Durban 2, le minacce di Ahmadinejad, l’impotenza dell’Occidente
di Valter Vecellio
Solo un ingenuo si può sorprendere per l’intervento del dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad alla conferenza sul razzismo delle Nazioni Unite a Ginevra. Piuttosto, sarebbe stato sorprendente, avrebbe costituito “notizia”, il contrario: che Ahmadinejad cioè non avesse detto quello che ha detto, qualificando Israele “governo razzista” nel cuore del Medio Oriente insediato dopo il 1945.
Nessuna sorpresa, dunque; e reazione scontata, per quanto opportuna: i delegati dell’Unione Europea presenti che lasciano la conferenza, già disertata da molte delegazioni occidentali (oltre a Israele, Canada, Stati Uniti, Italia, Svezia, Germania, Olanda ed Australia); il presidente francese Nicolas Sarkozy che chiede all'Unione europea di reagire con “estrema fermezza”; il segretario dell’ONU Ban Ki-moon, che ripete la sua condanna per quanti negano l’Olocausto. Peccato solo che poco prima avesse ricevuto a colloquio lo stesso Ahmadinejad, e avesse difeso ad oltranza la “conferenza” criticando l’assenza di numerosi paesi.
Il problema non è dunque condannare le parole e i propositi di Ahmadinejad, ci mancherebbe altro! Il punto è: perché l’Occidente continua ad offrire al dittatore iraniano palcoscenici di visibilità e possibilità di veicolare i suoi messaggi? Soprattutto quello che più lascia l’amaro in bocca è che l’Unione Europea non abbia saputo (o voluto?) trovare una posizione comune.
Quello che è accaduto a Ginevra era ampiamente prevedibile e previsto. Ahmadinejad a parte, i testi predisposti per l’appuntamento svizzero sono caratterizzati da un’impostazione di base inaccettabile: Israele equiparato ad un paese razzista anziché a una democrazia, pur con tutti i suoi limiti e difetti. Che il Vaticano si trovi a suo agio in un consesso convocato con simili piattaforme, anche questo non sorprende. La Chiesa dei Ratzinger e dei Bertone, dei Martino e dei Fisichella (e fino a ieri dei Barragan), è quella che è; quella presenza è una coerenza.
A questo punto conviene chiedersi che cosa si cela dietro le intemerate del leader iraniano; e di quale forza dispone per potersi porre con tale virulenza al centro di uno schieramento che è sempre stato politicamente frammentato, nonostante il potente cemento religioso sconosciuto a Occidente. La risposta, oltre a petrolio e risorse energetiche, si chiama “nucleare”: un deterrente che l’Iran sta creandosi passo dopo passo, senza che nel mondo si apprestino efficaci contromisure.
In proposito è istruttiva, almeno nella sua parte descrittiva, la lettura di un recente saggio di Emanuele Ottolenghi, “La bomba iraniana”. Docente universitario a Oxford e a Gerusalemme, Ottolenghi dirige il “Transatlantic Institute”, un think tank con sede a Bruxelles. Il programma nucleare iraniano, sostiene, prosegue al di là delle tranquillizzanti dichiarazioni. Lo scopo più volte enunciato (il potenziamento del nucleare civile), non trova conferme: nessuna delle ipotizzate centrali è stata mai costruita da vent’anni a questa parte mentre l’intero programma è gestito da istituti legati alle forze armate. Al contrario, gli iraniani continuano ad accumulare l'uranio e a incentivare il lavoro sui missili balistici.
Il “dossier Iran” è una delle questioni di politica estera e di sicurezza più importante e strategica oggi sul tappeto. E’ anche tra le più complesse: sono in gioco giganteschi e divergenti interessi economici legati al petrolio all'interno dello schieramento occidentale. Che può fare la comunità internazionale? Certamente molto di più di quanto non abbia fatto sinora, inasprendo le sanzioni, forte della dipendenza di Teheran con l'Europa in fatto di forniture commerciali e tecnologiche. L’Iran di Ahmadinejad forse non è “la” minaccia per la stabilità mondiale come sostiene Ottolenghi, ma certamente è “una” minaccia; una realtà con cui piaccia o no, dovremo fare i conti.
(Fonte: “Notizie radicali”)
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