estendere l’elettorato passivo alla gente di colore. Temi ecclesiali e laici insieme, l’elenco completo sarebbe troppo lungo.
L’abbé Grégoire deve essere considerato uno dei padri del liberalismo, cui arriva non da posizioni laicoborghesi o di stampo protestante, ma da profonde meditazioni sui valori della fede cattolica. Le chiavi filosofico-teologiche di cui egli essenzialmente si serve sono il gallicanesimo e il giansenismo di Port- Royal, con il suo severo agostinismo. Il gallicanesimo propugnava non solo il controllo dei sovrani francesi sulle nomine dei vescovi, ma anche la tesi che il potere del papa trovi un limite nell’autorità dei vescovi riuniti in concilio. E sono ben note le tesi gianseniste sulla grazia, la predestinazione e il libero arbitrio, come anche sulla severità e semplicità del culto e dei costumi ecclesiastici. Il suo gallicanesimo, il suo giansenismo, sono un fecondo humus di valori liberali e democratici i cui frutti si ritroveranno nel pensiero di un Manzoni come di un Buonaiuti, fino a certe indicazioni e percorsi riformatori del Concilio Vaticano II.
Cinque, i testi qui tradotti: i due interventi pronunciati nelle sedute del 12 e 18 agosto 1789, riguardanti la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino; il grande discorso del 15 novembre 1792 per evitare la pena di morte a Luigi XVI e quello “sulla libertà dei culti” del 21 dicembre 1974. Infine, viene presentata la “Lettera del cittadino Grégoire, vescovo di Blois, a Monsignor Ramon-Joseph de Arçe, arcivescovo di Burgos, inquisitore generale di Spagna”, per caldeggiare la soppressione dell’odioso tribunale. Ogni documento si giova di una presentazione di Luigi Recupero, che cura anche il ricco apparato di note e una utile bibliografia generale.
Baptiste-Henri Grégoire
“Non uccidete il re. Per la laicità”
a cura di Luigi Recupero, prefazione di Stefania Mazzone
pp. 170, Euro 13,40
Selene edizioni 2008
NOTE
(*) Da “L’Indice dei libri del mese”, aprile 2009
di Angiolo Bandinelli
Chiunque segua il dibattito in corso sui temi dell’incontro - o scontro - tra laici e cattolici, i vestali dello Stato e gli alfieri della Chiesa, non può non aver avuto, prima o poi, la sensazione di scorrere i capitoli di una apologetica monotona e arida, povera di basi storiche, ideali, religiose e filosofiche, preoccupata soprattutto di nutrire una schermaglia più aggressiva che convincente. I laici appaiono impacciati e sulla difensiva, mentre la parte cattolica si accontenta di giocare una partita evasiva e ripetitiva. La cultura cattolica ha valori grandiosi e rispettabili ma, nell’attuale polemica, solo raramente i suoi paladini avanzano tesi e posizioni di un qualche spessore: più spesso, queste vengono eluse o, se affiorano, sono accantonate con fretta sospetta, quasi per non offrire spazio al nuovo, al profondo, all’essenziale, valori o passioni senza i quali gli slanci della fede intristiscono come piantine rinsecchite.
A chi volesse rintracciare i termini alti della problematica cattolica siamo oggi in grado di consigliare una gratificante lettura, che ci immerge in un clima di discussioni su temi non distanti dall’oggi, però tenuti ad un eccezionale livello. Il libro, compatto ed essenziale, tratteggia la figura e alle opere di un prete, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), in gioventù partecipe, seppur defilato, dello scontro tra giansenismo (con annessi gallicanesimo, figurismo, richerismo…) e gesuiti, poi invece protagonista originale delle vicende della rivoluzione francese, cui partecipò fin dall’inizio come eletto agli Stati Generali in rappresentanza del basso clero. Nell’acceso clima di Versailles l’abbé Grégoire si segnala come uno dei “venti o trenta deputati più noti, subito riconoscibili già dalla voce”. Sarà tra i promotori della Pallacorda, poi figura eminente della Assemblea Costituente, della Legislativa e della Convenzione. Benché avesse votato contro la costituzione civile del clero accettò, alla fine, di essere nominato vescovo “assermenté” di Blois e di Mans.
Il libro si sofferma in particolare sulla presa di posizione del nostro abate contro la pena capitale irrogata a re Luigi XVI, il sovrano che lui (di passioni repubblicane) aveva contribuito a far processare e condannare. A sottolinearne l’attualità, il curatore Luigi Recupero fa un puntuale riferimento alla campagna per la moratoria della pena di morte dei radicali di “Nessuno tocchi Caino”. Ma l’intervento parlamentare per evitare la decapitazione di Luigi XVI è solo uno dei tanti con i quali l’abbé viene man mano costruendo l’immagine di un credente, un cattolico, fautore coraggioso di grandi principi liberali e di modernissimi valori democratici. A pochi giorni dalla nascita dell’Assemblea Costituente, Grégoire presentava una mozione per chiedere l’ammissione dei delegati ebrei. Interverrà poi a più riprese, a favore del basso clero angariato dalle gerarchie o per chiedere che alla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” ne venisse allegata una sui “Doveri” e che nel documento fosse fatto esplicito riferimento a Dio quale garante di quei diritti; ma anche per opporsi al sistema elettorale censitario o per fare estendere l’elettorato passivo alla gente di colore. Temi ecclesiali e laici insieme, l’elenco completo sarebbe troppo lungo.
L’abbé Grégoire deve essere considerato uno dei padri del liberalismo, cui arriva non da posizioni laicoborghesi o di stampo protestante, ma da profonde meditazioni sui valori della fede cattolica. Le chiavi filosofico-teologiche di cui egli essenzialmente si serve sono il gallicanesimo e il giansenismo di Port- Royal, con il suo severo agostinismo. Il gallicanesimo propugnava non solo il controllo dei sovrani francesi sulle nomine dei vescovi, ma anche la tesi che il potere del papa trovi un limite nell’autorità dei vescovi riuniti in concilio. E sono ben note le tesi gianseniste sulla grazia, la predestinazione e il libero arbitrio, come anche sulla severità e semplicità del culto e dei costumi ecclesiastici. Il suo gallicanesimo, il suo giansenismo, sono un fecondo humus di valori liberali e democratici i cui frutti si ritroveranno nel pensiero di un Manzoni come di un Buonaiuti, fino a certe indicazioni e percorsi riformatori del Concilio Vaticano II.
Cinque, i testi qui tradotti: i due interventi pronunciati nelle sedute del 12 e 18 agosto 1789, riguardanti la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino; il grande discorso del 15 novembre 1792 per evitare la pena di morte a Luigi XVI e quello “sulla libertà dei culti” del 21 dicembre 1974. Infine, viene presentata la “Lettera del cittadino Grégoire, vescovo di Blois, a Monsignor Ramon-Joseph de Arçe, arcivescovo di Burgos, inquisitore generale di Spagna”, per caldeggiare la soppressione dell’odioso tribunale. Ogni documento si giova di una presentazione di Luigi Recupero, che cura anche il ricco apparato di note e una utile bibliografia generale.
Baptiste-Henri Grégoire
“Non uccidete il re. Per la laicità”
a cura di Luigi Recupero, prefazione di Stefania Mazzone
pp. 170, Euro 13,40
Selene edizioni 2008
NOTE
(*) Da “L’Indice dei libri del mese”, aprile 2009
sabato 18 aprile 2009
Diritti umani
Les femmes d'Afghanistan ne méritent pas moins que notre soutien total et indéfectible
• da Le Soir del 17 aprile 2009
di Emma Bonino
A la suite de l'annonce de la nouvelle loi sur le statut personnel chiite en Afghanistan, beaucoup ont été scandalisés par le fait que celle-ci légalise le viol conjugal. « Le viol matrimonial légal en Afghanistan », tançaient les titres de nombreux quotidiens, et nous avons tous réagi avec stupeur et effroi. A y regarder de plus près, cependant, la loi est en réalité bien pire que ce que nous avions tous pensé.
Le véritable problème avec cette loi ne réside pas seulement dans ses dispositions sur le viol conjugal, aussi odieuses soient-elles, mais dans le fait qu'elle relègue officiellement les femmes à des citoyens de second ordre.
Cette loi légitime de multiples restrictions quant à la liberté de mouvement des femmes, elle légalise leur soumission aux caprices d'autres personnes, elle les prive de leur mot à dire dans les décisions concernant leurs enfants, et elle leur refuse l'accès à l'éducation et aux soins de santé. Cette négation éhontée des droits humains doit être condamnée – avec force, sans équivoque et de manière universelle.
Fort heureusement, à l'occasion de la Conférence internationale sur l'Afghanistan de La Haye et du sommet de l'Otan, qui se sont tenus récemment, les dirigeants du monde ont précisément réagi de la sorte, et l'impact en a été ressenti à Kaboul. A la suite des critiques retentissantes dont cette loi a fait l'objet, tant à l'intérieur qu'à l'extérieur de l'Afghanistan, le président afghan Hamid Karzaï a déclaré son intention de la faire réviser.
Cependant, l'histoire ne s'arrête pas là. Dès lors que ces deux réunions internationales n'occupent plus les premières pages de l'actualité médiatique, nous ne pouvons pas laisser cette question sombrer dans l'oubli.
C'est pourquoi « No Peace Without Justice » et le « Parti radical transnational » ont lancé un appel international pour indiquer aux autorités afghanes que le monde continuera à être vigilant et que les femmes afghanes ne seront pas sacrifiées dans un souci d'apaisement diplomatique.
Certains disent que cette loi permettrait d'obtenir le soutien de la communauté chiite à quelques mois d'un scrutin présidentiel qui s'annonce difficile pour Karzaï.
Mais, alors qu'un nouveau vent de « réconciliation » et d'endiguement souffle au sein des chancelleries et des think tanks occidentaux, nous ne pouvons pas accepter le sacrifice des droits fondamentaux des femmes comme prix à payer pour la négociation d'une trêve politique en Afghanistan.
Voir les droits des femmes afghanes traités avec mépris dans la vie quotidienne est déjà assez pénible, mais accepter de voir ces violations codifiées et légitimées, et volontairement négociées en vue de gains politiques à court terme, est vraiment abominable. Nos soldats ne devraient pas se battre et mourir en Afghanistan afin d'aider au retour des pratiques restrictives et discriminatoires qui existaient sous le régime des talibans.
Il ne suffit pas de dire, comme beaucoup ont pris soin de le souligner, que cette loi n'étant destinée qu'à la minorité chiite de la population du pays, elle ne s'appliquera qu'à un petit pourcentage de la population féminine de l'Afghanistan.
En réalité, cela la rend d'autant plus discriminatoire et son adoption exige l'action de toutes les femmes (et de tous les hommes), qu'ils soient ou non chiites, qu'ils soient ou non Afghans.
En effet, l'opinion mondiale ne doit pas être moins choquée par cette perspective, nous devrions, au contraire, tous être verts de rage. Aussi longtemps qu'une femme dans le monde n'est pas reconnue comme le principal arbitre de son intégrité personnelle, ce sont toutes les femmes qui souffrent. La perspective d'une légalisation de telles discriminations devrait inspirer l'horreur et l'indignation de tout un chacun.
La nouvelle législation n'est pas seulement une violation directe du droit international, elle contrevient également à nombre de dispositions de la Constitution afghane, dont notamment celle statuant que la « liberté et la dignité de l'être humain sont inviolables ».
Certes, la Constitution permet l'application d'une loi en matière de droit familial distincte pour les chiites, mais ceci ne signifie pas donner carte blanche pour saper les droits fondamentaux des femmes ou des hommes chiites. Toute loi en Afghanistan est encore censée respecter la Constitution et le droit international, y compris les dispositions interdisant les discriminations contre les femmes. Cette loi ne le fait pas.
Malgré l'annonce que la loi sera soumise à révision, le moment n'est pas à la complaisance. Les nouvelles positives émanant de Kaboul ne sont, tout simplement, pas suffisamment rassurantes.
Nous devons maintenir notre indignation et notre vigilance : signer l'appel international, faire part de notre opinion à nos élus et aux autorités afghanes, entreprendre des actions non violentes innovantes. Les femmes d'Afghanistan ne méritent pas moins que notre soutien total et indéfectible.
• da Le Soir del 17 aprile 2009
di Emma Bonino
A la suite de l'annonce de la nouvelle loi sur le statut personnel chiite en Afghanistan, beaucoup ont été scandalisés par le fait que celle-ci légalise le viol conjugal. « Le viol matrimonial légal en Afghanistan », tançaient les titres de nombreux quotidiens, et nous avons tous réagi avec stupeur et effroi. A y regarder de plus près, cependant, la loi est en réalité bien pire que ce que nous avions tous pensé.
Le véritable problème avec cette loi ne réside pas seulement dans ses dispositions sur le viol conjugal, aussi odieuses soient-elles, mais dans le fait qu'elle relègue officiellement les femmes à des citoyens de second ordre.
Cette loi légitime de multiples restrictions quant à la liberté de mouvement des femmes, elle légalise leur soumission aux caprices d'autres personnes, elle les prive de leur mot à dire dans les décisions concernant leurs enfants, et elle leur refuse l'accès à l'éducation et aux soins de santé. Cette négation éhontée des droits humains doit être condamnée – avec force, sans équivoque et de manière universelle.
Fort heureusement, à l'occasion de la Conférence internationale sur l'Afghanistan de La Haye et du sommet de l'Otan, qui se sont tenus récemment, les dirigeants du monde ont précisément réagi de la sorte, et l'impact en a été ressenti à Kaboul. A la suite des critiques retentissantes dont cette loi a fait l'objet, tant à l'intérieur qu'à l'extérieur de l'Afghanistan, le président afghan Hamid Karzaï a déclaré son intention de la faire réviser.
Cependant, l'histoire ne s'arrête pas là. Dès lors que ces deux réunions internationales n'occupent plus les premières pages de l'actualité médiatique, nous ne pouvons pas laisser cette question sombrer dans l'oubli.
C'est pourquoi « No Peace Without Justice » et le « Parti radical transnational » ont lancé un appel international pour indiquer aux autorités afghanes que le monde continuera à être vigilant et que les femmes afghanes ne seront pas sacrifiées dans un souci d'apaisement diplomatique.
Certains disent que cette loi permettrait d'obtenir le soutien de la communauté chiite à quelques mois d'un scrutin présidentiel qui s'annonce difficile pour Karzaï.
Mais, alors qu'un nouveau vent de « réconciliation » et d'endiguement souffle au sein des chancelleries et des think tanks occidentaux, nous ne pouvons pas accepter le sacrifice des droits fondamentaux des femmes comme prix à payer pour la négociation d'une trêve politique en Afghanistan.
Voir les droits des femmes afghanes traités avec mépris dans la vie quotidienne est déjà assez pénible, mais accepter de voir ces violations codifiées et légitimées, et volontairement négociées en vue de gains politiques à court terme, est vraiment abominable. Nos soldats ne devraient pas se battre et mourir en Afghanistan afin d'aider au retour des pratiques restrictives et discriminatoires qui existaient sous le régime des talibans.
Il ne suffit pas de dire, comme beaucoup ont pris soin de le souligner, que cette loi n'étant destinée qu'à la minorité chiite de la population du pays, elle ne s'appliquera qu'à un petit pourcentage de la population féminine de l'Afghanistan.
En réalité, cela la rend d'autant plus discriminatoire et son adoption exige l'action de toutes les femmes (et de tous les hommes), qu'ils soient ou non chiites, qu'ils soient ou non Afghans.
En effet, l'opinion mondiale ne doit pas être moins choquée par cette perspective, nous devrions, au contraire, tous être verts de rage. Aussi longtemps qu'une femme dans le monde n'est pas reconnue comme le principal arbitre de son intégrité personnelle, ce sont toutes les femmes qui souffrent. La perspective d'une légalisation de telles discriminations devrait inspirer l'horreur et l'indignation de tout un chacun.
La nouvelle législation n'est pas seulement une violation directe du droit international, elle contrevient également à nombre de dispositions de la Constitution afghane, dont notamment celle statuant que la « liberté et la dignité de l'être humain sont inviolables ».
Certes, la Constitution permet l'application d'une loi en matière de droit familial distincte pour les chiites, mais ceci ne signifie pas donner carte blanche pour saper les droits fondamentaux des femmes ou des hommes chiites. Toute loi en Afghanistan est encore censée respecter la Constitution et le droit international, y compris les dispositions interdisant les discriminations contre les femmes. Cette loi ne le fait pas.
Malgré l'annonce que la loi sera soumise à révision, le moment n'est pas à la complaisance. Les nouvelles positives émanant de Kaboul ne sont, tout simplement, pas suffisamment rassurantes.
Nous devons maintenir notre indignation et notre vigilance : signer l'appel international, faire part de notre opinion à nos élus et aux autorités afghanes, entreprendre des actions non violentes innovantes. Les femmes d'Afghanistan ne méritent pas moins que notre soutien total et indéfectible.
venerdì 17 aprile 2009
Satira
In difesa di Vauro
di Valter Vecellio
Vauro è autore di vignette sgradevoli e irritanti, su questo non ci piove. Un giorno sì, e l’altro pure, sul “Manifesto” pubblica disegni che mostrano israeliani come nazisti, americani come schiavisti assetati di sangue, e da che parte gli batta il cuore non ne fa certo mistero. Vauro è Vauro, basta la parola. Fa una satira greve, pesante, cattiva. Ma per sapere: c’è una satira light, “buona”, gentile?
Anni fa a chi scrive capitò la ventura di essere direttore responsabile del “Male”. Quel settimanale andava giù pesante, sciabolate al cui confronto le “battute” di Vauro sono cose da educande. Una volta qualcuno, sotto pseudonimo, scrisse un articolo per protestare contro la condanna inflitta allo sventurato che in base alle norme (fasciste) sulla stampa mi aveva preceduto come direttore responsabile. Il magistrato che aveva emesso la condanna secondo l’anonimo corsivista era una m… tale che quando camminava, a suo dire, se ne sentiva la puzza.
Il magistrato così pesantemente chiamato in causa presentò querela con ampia facoltà di prova, e s’ammetterà che era arduo dimostrare che camminando spargeva puzza e cattivi odori. Da sventurato direttore (ir) responsabile ne ricavai due anni e sei mesi di condanna senza beneficio alcuno, poi confermati in Appello. Finì bene perché ci si inventò qualche diavoleria che la Cassazione prese per buona, ma per qualche tempo quei due anni e sei mesi senza condizionale sono stati un piccolo incubo.
In quell’occasione non furono molti che spesero qualche parola di solidarietà: tra quei pochi Oreste del Buono, Giorgio Forattini, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Salvatore Sechi; dalla Federazione della Stampa e dagli ordini costituiti silenzio e indifferenza, ma erano messi in conto.
Del Buono ne scrisse, e il magistrato piccato, replicò: la satira va bene, ma quella non era satira, bisogna porre dei limiti. Pacatamente del Buono rispose che in materia di satira i limiti servono solo per oltrepassarli. E disse che mi difendeva proprio perché si trattava di una volgarità indifendibile.
Il lungo preambolo serve per spiegare perché oggi si dice: “Giù le mani da Vauro”. Da maledetto senese emulo di Cecco Angiolieri è stato di cattivo, pessimo gusto, ha varcato, al pari di Maurizio Crozza i limiti consentiti? Bene, proprio per questo vanno entrambi difesi. E ridateci i tempi di Giulio Andreotti e Giovanni Spadolini, che neutralizzavano i “satiri” chiedendo gli originali delle vignette!
(Fonte: Notizie radicali)
di Valter Vecellio
Vauro è autore di vignette sgradevoli e irritanti, su questo non ci piove. Un giorno sì, e l’altro pure, sul “Manifesto” pubblica disegni che mostrano israeliani come nazisti, americani come schiavisti assetati di sangue, e da che parte gli batta il cuore non ne fa certo mistero. Vauro è Vauro, basta la parola. Fa una satira greve, pesante, cattiva. Ma per sapere: c’è una satira light, “buona”, gentile?
Anni fa a chi scrive capitò la ventura di essere direttore responsabile del “Male”. Quel settimanale andava giù pesante, sciabolate al cui confronto le “battute” di Vauro sono cose da educande. Una volta qualcuno, sotto pseudonimo, scrisse un articolo per protestare contro la condanna inflitta allo sventurato che in base alle norme (fasciste) sulla stampa mi aveva preceduto come direttore responsabile. Il magistrato che aveva emesso la condanna secondo l’anonimo corsivista era una m… tale che quando camminava, a suo dire, se ne sentiva la puzza.
Il magistrato così pesantemente chiamato in causa presentò querela con ampia facoltà di prova, e s’ammetterà che era arduo dimostrare che camminando spargeva puzza e cattivi odori. Da sventurato direttore (ir) responsabile ne ricavai due anni e sei mesi di condanna senza beneficio alcuno, poi confermati in Appello. Finì bene perché ci si inventò qualche diavoleria che la Cassazione prese per buona, ma per qualche tempo quei due anni e sei mesi senza condizionale sono stati un piccolo incubo.
In quell’occasione non furono molti che spesero qualche parola di solidarietà: tra quei pochi Oreste del Buono, Giorgio Forattini, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Salvatore Sechi; dalla Federazione della Stampa e dagli ordini costituiti silenzio e indifferenza, ma erano messi in conto.
Del Buono ne scrisse, e il magistrato piccato, replicò: la satira va bene, ma quella non era satira, bisogna porre dei limiti. Pacatamente del Buono rispose che in materia di satira i limiti servono solo per oltrepassarli. E disse che mi difendeva proprio perché si trattava di una volgarità indifendibile.
Il lungo preambolo serve per spiegare perché oggi si dice: “Giù le mani da Vauro”. Da maledetto senese emulo di Cecco Angiolieri è stato di cattivo, pessimo gusto, ha varcato, al pari di Maurizio Crozza i limiti consentiti? Bene, proprio per questo vanno entrambi difesi. E ridateci i tempi di Giulio Andreotti e Giovanni Spadolini, che neutralizzavano i “satiri” chiedendo gli originali delle vignette!
(Fonte: Notizie radicali)
Imprese
Nelle imprese straordinarie bisogna lasciare al caso la soluzione di molte incognite. L'essere sempre alle prese di molteplici soluzioni crea un falso ottimismo che finisce nell'immobilismo.
Vittorio Dan Segre, pensionato
Vittorio Dan Segre, pensionato
giovedì 16 aprile 2009
Derive
C’è una teoria – chiamatela pure, altrimenti, una chiave di lettura - che si insinua obliquamente in ogni dibattito sui temi che alcuni definiscono etici e che invece, in una interpretazione laica, sono i temi dei diritti civili. Ed è la teoria - o chiave di lettura - della cosiddetta “deriva”. Quando in un dibattito su quei temi tu riesci a definire e stabilire un qualche punto fermo, il tuo interlocutore, se è seguace di quella teoria, ti tira per la manica. Sembra il monumento alla compunzione: “Sarà anche come tu, con onestà indubbia, sostieni, ma se si va avanti per quella strada c’è il forte rischio di scivolare nella deriva…”. Per dire: si sta discutendo di laicità? Il tema è difficile, occorre circoscrivere esattamente la definizione del termine, ecc. Ebbene, quello lì scavalca questa fase ricognitiva e subito, esibendo un occhio ansioso, ti obietta: “Alt! O la laicità è sana, oppure si finisce col cadere nella deriva laicista”. Si tratti invece dell’accanimento terapeutico o del testamento biologico, ecco che subito risuona la sinfonia: “Sono problemi enormi; dietro di essi, anche quando siano esposti utilizzando argomentazioni scientifiche, con tutta evidenza appare la deriva eutanasica”. Non sono mie maligne battute: il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico - osserva Stefano Ceccanti - “è più rigido anche della morale cattolica”: con questa legge, infatti, grazie a una matrioska di combinati disposti, “non si potrebbe mai evitare la somministrazione di idratazione e nutrizione o interromperla ai pazienti incoscienti, anche qualora ciò sfociasse nell’accanimento terapeutico”: tanta “rigidità estrema è stata giustificata con i consueti argomenti del rischio di pendio scivoloso, di deriva eutanasia”. Ironizzando un po’: grande e inarrestabile è la deriva di panico di quelli che temono le derive…
Ricordate la deriva “autoritaria”? Sulla falsariga di tutte le derive via via lamentate, dovrebbe essere conseguenza di uno scivolone dalla o dell’autorità: l’autorità si deforma, si degrada, e a un certo punto ci si ritrova impantanati nella deriva autoritaria. Invece è esattamente il contrario: una deriva autoritaria, se e quando c’è, è conseguenza di una mancanza, di un vuoto, di autorità (che è un dato oggettivo) ma forse soprattutto di autorevolezza (che è un dato soggettivo). Delle derive “scientiste” abbiamo appena detto; ma c’è anche la deriva “giustizialista”. Anche qui: deviazione dalla giustizia, o della giustizia? Non è domanda oziosa o capziosa: come può, da un bene, discendere un male? Dovrà esserci, a un certo punto, una rottura, uno iato che , nel caso in questione, separi la giustizia dall’ingiustizia frutto della deriva. Quale sarà il punto in cui la giustizia non è più tale ed è diventata invece l’ingiustizia del giustizialismo? E chi lo stabilirà, il confine, il come, perché e quando si è incappati in una deriva? Ma, in generale, come può un bene degenerare? Se degenera, vuol dire che è già insidiato da un germe di male, cioè del suo contrario.
Questa cultura della deriva è un po’ subdola: il mondo è tutto uno scivolo saponoso, guai a non aggrapparsi a salde corde, cinture, salvagente; se ne sei privo scivoli e nulla ti trattiene più, fino all’abisso: la deriva è come il maelström di Gordon Pym, quando arrivi al bordo del vortice, quello ti risucchia e ti inghiotte senza possibilità di scampo. Cosa puoi rispondere, incastrato non da un argomentare ma da un sofisma fieristico, da un sospetto privo di consistenza e di pezze d’appoggio, da un vero e proprio atto di terrorismo ideologico, bandierina rossa che ti viene sventolata dinanzi per disorientarti, farti arretrare nello sgomento, se non nel più bieco senso di colpa? Sotto a queste convinzioni c’è una antropologia che più pessimista non si può. L’uomo è un povero fuscello, un travicello in balia delle onde: contro la deriva c’è solo da aggrapparsi al qualcuno che ti può salvare, e l’unico soggetto che può farlo – ammicca il tuo interlocutore - è la chiesa. Questo spiega bene la denuncia agostiniana: l’uomo è “massa damnationis” e il conseguente monito: “Extra ecclesiam nulla salus”. Il mondo è luogo di irremissibile perdizione. Penso al bellissimo racconto della Genesi. Eva, Adamo, innocenti nel paradiso terrestre, attraverso la mela conoscono il bene e il male. Ebbene, è così che essi diventano uomini. Prima erano esseri perfetti, ma non erano esseri umani. Secondo Roberta de Monticelli, i due caddero nel peccato (o fu un errore?) per una “libera decisione”, mica per una deriva dal bene al male. I due caddero, fallirono, non per cupidigia di dissoluzione: non scivolarono nella “deriva”. Loro, almeno, erano capaci di scegliere liberamente tra il bene e il male.
di Angiolo Bandinelli
(Fonte: Il Foglio)
Ricordate la deriva “autoritaria”? Sulla falsariga di tutte le derive via via lamentate, dovrebbe essere conseguenza di uno scivolone dalla o dell’autorità: l’autorità si deforma, si degrada, e a un certo punto ci si ritrova impantanati nella deriva autoritaria. Invece è esattamente il contrario: una deriva autoritaria, se e quando c’è, è conseguenza di una mancanza, di un vuoto, di autorità (che è un dato oggettivo) ma forse soprattutto di autorevolezza (che è un dato soggettivo). Delle derive “scientiste” abbiamo appena detto; ma c’è anche la deriva “giustizialista”. Anche qui: deviazione dalla giustizia, o della giustizia? Non è domanda oziosa o capziosa: come può, da un bene, discendere un male? Dovrà esserci, a un certo punto, una rottura, uno iato che , nel caso in questione, separi la giustizia dall’ingiustizia frutto della deriva. Quale sarà il punto in cui la giustizia non è più tale ed è diventata invece l’ingiustizia del giustizialismo? E chi lo stabilirà, il confine, il come, perché e quando si è incappati in una deriva? Ma, in generale, come può un bene degenerare? Se degenera, vuol dire che è già insidiato da un germe di male, cioè del suo contrario.
Questa cultura della deriva è un po’ subdola: il mondo è tutto uno scivolo saponoso, guai a non aggrapparsi a salde corde, cinture, salvagente; se ne sei privo scivoli e nulla ti trattiene più, fino all’abisso: la deriva è come il maelström di Gordon Pym, quando arrivi al bordo del vortice, quello ti risucchia e ti inghiotte senza possibilità di scampo. Cosa puoi rispondere, incastrato non da un argomentare ma da un sofisma fieristico, da un sospetto privo di consistenza e di pezze d’appoggio, da un vero e proprio atto di terrorismo ideologico, bandierina rossa che ti viene sventolata dinanzi per disorientarti, farti arretrare nello sgomento, se non nel più bieco senso di colpa? Sotto a queste convinzioni c’è una antropologia che più pessimista non si può. L’uomo è un povero fuscello, un travicello in balia delle onde: contro la deriva c’è solo da aggrapparsi al qualcuno che ti può salvare, e l’unico soggetto che può farlo – ammicca il tuo interlocutore - è la chiesa. Questo spiega bene la denuncia agostiniana: l’uomo è “massa damnationis” e il conseguente monito: “Extra ecclesiam nulla salus”. Il mondo è luogo di irremissibile perdizione. Penso al bellissimo racconto della Genesi. Eva, Adamo, innocenti nel paradiso terrestre, attraverso la mela conoscono il bene e il male. Ebbene, è così che essi diventano uomini. Prima erano esseri perfetti, ma non erano esseri umani. Secondo Roberta de Monticelli, i due caddero nel peccato (o fu un errore?) per una “libera decisione”, mica per una deriva dal bene al male. I due caddero, fallirono, non per cupidigia di dissoluzione: non scivolarono nella “deriva”. Loro, almeno, erano capaci di scegliere liberamente tra il bene e il male.
di Angiolo Bandinelli
(Fonte: Il Foglio)
mercoledì 15 aprile 2009
La peste italiana
La Farnesina convoca i corrispondenti stranieri. Quando un giornale critica l’Italia (o di Berlusconi) intervenga l’ambasciatore
di Valter Vecellio
Bernardo Valli su “Repubblica” di martedì 14 aprile ha scritto un articolo, (“E ‘Le Monde’ scopre che criticare l’Italia non si può”), che avrebbe dovuto provocare qualche reazione; al momento invece niente, e questo è forseancora più significativo di quello che racconta Valli.
In sostanza (chi volesse leggere l’articolo integrale lo può trovare su “Notizie Radicali” del 24 aprile), Valli racconta che il presidente del Consiglio Berlusconi è particolarmente suscettibile e infastidito dalle critiche che gli possono venire da giornali esteri. Questo si sapeva. Si sapeva meno che il fastidio e l’irritazione dell’inquilino di palazzo Chigi si esprimono con “una raffica di proteste dei nostri ambasciatori invitati dal loro ministro a reagire quando i quotidiani stranieri parlano male dell’Italia”.
Se le parole appena lette hanno un senso: il ministro Franco Frattini (o qualcuno comunque autorizzato a farlo) incarica e sollecita gli ambasciatori perché protestino e intervengano quando un giornale straniero pubblica articoli critici. E qui la prima questione: critici nei confronti dell’Italia in quanto tale, o critici nei confronti dell’attuale governo, dell’operato del presidente del Consiglio? E come si può concepire che un ambasciatore protesti perché un giornale liberamente pubblica articoli non graditi? Si badi: sgraditi, non con notizie false che se di questo si tratta c’è la querela, la rettifica, il diritto di replica. Non si conoscono le risposte alle proteste degli ambasciatori, ma nel caso di un giornale serio si possono comunque immaginare.
Per tornare all’articolo di Valli. Si racconta che le reprimende del ministero degli Esteri hanno colpito i britannici “Times” e “Guardian”, lo spagnolo “El Pais”, il tedesco “Spiegel”. Facile supporre che ce ne saranno stati altri. Se ne potrebbe avere la lista completa? Si potrebbe conoscere quali istruzioni sono state impartite alle ambasciate? La reprimenda avviene in forma scritta oppure orale? E nel caso in cui la replica consista in una scrollata di spalle, quale la successiva ritorsione, la disdetta dell’abbonamento? Si sorride, però la questione ha una sua serietà, se è vero che il corrispondente di “Le Monde” Philippe Ridet, assieme a un suo collega del “Wall Street Journal” è stato appositamente convocato alla Farnesina, “invitati a spiegare come vedevano l’Italia, e con quali criteri la raccontavano nelle loro corrispondenze”.
Non si finisce mai di imparare, perché si ignorava che tra i compiti della Farnesina vi sia anche quello di convocare i giornalisti stranieri, e chiedere loro spiegazioni su quello che scrivono. Philippe Ridet ne ha scritto con ironia e garbo su “Le Monde”; ma c’è poco di che sorridere, molto da spiegare.
Per esempio: da quanto tempo va avanti questa pratica? Coincide con l’insediarsi di questo Governo, o era pratica anche dei precedenti? Quali giornalisti sono stati “avvicinati”? Da chi sono stati “avvicinati”? Che cosa si è rimproverato loro esattamente? Quanti sono stati invitati a “giustificarsi” direttamente alla Farnesina?
“L’operazione diplomatica”, scrive Valli, “è destinata ad alimentare la cattiva immagine della nostra democrazia, incapace di sopportare le critiche. E accentua la caricatura del presidente del Consiglio”. Vero, anche se l’imbarbarimento del paese, delle istituzioni, della sua classe politica, lo si ammetterà, viene da molto più lontano; c’è qualcosa di ben altro che la caricatura evocata da Valli; Berlusconi è certamente un demagogo, come tale si comporta, come tutti i demagoghi è pericoloso. Ma è l’ultimo anello di una lunga catena, e il problema è costituito appunto da questa catena, non dal singolo anello. Tra qualche giorno si sarà anche in grado di documentarlo, e c’è da augurarsi che per una volta almeno sia contraddetta la ferrea legge che vuole condannato al silenzio e all’indifferenza ogni cosa che “puzzi” di radicale. Ce lo si augura, ma lo si crede poco. La “peste italiana” ha ammorbato tutti molto più di quanto non si creda.
(Fonte: Notizie Radicali)
di Valter Vecellio
Bernardo Valli su “Repubblica” di martedì 14 aprile ha scritto un articolo, (“E ‘Le Monde’ scopre che criticare l’Italia non si può”), che avrebbe dovuto provocare qualche reazione; al momento invece niente, e questo è forseancora più significativo di quello che racconta Valli.
In sostanza (chi volesse leggere l’articolo integrale lo può trovare su “Notizie Radicali” del 24 aprile), Valli racconta che il presidente del Consiglio Berlusconi è particolarmente suscettibile e infastidito dalle critiche che gli possono venire da giornali esteri. Questo si sapeva. Si sapeva meno che il fastidio e l’irritazione dell’inquilino di palazzo Chigi si esprimono con “una raffica di proteste dei nostri ambasciatori invitati dal loro ministro a reagire quando i quotidiani stranieri parlano male dell’Italia”.
Se le parole appena lette hanno un senso: il ministro Franco Frattini (o qualcuno comunque autorizzato a farlo) incarica e sollecita gli ambasciatori perché protestino e intervengano quando un giornale straniero pubblica articoli critici. E qui la prima questione: critici nei confronti dell’Italia in quanto tale, o critici nei confronti dell’attuale governo, dell’operato del presidente del Consiglio? E come si può concepire che un ambasciatore protesti perché un giornale liberamente pubblica articoli non graditi? Si badi: sgraditi, non con notizie false che se di questo si tratta c’è la querela, la rettifica, il diritto di replica. Non si conoscono le risposte alle proteste degli ambasciatori, ma nel caso di un giornale serio si possono comunque immaginare.
Per tornare all’articolo di Valli. Si racconta che le reprimende del ministero degli Esteri hanno colpito i britannici “Times” e “Guardian”, lo spagnolo “El Pais”, il tedesco “Spiegel”. Facile supporre che ce ne saranno stati altri. Se ne potrebbe avere la lista completa? Si potrebbe conoscere quali istruzioni sono state impartite alle ambasciate? La reprimenda avviene in forma scritta oppure orale? E nel caso in cui la replica consista in una scrollata di spalle, quale la successiva ritorsione, la disdetta dell’abbonamento? Si sorride, però la questione ha una sua serietà, se è vero che il corrispondente di “Le Monde” Philippe Ridet, assieme a un suo collega del “Wall Street Journal” è stato appositamente convocato alla Farnesina, “invitati a spiegare come vedevano l’Italia, e con quali criteri la raccontavano nelle loro corrispondenze”.
Non si finisce mai di imparare, perché si ignorava che tra i compiti della Farnesina vi sia anche quello di convocare i giornalisti stranieri, e chiedere loro spiegazioni su quello che scrivono. Philippe Ridet ne ha scritto con ironia e garbo su “Le Monde”; ma c’è poco di che sorridere, molto da spiegare.
Per esempio: da quanto tempo va avanti questa pratica? Coincide con l’insediarsi di questo Governo, o era pratica anche dei precedenti? Quali giornalisti sono stati “avvicinati”? Da chi sono stati “avvicinati”? Che cosa si è rimproverato loro esattamente? Quanti sono stati invitati a “giustificarsi” direttamente alla Farnesina?
“L’operazione diplomatica”, scrive Valli, “è destinata ad alimentare la cattiva immagine della nostra democrazia, incapace di sopportare le critiche. E accentua la caricatura del presidente del Consiglio”. Vero, anche se l’imbarbarimento del paese, delle istituzioni, della sua classe politica, lo si ammetterà, viene da molto più lontano; c’è qualcosa di ben altro che la caricatura evocata da Valli; Berlusconi è certamente un demagogo, come tale si comporta, come tutti i demagoghi è pericoloso. Ma è l’ultimo anello di una lunga catena, e il problema è costituito appunto da questa catena, non dal singolo anello. Tra qualche giorno si sarà anche in grado di documentarlo, e c’è da augurarsi che per una volta almeno sia contraddetta la ferrea legge che vuole condannato al silenzio e all’indifferenza ogni cosa che “puzzi” di radicale. Ce lo si augura, ma lo si crede poco. La “peste italiana” ha ammorbato tutti molto più di quanto non si creda.
(Fonte: Notizie Radicali)
martedì 14 aprile 2009
Un monaco tibetano picchiato a morte
Nel Tibet occupato, la polizia cinese ha picchiato a morte un monaco e continua ad arrestare molti tibetani per stroncare ogni minima protesta. Fonti locali hanno raccontato al Tibetan Centre for Human Rights and Democracy che il 25 marzo Phuntsok Rabten, 27 anni (nella foto), del monastero nella contea di Drango, prefettura di Kardze, ha distribuito volantini invitando i contadini a non coltivare la terra per protesta contro la persecuzione cinese e a pregare per i tibetani uccisi nelle proteste del 2008. All’arrivo della polizia è fuggito, ma lo hanno preso e picchiato fino ad ucciderlo sul posto. Poi hanno gettato il corpo in un burrone, per nasconderlo. Ma i monaci hanno recuperato il corpo e lo hanno portato alla polizia per fare una denuncia, che la polizia non ha voluto ricevere. Le autorità parlano di suicidio o di caduta accidentale da un motociclo.Sempre il 25 marzo la polizia ha arrestato due monaci del monastero Minyak, nel Drango, che avevano invitato i contadini a non coltivare la terra in ottemperanza alla campagna di disobbedienza civile in atto nel Tibet orientale. Due giorni dopo la polizia ha arrestato circa venti contadini che protestavano e ne ha picchiati con violenza altri undici, ricoverati in ospedale in seguito alle ferite. Il 20 marzo, oltre cento persone tra funzionari di pubblica sicurezza e militari sono entrati nel villaggio di Kara e, setacciando casa per casa, hanno costretto i contadini a recarsi a lavorare nei campi. La protesta, ormai ampiamente diffusa, prosegue in altre zone della prefettura di Kardze. Sui muri delle case sono stati affissi numerosi manifesti nei quali si chiede ai contadini di astenersi dal lavorare la terra a causa della brutalità dell’occupazione. Le autorità cinesi minacciano “gravi provvedimenti”, inclusa la confisca dei terreni, nei confronti di quanti incroceranno le braccia in segno di protesta.Il 30 marzo, centro governativo China Tibetology Research ha pubblicato un ampio resoconto sui “grandi progressi economici ottenuti in Tibet in cinquant’anni di dominazione cinese”. Lo scritto rigetta le accuse internazionali di genocidio culturale contro la popolazione tibetana e afferma che i tibetani sono ancora “la schiacciante maggioranza nella regione” e che nella zona il tibetano è insegnato nelle scuole. Il rapporto non parla di arresti e detenzioni.Ma il governo tibetano in esilio accusa il rapporto di mistificazione. Osserva che le principali città sono dominate dai migranti di etnia Han e che la gran parte degli Han non compaiono nelle statistiche ufficiali perché non hanno permesso di residenza.
Dharamsala, 31 marzo 2009. (AsiaNews/RFA)
lunedì 13 aprile 2009
Pasqua
Come nella maggior parte degli anni, Pesach coincide con la Pasqua cristiana. Le due Pasque, quella di liberazione e quella di resurrezione, si sovrappongono. Nei commenti di teologi e rabbini, di cristiani e di ebrei, questa coincidenza risuona come un caldo auspicio di convivenza e di reciproco rispetto. Solo i lefebvriani insistono, imperterriti, a pregare per la conversione degli ebrei nel loro rito del Venerdì santo, e non secondo la formula compromissoria, pur molto spiaciuta al mondo ebraico, elaborata da Benedetto XVI, ma proprio secondo la vecchia formula della liturgia preconciliare. E ribadiscono, via internet, che tutti gli ebrei restano deicidi finché non prendono il battesimo. Formule già pronunciate tali e quali, sia pur ancora con quel “perfidi giudei” eliminato nel 1959 da Giovanni XXIII, nei secoli in cui il diritto canonico proibiva agli ebrei, in quanto assassini di Cristo, di uscire di casa e di mostrarsi nelle strade durante la settimana santa. Di questa tradizione tanto radicata nella nostra storia restano ora solo tracce in alcune processioni popolari del Venerdì Santo, che i turisti si recano ad ammirare senza coglierne ormai più il senso antigiudaico. Il concilio ha spazzato via tutto questo, credo proprio senza possibilità di ritorno. Eppure, quando leggo che un lefebvriano ha pregato il Venerdì santo per la mia conversione, mi coglie un brivido: “Ma come si permette?”.
Anna Foa, storica
Anna Foa, storica
sabato 11 aprile 2009
Barack Obama: il messaggio del sabato
lunedì 6 aprile 2009
Barbarie
La ragazza di diciassette anni frustata pubblicamente in Pakistan perché in compagnia di un uomo che non era suo marito è solo l'ennesimo caso, particolarmente violento, di una discriminazione e di una subordinazione che nei paesi islamici colpisce le donne, tutte le donne in quanto tali. Intanto, in maniera meno cruenta ma altrettanto forte simbolicamente, i giornali ultaortodossi israeliani cancellano dalle foto ufficiali del governo le immagini delle due ministre. Per gli ebrei ultraortodossi, fare il ministro è cosa contraria alla decenza e alla modestia delle donne. Per fortuna, gli ultraortodossi non hanno il potere di fare di più. Solo nel mondo occidentale le donne godono di parità di diritti con gli uomini, ed anche questa parità è in fondo assai recente. Potrebbe anche non durare un altro secolo, potremmo essere ributtati indietro, in un mondo dove comandano gli uomini e le donne non possono nemmeno andare a scuola. Pensiamoci, non smettiamo di pensarci, di appoggiare le donne obbbligate a portare il velo, a rinunciare allo studio, ed anche ad essere cancellate dalle fotografie, cosa che ci sembra talmente ridicola da non farci nemmeno indignare: folklore! Certo, ad essere cancellata è un'immagine, ma quest'immagine rappresenta una persona, viva, che pensa, che lavora, che esiste come persona. Cancellarla dalla foto vuol dire volerla cancellare dalla realtà.
Anna Foa, storica
Anna Foa, storica
domenica 5 aprile 2009
Milano capitale dell'Europa
I movimenti di estrema destra di tutta Europa si sono dati appuntamento oggi a Milano. Il Sindaco ha dichiarato che non si può proibire una manifestazione in nome della difesa della libertà. Concordo. Ma non è sufficiente ed è una posizione gattopardesca.
Il problema è che di fronte a chi ha una nostalgia del nazismo la difesa astratta del diritto di parola non rappresenta niente. Occorrono parole diverse che entrino nel merito dei valori e che esprimano altri valori, opposti. Ma quelle parole sono mancate. Pensare di risolvere il problema limitandosi a fare il regolatore del traffico è ridicolo.
Qualcun altro ha protestato chiedendo che il Sindaco intervenisse in nome di Milano Città medaglia d’oro della Resistenza. In merito a questo il Sindaco non ha risposto. Forse, essendo Milano la città dove sono i nati di Fasci di combattimento, deve aver pensato che questa occasione era una buona opportunità per ricordare “Milano capitale dell’Europa”.
David Bidussa, storico sociale delle idee
Il problema è che di fronte a chi ha una nostalgia del nazismo la difesa astratta del diritto di parola non rappresenta niente. Occorrono parole diverse che entrino nel merito dei valori e che esprimano altri valori, opposti. Ma quelle parole sono mancate. Pensare di risolvere il problema limitandosi a fare il regolatore del traffico è ridicolo.
Qualcun altro ha protestato chiedendo che il Sindaco intervenisse in nome di Milano Città medaglia d’oro della Resistenza. In merito a questo il Sindaco non ha risposto. Forse, essendo Milano la città dove sono i nati di Fasci di combattimento, deve aver pensato che questa occasione era una buona opportunità per ricordare “Milano capitale dell’Europa”.
David Bidussa, storico sociale delle idee
venerdì 3 aprile 2009
Una prima vittoria
Manifestazione Radicale sulla legge 40
La Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la legge 40 sulla procreazione assistita. L'Alta Corte ha, infatti, ieri dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell'art. 14 comma 2 della legge 19 febbraio 2004, limitatamente alla parte in cui si parla di “un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”. “La Corte ha altresì dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo articolato nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”. Questa decisione è una, seppur parziale, vittoria per le migliaia di coppie e per le associazioni che si sono battute in queste anni, con noi, per ristabilire almeno i principi costituzionali disattesi dal legislotore nella legge sulla fecondazione assistita. Ecc! o alcune dichiarazioni dei dirigenti radicali dell’Associazione Luca Coscioni. Per continuare la nostra battaglia, occorre il contributo di tutti. Per fare una donazione www.lucacoscioni.it/contributo
Dai casi individuali, duro colpo a Legge 40. Ora lottiamo per la libertà di ricerca
Dichiarazione di Marco Cappato e Rocco Berardo, segretario e tesoriere Associazione Luca Coscioni: I casi individuali arrivati alla Corte Costituzionale hanno dimostrato quanto piena di ideologia sia stata la stesura della legge “italiana” sulla fecondazione assistita. I casi individuali di donne che hanno dovuto sopportare sul loro corpo l’ideologia di una legge tanto proibizionista hanno consentito il secondo colpo, dopo quello del TAR sulla diagnosi preimpianto, a questa legge. La pentola clericale della legge 40 è stata fatta senza il coperchio costituzionale. Ora è urgente riuscire a imprimere una svolta anche sulla questione centrale per milioni di malati: quella di destinare le migliaia di embrioni sovrannumerari, invece che nella spazzatura, alla ricerca.
quando il Ministro della Salute era Livia Turco
(14 febbraio 2008)
Parziale incostituzionalità Legge 40
La Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la legge 40 sulla procreazione assistita. L'Alta Corte ha, infatti, ieri dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell'art. 14 comma 2 della legge 19 febbraio 2004, limitatamente alla parte in cui si parla di “un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”. “La Corte ha altresì dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo articolato nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”. Questa decisione è una, seppur parziale, vittoria per le migliaia di coppie e per le associazioni che si sono battute in queste anni, con noi, per ristabilire almeno i principi costituzionali disattesi dal legislotore nella legge sulla fecondazione assistita. Ecc! o alcune dichiarazioni dei dirigenti radicali dell’Associazione Luca Coscioni. Per continuare la nostra battaglia, occorre il contributo di tutti. Per fare una donazione www.lucacoscioni.it/contributo
Dai casi individuali, duro colpo a Legge 40. Ora lottiamo per la libertà di ricerca
Dichiarazione di Marco Cappato e Rocco Berardo, segretario e tesoriere Associazione Luca Coscioni: I casi individuali arrivati alla Corte Costituzionale hanno dimostrato quanto piena di ideologia sia stata la stesura della legge “italiana” sulla fecondazione assistita. I casi individuali di donne che hanno dovuto sopportare sul loro corpo l’ideologia di una legge tanto proibizionista hanno consentito il secondo colpo, dopo quello del TAR sulla diagnosi preimpianto, a questa legge. La pentola clericale della legge 40 è stata fatta senza il coperchio costituzionale. Ora è urgente riuscire a imprimere una svolta anche sulla questione centrale per milioni di malati: quella di destinare le migliaia di embrioni sovrannumerari, invece che nella spazzatura, alla ricerca.
Riconosciuto che la legge era sbagliata e punitiva. Se ne prenda finalmente atto e si vari una legge come negli altri paesi europoei che aiuti le coppie e non le discrimini
Dichiarazione di Maria Antonietta Farina Coscioni, co-presidente Associazione Luca Coscioni, deputata radicale: Dalla Corte Costituzionale arriva un segnale inequivocabile e importante.
Una volta tanto hanno fatto onore al loro compito e alla loro funzione di custodi e garanti della Costituzione, nella forma e nella sostanza. Come radicali e associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca avevamo sostenuto fin dal primo momento che la legge 40 sulla cosiddetta procreazione assistita viola il diritto alla salute, alla libertà di cura, all’eguaglianza, così come stabilito dalla Costituzione e come avevano voluto i padri costituenti. La Corte Costituzionale ora ci dà ragione. Sono però dovuti trascorrere quasi cinque anni. Nel frattempo abbiamo dovuto assistere all’ipocrita difesa di una legge sbagliata e punitiva da parte di esponenti della maggioranza la cui unica preoccupazione evidentemente è quella di aderire acriticamente ai desideri e ai voleri della gerarchia vaticana. Non più di qualche giorno fa la sottosegretaria Eugenia Roccella ha avuto l’im! prontitudine di sostenere che la legge 40 funzionava e dava risultati positivi. Li vediamo tutti i giorni: da quando questa legge è in vigore sono aumentati i viaggi di coppie composte da persone con malattie genetiche o donne sterili che non se la sentono di sottoporsi a veri e propri bombardamenti ormonali a rischio della salute, producendo decine di ovuli che non verranno fecondati perché la legge prevede un massimo di tre e vieta il congelamento degli embrioni. Viaggi sempre più numerosi, proliferazione di centri all’estero: dalle mille richieste del 2001 alle oltre quattromila del 2006. Lo scorso anno in una sola clinica di Barcellona si sono ricoverate oltre mille donne. Una campagna violenta e arrogante in questi anni ha cercato di far credere che gli oppositori di questa legge sono fautori di una sorta di eugenetica alla ricerca del figlio perfetto, su misura. Si tratta “semplicemente”, come nel caso di portatori sani di atrofia muscolare s! pinale, di coppie che spesso chiedono che il loro figlio abbia una s peranza. Sono persone che vanno comprese e aiutate, e non punite e colpevolizzate come ora accade.
Associazione Luca Coscioni
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