Come nella maggior parte degli anni, Pesach coincide con la Pasqua cristiana. Le due Pasque, quella di liberazione e quella di resurrezione, si sovrappongono. Nei commenti di teologi e rabbini, di cristiani e di ebrei, questa coincidenza risuona come un caldo auspicio di convivenza e di reciproco rispetto. Solo i lefebvriani insistono, imperterriti, a pregare per la conversione degli ebrei nel loro rito del Venerdì santo, e non secondo la formula compromissoria, pur molto spiaciuta al mondo ebraico, elaborata da Benedetto XVI, ma proprio secondo la vecchia formula della liturgia preconciliare. E ribadiscono, via internet, che tutti gli ebrei restano deicidi finché non prendono il battesimo. Formule già pronunciate tali e quali, sia pur ancora con quel “perfidi giudei” eliminato nel 1959 da Giovanni XXIII, nei secoli in cui il diritto canonico proibiva agli ebrei, in quanto assassini di Cristo, di uscire di casa e di mostrarsi nelle strade durante la settimana santa. Di questa tradizione tanto radicata nella nostra storia restano ora solo tracce in alcune processioni popolari del Venerdì Santo, che i turisti si recano ad ammirare senza coglierne ormai più il senso antigiudaico. Il concilio ha spazzato via tutto questo, credo proprio senza possibilità di ritorno. Eppure, quando leggo che un lefebvriano ha pregato il Venerdì santo per la mia conversione, mi coglie un brivido: “Ma come si permette?”.
Anna Foa, storica
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