giovedì 26 febbraio 2009

Quelle parole che tornano in vita


C’era una volta una città polacca di nome Bialystok, in cui vivevano centomila persone, di cui sessantamila ebrei. La vita ebraica fioriva ed essi erano orgogliosi di appartenervi. Il 27 giugno 1941 i nazisti conquistarono la città, ed essa divenne teatro di indicibili orrori. Già nei primissimi giorni dell’occupazione tedesca furono uccisi migliaia di ebrei. Duemila persone, tra cui donne e bambini, furono rinchiuse dentro la sinagoga, interamente di legno, a cui venne appiccato fuoco. Morirono arsi vivi.Di sessantamila persone, di quella comunità così fiorente e dinamica, alla fine della guerra, i superstiti furono meno di mille. Ciascuno di coloro che vennero annientati aveva un nome e una storia. Dei sogni e degli affetti. Tutto fu cancellato dalla furia nazista. Uno dei duecento ebrei di Blalystok che tornarono dai campi di sterminio si chiamava Rafael Rajzner. Rajzner aveva assistito alla brutale e sistematica liquidazione del ghetto. Si era nascosto con la moglie e i due figli. Scoperto, era stato rinchiuso in una prigione della Gestapo, dove fu torturato e si vide portare via il figlio senza potergli dire addio. Poi fu deportato nei campi di Stutthof, Auschwitz, Sachsenhausen, in cui venne arruolato dalle SS per falsificare sterline nell’operazione Bernhard, e infine Mauthausen.Per evitare che la storia della città di Bialystok cadesse nell’oblio e perché quegli ebrei uccisi non rimanessero soltanto dei numeri, Rafael Rajzner, spogliato di tutto tranne che dei ricordi, comprese che era necessario lasciare al mondo la propria testimonianza. Giunto nel sud Italia, poi a Roma con la nuova moglie e i due figli del primo marito di lei, anche loro reduci dai campi nazisti, Rajzner cominciò a scrivere, freneticamente, tutto ciò che aveva visto, gli orrori a cui aveva assistito. Ciò che più gli stava a cuore, era ricordare i nomi di chi non era tornato, i mestieri, gli indirizzi, la loro vita insomma.Quando i figliastri Danuta e David decisero di emigrare in Australia, l’unico Paese considerato sufficientemente lontano dall’Europa per cominciare una nuova vita, la moglie Gusta lo convinse a seguirli. Fu proprio a Melbourne che il suo libro “L’annientamento degli ebrei di Blalystok” (“Der Umkum Fun Byalistoker Yidntum”) fu pubblicato, in yiddish, nel 1948. Oggi Danuta ha settantanove anni e ricorda Rafael Rajzner come un uomo alto e di bell’aspetto, eppure oppresso dal terribile fardello che si portava dentro: “Rammento che a Roma rimaneva per interi pomeriggi da solo, a scrivere in una stanza assolata, nonostante lo esortassimo a uscire con noi, completamente immerso nei suoi appunti e nei suoi ricordi.”Forse Rajzner sentiva di non avere il tempo dalla propria parte. Morì infatti nel 1953 stroncato da un attacco di cuore, e la sua opera, in anni in cui il mondo non dimostrava ancora interesse per la Shoah e le sue aberrazioni, venne dimenticata.Ma una copia de “L’annientamento degli ebrei di Blalystok” rimase nella biblioteca di Lonek Lew, ebreo originario di quella città giunto a Melbourne nel 1947, dopo aver trascorso la Guerra a Mosca, dove casualmente si trovava insieme alla moglie Genia al momento dell’invasione nazista.
Sei anni fa Lonek, ormai novantacinquenne, decise di mostrare quel libro a suo figlio Harry e di raccontargli la storia dell’uomo grazie al quale aveva scoperto il destino dei suoi familiari rimasti a Blalystok, la città dal “cuore d’oro”, che lui continuava a considerare “più sofisticata di Melbourne o Sidney, spiacente dirlo”. E Harry, oculista, comprese che quella storia, quella gente, meritasse di essere conosciuta da un pubblico ben più vasto di quello che aveva potuto raggiungere un libro in yiddish pubblicato nel lontano 1948. Per prima cosa era necessario tradurre “L’annientamento degli ebrei di Blalystok” in inglese. “Il mio yiddish non era abbastanza buono, e chiedere ad un traduttore professionista di occuparsi di un intero libro, così drammatico, sarebbe stato troppo oneroso.” racconta Lew “Alla fine mi venne l’idea di dividerlo in sezioni da dieci pagine ciascuna, e mi rivolsi a una cinquantina tra i più famosi traduttori di yiddish in tutto il mondo, chiedendo a ognuno di tradurne una parte, gratuitamente.” Dei trentatre necessari per completarlo, ventidue accettarono immediatamente, e molti si offrirono di occuparsi di sezioni anche più lunghe, l’opera fu in breve completata. Il libro, intitolato “The stories our parents found too painful to tell” (Le storie che i nostri genitori ritennero troppo dolorose da raccontare), è stato stampato a spese di Lew, e sarà disponibile ad aprile di quest’anno.Dopo sessant’anni le parole di Rafael Rajzner prenderanno nuovamente vita, e potranno raccontare a tutti coloro che vorranno ascoltare, le storie di Bishka Zabludowsky, venditore di giornali, Note Jacobson, contabile, del Dottor Krakowski, di Chaim-Zvi, noto giocatore di scacchi, di Poliak, che possedeva la farmacia nella strada del rabbi, di tutti coloro che Rajzner, grazie alla sua volontà, ha saputo salvare dall’oblio.


Rossella Tercatin

mercoledì 25 febbraio 2009

"Questa Chiesa diventerà una setta"


Intervista al teologo Hans Kung

N. Bourcier, S. Le Bars

La Stampa 25-02-2009


Alto e magro, con il volto glabro e il ciuffo ribelle, Hans Küng, considerato il massimo teologo cattolico dissidente vivente, riceve nel suo studio di Tubinga dai muri tappezzati di libri, dove i suoi - tradotti in tutte le lingue - occupano il posto d’onore.Professore, come giudica la decisione del Papa di togliere la scomunica ai quattro vescovi integralisti di monsignor Lefebvre, uno dei quali, Richard Williamson, è un negazionista?«Non ne sono rimasto sorpreso. Già nel 1977, in una intervista a un giornale italiano, Monsignor Lefebvre diceva che “alcuni cardinali sostengono il mio corso” e che “il nuovo cardinal Ratzinger ha promesso si intervenire presso il Papa per trovare una soluzione”. Questo dimostra che la questione non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto con queste persone. Oggi toglie loro la scomunica, perché ritiene che sia il momento giusto per farlo. Ha pensato di poter trovare una formula per reintegrare gli scismatici i quali, pur conservando le loro convinzioni personali, avrebbero potuto dare l’impressione di essere d’accordo con il concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato».Come spiega il fatto che il Papa non abbia misurato la dimensione della protesta che la sua decisione avrebbe suscitato, anche al di là dei discorsi negazionisti di Richard Williamson?«La revoca delle scomuniche non è stato un errore di comunicazione o di tattica, ma un errore del governo del Vaticano. Anche se il Papa non era a conoscenza dei discorsi negazionisti di monsignor Williamson e lui personalmente non è antisemita, tutti sanno che quei quattro vescovi lo sono. In questa faccenda il problema fondamentale è l’opposizione al Vaticano II, in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l’ebraismo. Un Papa tedesco avrebbe dovuto considerare centrale questo punto e mostrarsi senza ambiguità nei confronti dell’Olocausto. Invece non ha valutato bene il pericolo. Contrariamente alla cancelliera Merkel, che ha prontamente reagito.Benedetto XVI è sempre vissuto in un ambiente ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. E’ sempre rimasto chiuso in Vaticano - che è assai simile al Cremlino d’un tempo -, dove è al riparo dalle critiche. All’improvviso, non è stato capace di capire l’impatto nel mondo di una decisione del genere. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contropotere, era un suo subordinato alla Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, completamente sottomesso a Benedetto XVI. Ci troviamo di fronte a un problema di struttura. Non c’è nessun elemento democratico in questo sistema, nessuna correzione. Il Papa è stato eletto dai conservatori e oggi è lui che nomina i conservatori».In che misura si può dire che il Papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?«A modo suo è fedele al Concilio. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la “tradizione”. Per lui questa tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, ad esempio sul riconoscimento della libertà religiosa, combattuta da tutti i papi vissuti prima del Concilio». L’idea di fondo di Benedetto XVI è che il Concilio vada accolto, ma anche interpretato: forse non al modo dei lefebvriani, ma in ogni caso nel rispetto della tradizione e in modo restrittivo. Per esempio è sempre stato critico sulla liturgia. E ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, perché non si trova a suo agio con la modernità e la riforma, mentre il Vaticano II ha rappresentato l’integrazione nella Chiesa cattolica del paradigma della riforma e della modernità. Monsignor Lefebvre non l’ha mai accettato, e nemmeno i suoi amici in Curia. Sotto questo aspetto Benedetto XVI ha una certa simpatia per monsignor Lefebvre. D’altra parte trovo scandaloso che, per i 50 anni dal lancio del Concilio da parte di Giovanni XXIV, nel gennaio 1959, il Papa non abbia fatto l’elogio del suo predecessore, ma abbia scelto di togliere la scomunica a persone che si erano opposte a questo concilio».Che Chiesa lascerà questo Papa ai suoi successori?«Penso che difenda l’idea del “piccolo gregge”. È un po’ la linea degli integralisti: pochi fedeli e una Chiesa elitaria, formata da “veri” cattolici. È un’illusione pensare che si possa continuare così, senza preti né vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente una restaurazione, che si manifesta nella liturgia, ma anche in atti e gesti, come dire ai protestanti che la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa».La Chiesa cattolica è in pericolo?«La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo Papa. È molto doloroso».Lei ha scritto: «Com’è possibile che un teorico dotato, amabile e aperto come Joseph Ratzinger abbia potuto cambiare fino a questo punto e diventare il Grande Inquisitore romano?». Allora, com’è possibile?«Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia resuscitato il suo passato. Ratzinger era un conservatore. Durante il Concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il ‘68, è tornato a posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino a oggi».Lei pensa che possa ancora correggere questa evoluzione?«Quando mi ha ricevuto, nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e io ho veramente creduto che avrebbe trovato la via per le riforme, anche se lente. In quattro anni, invece, ha dimostrato il contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualcosa di coraggioso. Tanto per cominciare, dovrebbe riconoscere che la Chiesa cattolica attraversa una crisi profonda. Poi potrebbe fare un gesto verso i divorziati e dire che, a certe condizioni, possono essere ammessi alla comunione. Potrebbe correggere l’enciclica Humanae vitae, che nel 1968 ha condannato tutte le forme di contraccezione, dicendo che in certi casi l’uso della pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua teologia, che data dal Concilio di Nizza (325). Potrebbe dire: “Abolisco la legge del celibato”. È molto più potente del Presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto a una Corte Suprema! Potrebbe anche convocare un nuovo Concilio».Un Vaticano III?«Permetterebbe di regolare alcune questioni rimaste in sospeso, come il celibato dei preti e la limitazione delle nascite. Si dovrebbe prevedere un modo nuovo per eleggere i vescovi, che contempli il coinvolgimento anche del popolo. L’attuale crisi ha suscitato un movimento di resistenza. Molti fedeli si rifiutano di tornare al vecchio sistema. Anche alcuni vescovi sono stati costretti a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo».La sua riabilitazione potrebbe far parte di questi gesti forti?«In ogni caso sarebbe un gesto ben più facile del reintegro degli scismatici! Ma non credo che lo farà, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno lavorato al Concilio e l’hanno accettato».

(Copyright Le Monde)

martedì 24 febbraio 2009

Nani nucleari


Vertice italo-francese, accordo bilaterale che spalanca le porte al nucleare. Per usare le parole di N. Sarkozy:”…bisognerà dare massiccia diffusione alle centrali nucleari” questo in Italia ed anche in Europa. (sic!)
Ed ancora “…l’Italia e la Francia vogliono cambiare l’Europa, cambiare la politica industriale”. Non si capisce cosa voglia dire, ma non fa nulla.
Il G8 diventerà G14, al tavolo si farà spazio alle economie dei paesi, cosi detti, emergenti più il regime egiziano.
A proposito di regimi piena concordia anche per quel che riguarda l’alleato russo.
N. Sarkozy:”Bisogna creare un nuovo spazio comune con la Russia”, S. Berlusconi:”Vorrei la Russia in occidente”.
Io, invece, vorrei che gli assassini di Anna Politkovskaja finissero in galera, insieme ai mandanti dell’omicidio.
Piena identità di vedute sul resto, cioè poche idee e confuse, grandi pacche sulle spalle e complimenti sdolcinati. Spettacolo mediocre.
Se non volete farvi mancare nulla leggete l’intervista al nostro primo ministro su Le Figaro.

domenica 22 febbraio 2009

Ronde

Intorno al decreto legge sulle "associazioni tra cittadini non armate" (più immediatamente definite "ronde") molti hanno espresso il loro sollievo, altri le loro perplessità. E’ sempre azzardato esprimere a priori un giudizio ed è vero che l’onere della prova rimane fondamentale. Non è forse vero che esiste una "guardia civica" (per di più anche armata) in realtà statuali europee, senza che per questo ciò abbia rappresentato la diffusione della violenza privata? Ma è così improprio domandarci: qual è in quelle realtà il senso e la misura della lealtà verso lo Stato? Nessuna forma di partecipazione alla vita pubblica significa una abbassamento del tasso di democrazia in una società. Ma appunto il problema non è il tasso di partecipazione, è l’educazione civica cui allude quella "voglia di partecipazione". E’ così fuori luogo domanderselo?

David Bidussa, storico sociale delle idee

sabato 21 febbraio 2009

Non toccate il corpo di Borges


Una delle poesie più belle di Luis Cernuda s’intitola «Birds in the Night» ed è dedicata a Verlaine e Rimbaud. O meglio «alla ripugnante farsa elogiativa» di cui solitamente cadono vittime, una volta morti, i poeti che, maledetti ed emarginati in vita per i cattivi comportamenti, gli eccessi, le violenze e le provocazioni, vengono trasformati, dopo, in glorie nazionali. Celebrati «da ambasciatori e sindaci», ottengono busti e targhe come quella che il governo francese («o era il governo inglese?») ha messo al numero 8 di Great College Street, Camden Town, Londra, la modestissima casa in cui, per alcune settimane, il poeta ubriacone e ormai cinquantenne e l’adolescente insolente e geniale «hanno vissuto, lavorato e fornicato» godendo d’una libertà che, poi, avrebbero pagato a caro prezzo. La poesia di Cernuda distilla una gelida rabbia che si traduce in imprecazioni contenute, disperazione, disprezzo e, come una parentesi di sole durante il temporale, in delicate immagini di pena per il destino di questa coppia di provocatori che i posteri - i politici, i dignitari della cultura, gli snob e, in generale, l’establishment - hanno recuperato alla patria e all’orgoglio nazionale castrandoli, così, di tutto ciò che, quando erano in vita, suscitava solo nausea e odio perché rifiuto della morale, della religione e dei valori con la maiuscola. Mi ha riportato alla memoria questa poesia la notizia che il governo argentino aveva intenzione di traslare i resti di Jorge Luis Borges dal cimitero di Plainpalais, a Ginevra - una graziosa e accogliente piazzetta che sembra tutto tranne che un camposanto - a Buenos Aires per seppellirli nell’imponente cimitero della Recoleta. L’idea, pare, era appoggiata dalla presidente argentina Cristina Fernàndez de Kirchner e dal marito, l’ex presidente Kirchner che - è comprensibile e, in qualche modo, inevitabile - non volevano perdere l’occasione di farsi un bagno di cultura e popolarità presiedendo il fastoso evento durante il quale ci sarebbero sprecati discorsi, bandiere, magari anche trombe, e aggettivi come «poeta inclito», «scrittore magico» e «saggista trascendentale». Il progetto è stato presentato al Congresso dalla deputata peronista Martia Beatriz Lenz e, visto che il suo partito detiene la maggioranza, sarebbe stato approvato: come avrebbero potuto lasciarsi sfuggire questi legislatori - anch’essi - l’occasione di farsi un bagno di cultura? Tutto sembrava procedere senza intoppi verso il grande, grottesco finale: il cadavere di Borges elevato all’onore degli altari dall’immarcescibile Paese che gli diede la vita, per merito di un governo che incarna, in modo emblematico, tutto quello che l’esistenza e le opere di Borges hanno rifiutato e deriso: la demagogia, il populismo. Il cattivo gusto e la volgarità. Maria Kodama, la vedova dello scrittore, s’è opposta a questo ritorno in patria delle spoglie, spiegando che Borges, sul finire della vita e in pieno possesso delle facoltà, aveva deciso di andarsene dall’Argentina per morire in Svizzera, dove aveva vissuto e studiato quand’era adolescente e per il quale aveva sempre nutrito grande affetto. «In democrazia - ha dichiarato - nessuna persona di nessun partito può disporre del corpo d’una persona, che è la cosa più sacra». Maria Kodama ha tutte le ragioni del mondo, ma forse ha mostrato un eccesso di ottimismo definendo «democrazia» questo sistema «sui generis» nel quale, a ogni elezione, di fronte alla penosa impotenza di un’opposizione pigmea, si disputano e si dividono il potere alcune fazioni e alcune cobriccole peroniste. In ogni caso c’è ancora, nella patria di Borges, un buon numero di argentini colti e presentabili che hanno dato appoggio a Maria Kodama e impedito che si facesse quest’oltraggio postumo al personaggio più illustre nato in Argentina. La deputata Maria Beatriz Lenz ha ritirato il progetto, ma non è escluso che qualche altro lo risusciti in futuro. (Anche in Perù, di tanto in tanto, qualche deputato propone di riportare in patria i resti di Cèsar Vallejo). È vero che le circostanze hanno fatto di Borges una «gloria nazionale», perchè questo è il destino che attende tutti gli esseri umani che, per talento, virtù, genio, rendano un gran servizio all’umanità nei campi delle scienze, dell’arte o delle lettere: essere immediatamente nazionalizzati e trasformati in motivi d’esaltazione patriottarda. A dire il vero i grandi talenti non li «producono» i paesi e, per questo motivo, Borges non è un «prodotto» argentino. È il frutto d’un insieme praticamente inscindibile di idee, immagini, poesie, romanzi, saggi, sistemi filosofici, teologie arrivati da molte lingue e da molte culture, dalla stimolante atmosfera d’una famiglia, d’un gruppo di amici e di conoscenti, ma, essenzialmente, da una disposizione o da un dono personale, esclusivo e unico per sognare, fantasticare, assimilare le grandi creazioni della letteratura e tradurre in francese le parole dello spagnolo, pagine e libri di precisione straordinaria e insolita bellezza. E per questo motivo, come accade per Shakespeare, per Goethe, per Cervantes e per tanti altri magnifici scrittori, Borges non appartiene all’Argentina, ma a tutti quelli che lo leggono e provano meraviglia di fronte alla sua immaginazione, alla sua cultura letteraria, alla sua eleganza, alla sua ironia e al suo superbo modo di utilizzare la nostra lingua, imponendole l’esattezza dell’inglese e l’intelligenza del francese senza che, per questo, essa perda l’aspra forza del castigliano. Borges se n’è andato dal suo paese perché, come accade a molti scrittori nei propri, probabilmente era nauseato da quanto stava lì capitando, o semplicemente perché era stanco d’essere una «gloria nazionale» (dopo essere stato un illustre sconosciuto sino a quando la Francia, l’Europa e gli Stati Uniti non hanno fatto sapere agli argentini che avevano un genio in casa) o perché, ormai vecchio, come si dice facciano gli elefanti quando sentono d’essere in punto di morte, ha voluto trascorre l’ultima tappa della vita e morire là dove aveva avuto inizio la vita che gli importava - quella intellettuale -: la Svizzera in cui è stato, o ha creduto d’essere, felice leggendo con voracità, imparando lingue, e assimilando, contagiato dagli svizzeri, la sobrietà, la frugalità e la modestia che sono stati i tratti permanenti della sua esistenza privata. È stata, la sua, una decisione perfettamente legittima e chi davvero ammira Borges - non i politicanti ignoranti né i gazzettieri semi-analfabeti che si fanno, anch’essi, un bagno di cultura maneggiando i geni - deve rispettarla. Era indecente usare come argomento per giustificare questo ritorno in patria, un’affermazione di Borges infilata in un’intervista occasionale secondo la quale egli avrebbe voluto essere sepolto alla Recoleta come i suoi padri. Non si sono resi conto questi poveri di spirito che gli esseri umani, a differenza delle pietre e degli animali, a volte cambiano idea? Se avessero letto Borges saprebbero che egli l’ha fatto innumerevoli volte e a proposito di molti argomenti (anche se mai per comodità o per opportunismo). La decisione che conta è l’ultima che ha preso. Ciò che l’ha portato, quando era ormai un vecchio stimato e riverito (ma divorato dalla malattia) a lasciare tutto e, come avrebbe fatto un adolescente innamorato della letteratura, a cominciare da capo, in un paese in cui sarebbe stato sempre uno sconosciuto, in quell’anodina, repressa, poliglotta e ricca città di Calvino dove, tra biblioteche, aule, libri, idiomi stranieri, ha incominciato a essere Borges. È un buon posto per il riposo dello scrittore più internazionale e cosmopolita che - ecco il paradosso - è stato anche, in qualche modo, un provinciale viscerale, quell’immaginifico allucinato e quell’erudito irriverente nei confronti dell’erudizione, quel vecchio-bambino timido e, in certi momenti, stonato che non mai diventato maturo e, per questo motivo, non ha conosciuto corruzione. Un consiglio, amici scrittori: nessuno può mettere ciò che ha scritto al riparo da future manipolazioni, forzature e soprusi. Ma una cosa è possibile: premunirsi dalle imboscate postume come quella che aveva preso il via e, per fortuna, è fallita, contro le ossa del povero Borges. Fatevi cremare e che le vostre ceneri siano sparse in luoghi inaccessibili, come la selva o il mare. Mille volte meglio alimentare i pesci o gli uccelli che questi cannibali senza scrupoli che ingrassano con i resti dei buoni scrittori.


di Mario Vargas Llosa


Copyright El País

(da La Stampa.it)

mercoledì 18 febbraio 2009

Il partito di plastica


"Ho sempre avuto un'idea della politica come missione civile, che sia un mezzo e non un fine. Lascio con assoluta serenità e senza sbattere la porta. Spero che la mia scelta possa tutelare il partito dalla sindrome del logoramento che c'è stata nelle settimane passate”.


“Non ce l'ho fatta a fare il partito che sognavo io e che sognavano tre milioni di elettori. Ma non chiedete al mio successore risultati subito".


“L'idea dell'Ulivo era la possibilità di cambiare il Paese, cosa che il governo Prodi, che al suo interno aveva due ministri che sarebbero poi diventati presidenti della Repubblica, aveva iniziato a fare. E se l'esperienza di quel governo fosse andato avanti tutto il corso della storia italiana sarebbe stato diverso.”


“La destra ha vinto, il successo del Pdl per noi è difficile da capire. Berlusconi ha vinto una battaglia di egemonia nella società, perché ha avuto i mezzi e la possibilità anche di stravolgere i valori della società stessa, costruendo un sistema di disvalori contro i quali bisogna combattere con coraggio, anche quando il vento è più basso, ma sapendo che se la vela è posizionata nella giusta direzione, prima o poi arriverà il vento alle spalle che spingerà in avanti. Io non ce l’ho fatta e chiedo scusa. Sento di non aver corrisposto alla spinta di innovazione che c'era e di non averlo fatto forse per un riflesso interiore che mi ha portato al tentativo di tenerci uniti”.


Valter Veltroni
Segretario del PD, dimissionario

domenica 15 febbraio 2009

Il vuoto

Le parole pronunciate giovedì scorso da Benedetto XVI a proposito della Shoah possono essere accolte come un atto di chiarezza. In realtà testimoniano del vuoto. Quelle parole, infatti, per il modo in cui sono state pronunciate e soprattutto per il tempo che hanno richiesto per essere dette danno la sensazione di una condizione ondivaga, effetto, in cui un ennesimo « Mai più » non interviene profondamente sul senso comune mentre lascia intravedere una lunga « navigazione a vista ». La sensazione che comunicano è quella di un gesto obbligato, dove contano più le buone maniere che la convinzione. Un atto di politica estera, dovuto a qualcuno perché s’acquieti, senza per questo indicare un percorso. E senza fare i conti con le cause. In breve un atto di cortesia, che lascia sul campo molte macerie e non garantisce sull’eventualità del suo ripetersi. Una cosa che assomiglia molto alla retorica dell’autocritica cui ci aveva abituato il linguaggio del “socialismo reale”.

David Bidussa, storico sociale delle idee

martedì 10 febbraio 2009

Eluana Englaro è libera


Lunedì 9 febbraio 2009 ore 20.10

Dopo essere rimasta per 17 anni in ostaggio del pensiero illiberale, fondamentalista e reazionario, imprigionata nel proprio corpo contro la sua volontà, ora è finalmente libera. Libera nella morte.

sabato 7 febbraio 2009

Sicurezza


Tacito diceva che il desiderio di sicurezza va contro ogni impresa grande e nobile.

Vittorio DanSegre, pensionato

giovedì 5 febbraio 2009

Eluana e noi


Ci sono le persone pie e caritatevoli, che con tanto di rosario manifestano per “il Bene” di Eluana chiedendo che si continui a farle ingurgitare con un sondino del liquido in modo da mantenerla nello stato di vegetale in cui si trova da 17 anni. Pazienza se Eluana aveva espresso, quando ancora lo poteva fare, il proprio parere negativo riguardo simili pratiche. Bisogna fare “del Bene” a tutti i costi, e se necessario imporlo.
C’è il Papa, e ci sono cardinali e vescovi che lanciano moniti per “il Bene” di Eluana e financo per “il Bene “del Paese, pronti a tutto pur di fermare” la deriva eutanasica”. Chissà, magari qualche suggerimento potrebbe arrivare dal vescovo Richard Williamson e da don Floriano Abrahamowicz., non poniamo limiti alla provvidenza.
Ci sono i medici coscienziosi e timorati che nel nome di Ippocrate chiedono la radiazione dei colleghi che si occuperanno di assistere Eluana una volta che verrà sospesa l’introduzione forzata di liquidi nel suo corpo, secondo quelle che erano le sue volontà e dopo un’attesa lunga 17 anni. Spero proprio di non finire nelle mani di uno di questi difensori del "Bene" a tutti i costi e auguro altrettanto a tutti quelli a cui voglio bene ed estendo l’augurio anche a tutti voi.
C’è il consigliere comunale che da quando Eluana è arrivata a Udine porta il lutto al braccio e arriva in consiglio comunale donando bottiglie d’acqua. Dove si trovasse negli ultimi 17 anni non è dato sapere, ma forse è meglio non indagare. Di certo l’impegno profuso è ripagato almeno in parte dalle foto che appaiono sui quotidiani di questi giorni. Consiglio un efficace slogan tipo: “Una foto per il "Bene"”.
C’è il Governo che pensa a un decreto per il “Bene” di Eluana preoccupato, ma solo un pochino, del proprio bene, elettorale. Inoltre c’è la concreta speranza che nei prossimi mesi si avvierà l’iter per la costituzione di una commissione che avrà il compito di esaminare nei tempi e modi dovuti la problematica del fine vita e del testamento biologico. Nel frattempo… Massimo impegno per il “Bene” dei cittadini/elettori. Questo in pubblico. In privato interventi “caritatevoli” ma rigorosamente dietro un paravento d’ipocrisia lontano da sguardi indiscreti e naturalmente solo per sé, parenti, amici, amici degli amici.
Rimane Eluana che contro la sua volontà da 17 anni è prigioniera del suo corpo, rimane il padre Beppino che da 17 anni lotta accanto alla figlia con un coraggio ed una determinazione eccezionali, rimangono i medici e gli infermieri che in queste ore hanno coraggiosamente accolto Eluana, rimaniano noi.
Tutti accumunati da un destino comune quello di vivere in un Paese dove l’abbraccio del fondamentalismo religioso e del pensiero illiberale sta stritolando ogni speranza di libertà e di democrazia. Possiamo lottare per sfuggire a quanti vorrebbero farci del “Bene”, dobbiamo in qualche modo resistere a questo vento talebano che ogni giorno soffia più forte.
NON MOLLARE.