giovedì 16 aprile 2009

Derive

C’è una teoria – chiamatela pure, altrimenti, una chiave di lettura - che si insinua obliquamente in ogni dibattito sui temi che alcuni definiscono etici e che invece, in una interpretazione laica, sono i temi dei diritti civili. Ed è la teoria - o chiave di lettura - della cosiddetta “deriva”. Quando in un dibattito su quei temi tu riesci a definire e stabilire un qualche punto fermo, il tuo interlocutore, se è seguace di quella teoria, ti tira per la manica. Sembra il monumento alla compunzione: “Sarà anche come tu, con onestà indubbia, sostieni, ma se si va avanti per quella strada c’è il forte rischio di scivolare nella deriva…”. Per dire: si sta discutendo di laicità? Il tema è difficile, occorre circoscrivere esattamente la definizione del termine, ecc. Ebbene, quello lì scavalca questa fase ricognitiva e subito, esibendo un occhio ansioso, ti obietta: “Alt! O la laicità è sana, oppure si finisce col cadere nella deriva laicista”. Si tratti invece dell’accanimento terapeutico o del testamento biologico, ecco che subito risuona la sinfonia: “Sono problemi enormi; dietro di essi, anche quando siano esposti utilizzando argomentazioni scientifiche, con tutta evidenza appare la deriva eutanasica”. Non sono mie maligne battute: il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico - osserva Stefano Ceccanti - “è più rigido anche della morale cattolica”: con questa legge, infatti, grazie a una matrioska di combinati disposti, “non si potrebbe mai evitare la somministrazione di idratazione e nutrizione o interromperla ai pazienti incoscienti, anche qualora ciò sfociasse nell’accanimento terapeutico”: tanta “rigidità estrema è stata giustificata con i consueti argomenti del rischio di pendio scivoloso, di deriva eutanasia”. Ironizzando un po’: grande e inarrestabile è la deriva di panico di quelli che temono le derive…

Ricordate la deriva “autoritaria”? Sulla falsariga di tutte le derive via via lamentate, dovrebbe essere conseguenza di uno scivolone dalla o dell’autorità: l’autorità si deforma, si degrada, e a un certo punto ci si ritrova impantanati nella deriva autoritaria. Invece è esattamente il contrario: una deriva autoritaria, se e quando c’è, è conseguenza di una mancanza, di un vuoto, di autorità (che è un dato oggettivo) ma forse soprattutto di autorevolezza (che è un dato soggettivo). Delle derive “scientiste” abbiamo appena detto; ma c’è anche la deriva “giustizialista”. Anche qui: deviazione dalla giustizia, o della giustizia? Non è domanda oziosa o capziosa: come può, da un bene, discendere un male? Dovrà esserci, a un certo punto, una rottura, uno iato che , nel caso in questione, separi la giustizia dall’ingiustizia frutto della deriva. Quale sarà il punto in cui la giustizia non è più tale ed è diventata invece l’ingiustizia del giustizialismo? E chi lo stabilirà, il confine, il come, perché e quando si è incappati in una deriva? Ma, in generale, come può un bene degenerare? Se degenera, vuol dire che è già insidiato da un germe di male, cioè del suo contrario.

Questa cultura della deriva è un po’ subdola: il mondo è tutto uno scivolo saponoso, guai a non aggrapparsi a salde corde, cinture, salvagente; se ne sei privo scivoli e nulla ti trattiene più, fino all’abisso: la deriva è come il maelström di Gordon Pym, quando arrivi al bordo del vortice, quello ti risucchia e ti inghiotte senza possibilità di scampo. Cosa puoi rispondere, incastrato non da un argomentare ma da un sofisma fieristico, da un sospetto privo di consistenza e di pezze d’appoggio, da un vero e proprio atto di terrorismo ideologico, bandierina rossa che ti viene sventolata dinanzi per disorientarti, farti arretrare nello sgomento, se non nel più bieco senso di colpa? Sotto a queste convinzioni c’è una antropologia che più pessimista non si può. L’uomo è un povero fuscello, un travicello in balia delle onde: contro la deriva c’è solo da aggrapparsi al qualcuno che ti può salvare, e l’unico soggetto che può farlo – ammicca il tuo interlocutore - è la chiesa. Questo spiega bene la denuncia agostiniana: l’uomo è “massa damnationis” e il conseguente monito: “Extra ecclesiam nulla salus”. Il mondo è luogo di irremissibile perdizione. Penso al bellissimo racconto della Genesi. Eva, Adamo, innocenti nel paradiso terrestre, attraverso la mela conoscono il bene e il male. Ebbene, è così che essi diventano uomini. Prima erano esseri perfetti, ma non erano esseri umani. Secondo Roberta de Monticelli, i due caddero nel peccato (o fu un errore?) per una “libera decisione”, mica per una deriva dal bene al male. I due caddero, fallirono, non per cupidigia di dissoluzione: non scivolarono nella “deriva”. Loro, almeno, erano capaci di scegliere liberamente tra il bene e il male.

di Angiolo Bandinelli

(Fonte: Il Foglio)

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