lunedì 17 maggio 2010

Giornata mondiale contro l'omofobia



Civiltà prodotto tipico friulano. È questa la scritta che campeggia sui manifesti con le immagini di due ragazzi e di due ragazze che si baciano seduti a un tavolo imbandito con prodotti della tradizione enogastronomica locale. Si tratta di due coppie omosessuali che, nelle immagini realizzate dal fotografo pordenonese di fama internazionale Euro Rotelli, hanno prestato il loro volto per la campagna proposta dal Comitato provinciale Arcigay Nuovi Passi di Udine e Pordenone e da Arcilesbica Udine in occasione del 17 maggio, Giornata mondiale contro l’omofobia. I manifesti, in 200 copie, saranno affissi a partire da lunedì prossimo per dieci giorni nelle strade di Udine e Pordenone.
“Il Friuli – spiega il vicepresidente di Nuovi Passi, Giacomo Deperu, grafico e ideatore della campagna nonché uno dei soggetti ritratti assieme al compagno Stefano – è una Regione da sempre simbolo di grandi valori di civiltà, tolleranza, laicità e generosità. Valori condivisi, nei quali anche gli omosessuali friulani si riconoscono. Per questo – continua – vogliamo dare il nostro contributo aiutando ad abbattere un ulteriore muro di incomprensione: l’omofobia, che non può trovare casa nella nostra bella regione”.

Il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità cancellava l’omosessualità dall’elenco delle malattie. Nello stesso anno a Udine nasceva Arcigay Nuovi Passi, uno dei primi circoli locali di Arcigay in Italia. Ed è proprio in questa occasione che l’Arcigay locale ha voluto realizzare questa campagna. “Un’iniziativa – spiegano i presidenti delle due associazioni locali, Daniele Brosolo e Laura Presta – che lancia un messaggio forte, attraverso un’immagine che da un lato rappresenta con un bacio la spontaneità dei nostri affetti e, dall’altro, riconosce alla terra friulana un indubbia capacità di vivere le differenze come una ricchezza”.

La campagna coincide anche con la celebrazione dei vent’anni di attività di Arcigay a Udine, nata nell’ottobre del 1990 in difesa dei diritti della comunità gay, lesbica, bisessuale e transessuale locale. A raccontare la storia e i traguardi dell’associazione, nella conferenza “1990-2010: baci omosessuali Doc per i 20 anni di Arcigay Udine”, in programma oggi, 15 maggio, alle 18 nella sala conferenze della libreria Feltrinelli di Udine, saranno i presidenti delle associazioni locali, Brosolo e Presta, il presidente del collegio nazionale dei garanti di Arcigay, Alberto Baliello, il presidente del consiglio nazionale di Arcigay, Paolo Ferigo, l’assessore comunale alla Mobilità e tra i fondatori dell’Arcigay friulana, Enrico Pizza, e i quattro protagonisti dei manifesti, Giacomo e Stefano, Lisa e Yvette. A portare i saluti dell’amministrazione comunale, che ha patrocinato l’iniziativa insieme con il Comune di Pordenone, anche il vicesindaco di Udine, Vincenzo Martines.

“Questi vent’anni di impegno sociale e di passione – commenta il vicepresidente di Arcigay Udine, Giacomo Deperu – hanno aiutato senz’altro a cambiare la società. Per anni abbiamo messo il cuore nelle nostre battaglie – continua –, oggi ci mettiamo la faccia sapendo che l’esempio di serenità e dolcezza che questi manifesti esprimono possono essere d’aiuto per tutte i giovani omosessuali, spaventati da una società che spesso li esclude e li minaccia. Vent’anni di lavoro – prosegue Deperu nel ricordare l’appassionato e silenzioso lavoro di decine di volontari di Arcigay Udine e Pordenone dal 1990 ad oggi – hanno preparato le condizioni culturali che ci permettono ora di mostrarci pubblicamente nel pieno della nostra dignità di persone. Uomini e donne che possono manifestare, con dolcezza, i propri affetti alla luce del sole, certi che il primo dei prodotti tipici friulani, la civiltà delle sue genti, saprà accogliere con dignità e comprensione questo gesto d’amore”.

Un gesto che ha suscitato, prima ancora della pubblicazione dei manifesti, molte polemiche nel mondo politico regionale. Sul banco degli imputati le amministrazioni comunali di Udine e Pordenone per aver patrocinato la campagna, a differenza di quanto accaduto a Bergamo, dove il sindaco ha bloccato una mostra fotografica con immagini che ritraevano innocenti baci omosessuali.


“Fortunatamente però la società civile, quella fatta da persone comuni – commenta il presidente di Arcigay Brosolo –, spesso anticipa il legislatore. Ci sono sempre più uomini e donne favorevoli al riconoscimento delle unioni di gay e lesbiche. La società è pronta, lo dicono i sondaggi, e lo viviamo noi – prosegue – che abbiamo deciso di mettere la faccia per chi ancora non si sente di farlo o non può farlo. Mi chiedo, quindi – conclude –, che cosa aspetti la nostra politica a rispondere all’elementare esigenza di veder riconosciuti alcuni dei diritti fondamentali dei quattro milioni di cittadini italiani omosessuali”. Ma Brosolo traccia anche un bilancio di questi primi vent’anni di attività dell’Arcigay friulana, dalla sua nascita nell’ottobre del 1990 come “progetto Fenice” fino all’affiliazione, tra le prime in Italia, all’Arcigay nazionale e al passaggio da circolo a comitato provinciale con competenza sulle province di Udine e Pordenone. In rassegna anche le numerose attività svolte nei campi della cultura, della prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse, “quando ancora parlare di condom era un tabù”, nonché del counselling, con il primo servizio in regione di Telefono amico gay e lesbico, e dell’aggregazione.

“In questi anni – sottolinea ancora Brosolo – il circolo ha rafforzato il suo essere soggetto politico in senso ampio, e non partitico, ponendosi in dialogo con le istituzioni, con le altre associazioni di volontariato, con i partiti, con la chiesa e con tutti gli altri soggetti della vita civile e democratica, diventando un soggetto sempre più riconosciuto, autorevole, e portatore di valori, non solo a tutela della comunità omosessuale, ma di tutti”.

Battute che lasciano il segno


“SILVIO, ‘FARE ECCEZIONI PER CHI PORTA BELLE RAGAZZE’ SIGNIFICA TOLLERARE LA TRATTA DI SCHIAVE”LETTERA APERTA DELLA SCRITTRICE ALBANESE AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO SULLA BATTUTA DA LUI PRONUNCIATA DURANTE L’INCONTRO CON IL PREMIER ALBANESE: DOPO AVERE CHIESTO ALL’ALBANIA MAGGIORE VIGILANZA CONTRO GLI SCAFISTI, IL PREMIER HA AGGIUNTO: “FAREMO ECCEZIONI PER CHI PORTA BELLE RAGAZZE”

Merid Elvira Dones, autrice del libro Sole bruciato (Feltrinelli, 2007), ha scritto questa lettera aperta a Silvio Berlusconi il 12 maggio 2010


Egregio Signor Presidente del Consiglio, le scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo, perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto care: “le belle ragazze albanesi”. Mentre il premier del mio paese d’origine, Sali Berisha, confermava l’impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti, lei ha puntualizzato che “per chi porta belle ragazze possiamo fare un’eccezione.”

Io quelle “belle ragazze” le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate, strozzate, devastate. A Stella i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in Albania e trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà quanti altri. E’ solo allora - tre anni più tardi - che le incisero la sua professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio.

Ai tempi era una bella ragazza, Stella. Oggi è solo un rifiuto della società, non si innamorerà mai più, non diventerà mai madre né nonna. Quel “puttana” sulla pancia le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell’uomo, il massacro dei clienti e dei protettori le ha distrutto l’utero.

Sulle “belle ragazze” scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo Sole bruciato. Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai in cerca di un’altra bella ragazza, si chiamava Brunilda, suo padre mi aveva pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a te sta in giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei, Presidente, solo meno fortunato. E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui continua a sperare, sogna il miracolo. E’ una storia lunga, Presidente… Ma se sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con lei. Ma l’avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio.

In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche righe gliele dovevo. In questi vent’anni di difficile transizione l’Albania s’è inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e testa alta. L’Albania non ha più pazienza né comprensione per le umili azioni gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci.

Questa “battuta” mi sembra sia passata sottotono in questi giorni in cui infuria la polemica Bertolaso , ma si lega profondamente al pensiero e alle azioni di uomini come Berlusconi e company, pensieri e azioni in cui il rispetto per le donne è messo sotto i piedi ogni giorno, azioni che non sono meno criminali di quelli che sfruttano le ragazze albanesi, sono solo camuffate sotto gesti galanti o regali costosi mi vergogno profondamente e chiedo scusa anch’io a tutte le donne albanesi

Merid Elvira Dones



Il libro di M.E.D., Sole bruciato (Feltrinelli, 2001) racconta la vita di uomini e donne smarriti dopo il crollo del regime comunista albanese e i sogni distrutti sui marciapiedi d’Europa da un male che nessuno pensava di avere dentro. Un male che esplode quando le speranze si infrangono definitivamente, con la violenza senza limiti, la follia dei soldi facili, l’annullamento di qualsiasi etica umana. La voce narrante che apre il romanzo è quella di Leila, una giovane donna covinta a venire in Italia per diventare stilista e obbligata a prostituirsi. Leila torna a casa morta, rinchiusa in una bara, dopo tre anni di scomparsa misteriosa (per i suoi parenti) e di martirio. Come nei racconti epici, è lei a tirare le fila delle numerose storie che si intersecano: la sua e quelle di Soraja, di Elena, di Laura e di altre ragazze, tutte con lo stesso destino.

sabato 15 maggio 2010

Le mie prigioni cinesi


di Wu Lihong

Wu Lihong è un ambientalista cinese che negli ultimi tre anni ha vissuto da detenuto speciale nella prigione di Dingshan, a Yishing, nella provincia di Jiangsu. Arrestato nell’aprile del 2007 per aver denunciato l’inquinamento del lago Taihu, è stato rilasciato il mese scorso e ha deciso di raccontare a “Le Monde” le condizioni della sua detenzione.

“È estremamente difficile per me ripensare alla mia prigionia”, dice Wu. In questi tre anni l’ecologista, sottoposto al cosiddetto “controllo disciplinare”, è stato rinchiuso in una stanza di venti metri quadrati, senza finestre, dotata di due telecamere e senza possibilità di comunicare con chiunque. “Se un altro prigioniero osava parlarmi, veniva punito con dieci schiaffi e un prolungamento della detenzione di tre giorni. Non potevo nemmeno passare dove gli altri passavano”.

Il regime di controllo disciplinare era duro: “Si era obbligati a correre in cerchio sotto il sole fino allo sfinimento, mangiare dentro a delle ciotole sul pavimento e finire in meno di un minuto e mezzo. Ma spesso, mentre si mangiava, si era costretti a cantare. Chi era sottoposto al controllo disciplinare spesso finiva per morire di fame”.

Wu non poteva possedere carta e penna, né leggere libri o giornali. La violenza fisica e verbale era costante e i carcerieri lo hanno fatto picchiare da un giovane detenuto che così ha ottenuto la condizionale. “Sono stato minacciato e picchiato”, racconta l’ambientalista.
Nessuno ha voluto commentare il suo racconto.

L’articolo di “Le Monde”

Arrêté en avril 2007 pour avoir dénoncé la pollution du lac Taihu, dans le Jiangsu, l'écologiste chinois Wu Lihong a choisi de témoigner sur ses conditions de détention dans la prison de Dingshan, à Yishing, dans la province du Jiangsu.

Les conditions de détention
Il est extrêmement difficile pour de moi de me remettre de ma détention, surtout psychologiquement. Pendant trois ans, j'ai été confiné dans une pièce sans fenêtre de seulement 20 m2, où il était strictement interdit de me parler. Si des prisonniers osaient me parler, ils étaient punis de dix claques dans le visage et une déduction de point, ce qui équivaut à un délai supplémentaire de trois jours à compter de la date de sortie d'origine. Je n'étais pas autorisé à me déplacer là où d'autres prisonniers le pouvaient.
Deux caméras étaient installées sur le mur, j'étais donc surveillé de près par cinq ou six prisonniers. Ces "gardiens" étaient principalement des anciens chefs corrompus du Bureau de sécurité publique, ou du système judiciaire. Certains d'entre eux, qui avaient pu lire mon verdict, étaient d'ailleurs convaincus que ces comptes-rendus écrits étaient fabriqués de toute pièce.
En prison, j'ai été placé sous la procédure dite de yanguan ("contrôle disciplinaire"). Je n'aurais pas dû être affecté à cette prison de ma localité, puisque j'y avais été en détention provisoire, mais ils ont quand même décidé de m'y garder, afin de pouvoir me contrôler. Ils disaient que c'était approuvé par le gouvernement.
En prison, on m'a dit de me comporter de telle manière que je puisse être libéré un an et demi plus tôt. Mais en réalité cela ne s'est pas produit, puisque je n'ai pas cédé à leurs demandes en admettant toutes mes fautes et en baissant la tête. J'avais été condamné à trois ans de prison, et je n'ai obtenu aucune remise de peine jusqu'à la fin. Cependant, presque tous mes codétenus ont obtenu des remises plus ou moins importantes. Je suis le seul cas particulier,
apparemment.

Le "contrôle disciplinaire" (yanguan)
J'ai été placé sous la procédure de yanguan ("contrôle disciplinaire"), qui est illégale, du 12 novembre 2007 à fin mars 2010. Voici les divers choses que l'on vous impose :
- Courir en cercles sous le soleil jusqu'à l'usure. Lorsque vous êtes à bout, deux personnes vous soutiennent et vous forcent à continuer.
- Manger tous ses repas en moins d'une minute et demie. Les bols placés à même le sol, on doit crier "1, 2, 3", puis approcher. Vous êtes autorisés à manger autant que vous pouvez en une minute et demie. Tout en mangeant, vous êtes parfois obligés de chanter. Ainsi, tous ceux placés sous "contrôle disciplinaire" sont voués à mourir de faim.
- Pour aller aux toilettes ou boire de l'eau, il faut le faire savoir et obtenir la permission de le faire.
- Il est interdit de lire des livres ou des journaux. Vous n'êtes pas autorisés à avoir un stylo ou un papier avec vous à tout moment.
La violence verbale est permanente. Les matons me disaient : "Ce n'est pas nous qui allons te faire du mal. Mais on peut demander à n'importe quel détenu de le faire." Ils récompenseront ensuite ce même détenu avec une remise de peine. Dans mon cas, ils ont demandé à un prisonnier particulier de me frapper, un jeune criminel violent du Nord-Est de la Chine.
Il a par la suite obtenu une libération conditionnelle, ce qui est encore contraire à la loi, dans laquelle un criminel violent ne peut jamais obtenir de libération conditionnelle, encore moins sans permission du lieu où il a été jugé, c'est-à-dire dans son cas, le Nord-Est de la Chine.

Les relations sociales restreintes
Le 5 ou 6 novembre 2007, le personnel pénitentiaire a proposé de négocier avec les membres de ma famille pour une libération conditionnelle, en contrepartie d'un versement d'argent. Ma famille a refusé.
Plus tard, ils ont senti que mon cas était beaucoup plus compliqué, ils n'ont jamais plus fait ce genre de proposition. Concernant les autres détenus, d'après ce que j'ai entendu, la plupart des familles versent dans les 20 000 à 30 000 yuans (2 000 à 3 000 euros) pour obtenir une remise de peine.
Il y avait environ 5 000 prisonniers là où j'étais détenu, et aucun d'entre eux n'était censé échanger ne serait-ce qu'une phrase avec moi. Comme je le disais, deux caméras étaient installées pour me surveiller.
Contrairement à d'autres détenus je n'ai pas eu droit à des visites d'amis ou de camarades de classe entre 2007 et 2010. Je n'ai pas été autorisé à passer d'appels téléphoniques. Cependant, juste avant la date de sortie on m'a accordé un appel, donc j'ai finalement pu le faire une fois.
Les visites des membres de ma famille se déroulaient ainsi :
1) Deux employés doivent enregistrer notre conversation, par écrit et sur cassette.
2) La discussion doit se dérouler seulement en mandarin – aucun dialecte n'est autorisé !
3) En hiver 2008 (peut-être lors de la Fête du Printemps), alors qu'il neigeait beaucoup, ma famille s'est rendue à la prison pour me rendre visite. Ma femme a seulement eu le temps de me dire une phrase (moi, une ou deux), puis le téléphone a été coupé. C'est tout. Ainsi, la visite de trente minutes a duré seulement une ou deux minutes. En réalité ce scénario se produisait très souvent.

La souffrance physique
J'ai été plus chanceux que certains, qui ont dû subir des coups de matraques électriques (un coup au moins, parfois quatre), des gaz irritant ou le "banc du tigre". Si un membre du personnel pénitentiaire nous parle, nous devons nous accroupir, en flagrante violation avec les lois de la RPC. Il n'y a aucune dignité du prisonnier.

La confession forcée
Lors de ma détention par le Bureau de la sécurité publique en avril 2007 [après son arrestation], j'ai été emmené dans une pièce spécialement conçue pour la torture et les soi-disants aveux. C'est une chambre avec des parois en caoutchouc pour empêcher que le détenu se suicide.
J'y ai été menacé avec les arguments suivants : "On va simplement mettre quelques kilos d'héroïne à ton domicile, et tu seras condamné" ; "On a des injections spéciales. Tu meurs, et le diagnostic est celui d'une hémorragie cérébrale. Tu veux essayer ?"
Autres détails de la condamnation forcée :
1) des gardes-à-vue de douze heures
2) j'ai été menacé avec des aiguilles
3) j'ai été fouetté avec des bâtons souples (la chemise était couverte de sang, mais chaque fois que je voulais la montrer au tribunal, on me l'a refusé)
4) j'ai été brûlé aux mains par des cigarettes allumées
5) j'ai reçu des coups de pieds au ventre…

Le procès
Quand j'ai voulu protester, on m'a dit que tout ce que le Bureau de la sécurité publique avait fait était licite. Ils peuvent faire appel à de faux témoins, et avoir de fausses preuves autant qu'ils veulent. La Cour a tenu un procès à huis clos: deux cent places étaient disponibles mais mes parents ont été interdits de séance. Le procès a duré jusqu'à 21 heures. On s'était "occupé" de mon micro et celui de mon avocat durant tout le procès : ils étaient coupés.
Nous avons exigé la présence du procureur pour un contre-interrogatoire, mais personne ne s'est présenté.

(Propos recueillis par Brice Pedroletti (traduction : Marine Campagne)

sabato 8 maggio 2010

Otto per Mille, Radicali: "TREMONTI, QUEST'ANNO DILLO PRIMA!"

Mario Staderini e Michele De Lucia, segretario e tesoriere di Radicali Italiani, e Claudio Pontesili, segretario di anticlericale.net hanno scritto ieri una lettera al ministro Tremonti, in cui si chiede che venga dichiarato anticipatamente come verranno utilizzati i soldi che i contribuenti decidono di destinare allo Stato.

Ogni anno lo Stato ricava circa 120 milioni da questa scelta dei cittadini. Secondo la legge quei soldi dovrebbero essere spesi per la fame nel mondo, le calamità naturali, l’assistenza ai rifugiati e la conservazione dei beni culturali. Invece questo denaro viene speso in gran parte sottratto alle finalità di legge e per il resto destinato restaurare gli immobili ecclesiastici che dovrebbe essere pagato con il miliardo di euro incassato dalla CEI.
L'iniziativa dei firmatari ha suscitato l'interesse della rete, è stata ripresa dal blogger Metilparaben (metilparaben.blogspot.com) e ha preso il via una mobilitazione di cittadini che stanno scrivendo al al Ministro Tremonti, chiedendo una dichiarazione anticipata sulla destinazione di quei fondi, rivendicando il loro diritto a "mettere la crocetta sullo Stato",
Le adesioni vengono raccolte sulla pagina facebook "8x1000: Tremonti, quest'anno dillo prima!"
Nel corso delle prime 24 ore almeno 1000 persone hanno già scritto al Ministro e il numero cresce di ora in ora.
PER PARTECIPARE ALL'INIZIATIVA SCRIVI DIRETTAMENTE AL MINISTRO TREMONTI
tremonti_g@camera.it

Signor Ministro,
in vista della scelta di destinazione dell’8 per mille irpef, Le chiedo di farmi sapere come lo Stato intende spendere i fondi riservati alla quota statale, ed in particolare:
-se anche quest’anno 80 milioni del fondo statale saranno “rubati” rispetto alle loro originali finalità;
-quale sarà la ripartizione tra le quattro diverse finalità previste dalla legge, ed in particolare quali quote si prevedono per il terremoto in Abruzzo, la fame nel mondo e l’assistenza ai rifugiati;
- se tra gli interventi per il restauro dei beni culturali saranno esclusi quelli relativi ad immobili ecclesiastici, già finanziati con il miliardo di euro annualmente versato alla Conferenza episcopale italiano.

IL TESTO INTEGRALE DELLA PRIMA LETTERA INVIATA AL MINISTRO MARONI
Al Ministro dell’economia e delle finanze??
Gentile Ministro,??
in questi giorni sedici milioni di italiani sono chiamati a compiere, insieme alla dichiarazione dei redditi, la scelta relativa alla destinazione dell’otto per mille dell’Irpef.??
Le nostre considerazioni sul carattere davvero poco trasparente del meccanismo di ripartizione previsto dalla legge, soprattutto per quanto riguarda la destinazione delle quote dei cittadini che non esprimono una scelta, Le sono certamente note, e su questo non mancherà occasione di proseguire il confronto e lo scontro – anche in ciò sta la nobiltà della politica – tra la Sua posizione e la nostra.
Come sa, riteniamo – da radicali quali siamo – che le leggi, anche quelle che si ritengono più ingiuste o sbagliate, vadano, fin tanto che sono in vigore, rispettate ed attuate nel migliore dei modi, e proprio per questo ci rivolgiamo a Lei: perché possa fare tutto quanto è nelle Sue possibilità – e nei doveri del Suo Ufficio – per mettere gli italiani in condizioni di compiere una scelta pienamente informata, almeno per quanto riguarda l’impiego della quota di otto per mille di spettanza dello Stato, pari a oltre 120 milioni di euro ogni anno.??
Come Ella sa, la legge prevede che lo Stato debba destinare i suoi fondi ad interventi straordinari per combattere la fame nel mondo, affrontare le calamità naturali, garantire l’assistenza ai rifugiati e la conservazione dei beni culturali; ciononostante, in questi anni i Governi sono spesso venuti meno rispetto a quanto previsto dalle norme, sia distogliendo attraverso le leggi finanziarie somme importanti - da ultimo, 80 milioni di euro - alla quota otto per mille dello Stato, sia destinando i rimanenti fondi statali alla ristrutturazione di immobili ecclesiastici, il che, stando a quanto previsto dalla legge, dovrebbe rientrare invece nella quota di otto per mille (circa un miliardo di euro) che ogni anno lo Stato versa alla Conferenza episcopale italiana.??
Ci appelliamo dunque a Lei, chiedendoLe di adoperarsi affinché sia rispettato il diritto dei cittadini a sapere come saranno spesi i fondi statali, di modo che ciascuno possa scegliere consapevolmente se destinare il proprio otto per mille allo Stato o ad altri enti. Per questo, pur sapendo che l’assegnazione dei fondi avviene formalmente in tempi successivi, Le chiediamo di rendere noto all’opinione pubblica l’orientamento Suo e del Governo sui seguenti aspetti:??
- se anche quest’anno gli 80 milioni di euro del fondo statale saranno sottratti alle loro finalità originarie;?
- quale sarà la ripartizione tra le quattro diverse destinazioni previste dalla legge, ed in particolare se siano previste quote, e di quale entità, per il terremoto in Abruzzo, la fame nel mondo e l’assistenza ai rifugiati;?
- se tra gli interventi per il restauro dei beni culturali saranno esclusi quelli relativi ad immobili ecclesiastici.
??In attesa di un Suo cortese riscontro, l’occasione ci è gradita per porgerLe i più cordiali saluti
Mario Staderini – Segretario di Radicali Italiani
Carlo Pontesilli – Segretario di Anticlericale.net
Michele De Lucia – Tesoriere di Radicali Italiani e di Anticlericale.net

martedì 4 maggio 2010

Perché il Tibet viva

I cinesi hanno tolto ai tibetani la loro terra e la loro libertà. Adesso Pannella vuole togliere loro anche la speranza?


di Carlo Buldrini

Venerdì 30 aprile è andata in onda, su “Radio Radicale” un’edizione straordinaria della conversazione che settimanalmente Marco Pannella conduce solitamente con il direttore Massimo Bordin. Venerdì, la conversazione, moderata da Paolo Martini, consisteva in un interessantissimo confronto con Piero Verni, esperto conoscitore di Tibet, le cui posizioni sono divergenti da quelle di Pannella e dei radicali; anche se, naturalmente, Verni è un sostenitore della causa tibetana. Per dirla in termini molto grossolani, obiettivo comune, ma da conseguire percorrendo strade diverse.
Carlo Buldrini, giornalista anche lui conoscitore ed esperto di quella parte di mondo che comprende Cina, Tibet, India, attraverso il nostro amico e compagno Francesco Pullia, ci ha fatto pervenire un intervento critico nei confronti di Pannella, ma certamente utile e prezioso per la riflessione di tutti. All’intervento di Buldrini segue una risposta dello stesso Pullia. Domani “Notizie Radicali” pubblicherà un intervento di Verni. Nel frattempo se altri vorranno intervenire e arricchire dibattito e confronto, benvenuti. (Va.Ve.)


Quello avvenuto a “Radio Radicale” tra Marco Pannella e Piero Verni - sul tema del Tibet - è stato un utile dibattito. Se fosse stato un incontro di boxe, Pannella l’avrebbe vinto ai punti. Ma non ci sono stati pugni. E’ stato un incontro rigorosamente nonviolento. Piero Verni è stato molto gentile. A volte troppo. Di fronte al florilegio di distorsioni e mistificazioni di Marco Pannella, Verni, solo raramente, ha reagito. Pannella ha potuto così far prevalere dialetticamente la sua nota posizione politica riguardante il Tibet. Una linea politica, nei fatti, filo-cinese e contraria alla volontà e agli interessi del popolo tibetano. Vediamo perché.


Il ritornello è sempre lo stesso: il “Manifesto di Ventotene” del 1941 di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Quest’ultimo paragonato da Pannella a “Ciro il Grande” (sic!). I tibetani, dopo 60 anni di resistenza contro l’occupazione cinese, dopo 1.200.000 morti, dopo aver visto la loro intera civilizzazione venire rasa al suolo, dopo il carcere, le torture e le condanne a morte dei dissidenti, dovrebbero adesso imparare a memoria il “Manifesto di Ventotene” (così come dovettero fare, durante la Rivoluzione Culturale, con il “Libretto Rosso” di Mao) e rinunciare al loro sacrosanto diritto all’indipendenza. Come Rossi e Spinelli che volevano “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali”, oggi, secondo Pannella, i tibetani dovrebbero andare nella stessa direzione auspicando quello che già esiste: una Grande Cina indivisa, che schiaccia e opprime i paesi conquistati con la forza delle armi e che rivendicano la loro perduta indipendenza. Mentre Rossi e Spinelli sognavano un’Europa che non c’era, Pannella chiede per la Repubblica popolare cinese lo status quo. Rossi e Spinelli volevano creare un “potere democratico europeo” contro i regimi totalitari di allora. Pannella chiede ai tibetani di rinunciare alla loro lotta per l’indipendenza per poter rimanere sotto il giogo del regime totalitario comunista esistente. Pannella non ha dubbi. Teorizza la superiorità dell’autonomia “contro il disastro dell’indipendenza”. Dice: “La richiesta di indipendenza nazionale non regge più neppure nei paesi del Terzo mondo”. Le sue argomentazioni sono risibili. “I cinesi – dice – temono molto di più la richiesta di autonomia, perché la potrebbero chiedere anche gli altri”. E l’indipendenza, allora? Non la potrebbero “chiedere anche gli altri”? Per sostenere la superiorità dell’autonomia, Pannella afferma che “i movimenti indipendentisti sono necessariamente anche violenti”. Evita così di cogliere la straordinarietà della lotta dei tibetani. Dal luglio del 1972, e cioè dal famoso messaggio registrato con cui il Dalai Lama metteva fine alla lotta armata riorganizzatasi nel Mustang, i tibetani lottano con la nonviolenza. Ed è grazie a questi 37 lunghi anni di lotta nonviolenta che i tibetani hanno conquistato la simpatia e l’appoggio morale della società civile di tanti paesi del mondo.


Sulla situazione odierna all’interno del Tibet, Pannella sembra essere più aggiornato di Verni (fermo a un viaggio del 1987). Verni parla di un turnover dei cinesi in Tibet, dopo soli 7 anni. Ha ragione Pannella: non è più così. “Hic manebimus optime”, sembra essere lo slogan anche dei cinesi hanno trapiantati a Lhasa. Per scrivere l’ultimo capitolo del mio libro (“Lontano dal Tibet”, 2° ediz. 2008, Lindau) ho visitato la capitale del Tibet tre volte. I viaggi sono tutti avvenuti negli anni Duemila. Sono riuscito anche a mettere le mani sulla documentazione relativa al nuovo piano regolatore di Lhasa. La pianificazione urbanistica della città prevede la completa distruzione dell’identità culturale tibetana. I quartieri tibetani costituiranno il due per cento dell’intera area edificata. Già oggi la “città vecchia” è stata ridotta a meno di un chilometro quadrato di superficie. E’ circondata, a ovest, dagli headquarters della People’s Armed Police. A sud, dall’enorme area destinata alla base militare della People’s Liberation Army (una superficie quasi doppia di quella dell’intera “città vecchia”). A est, dagli uffici del Public Security Bureau, della Tibetan Autonomous Region e del governo della prefettura di Lhasa. Infine, a nord, da casematte militari e dall’infame carcere di Drapchi. Così schiacciati, i tibetani di Lhasa rischiano la definitiva scomparsa. Tutta la pianificazione urbanistica voluta da Pechino mira a favorire la colonizzazione permanente del Tibet da parte dei cinesi di etnia han. Per i 200.000 uomini (ma forse sono molti di più) dell’Esercito di liberazione popolare sono state fatte arrivare centinaia e centinaia di prostitute (in realtà giovani ragazze poverissime) dalla vicina provincia del Sichuan. La ferrovia Golmud-Lhasa ha fatto sentire i coloni cinesi della capitale del Tibet meno isolati. Negozi, ristoranti, bar, karaoke, discoteche sono sorti dappertutto. I cinesi sono in Tibet per rimanervi. E cosa propone Pannella di fronte a questa drammatica situazione? Lo “ius soli” da contrapporre allo “ius sanguinis” e cioè la difesa dei “diritti” dei coloni cinesi contro la disperata protesta dei tibetani. Nei 30 anni in cui ho vissuto in India ho partecipato a un centinaio di manifestazioni assieme ai tibetani. Lo slogan più gridato da questi ultimi è sempre stato: “Choro choro, Tibbat choro. Bhago bhago, Chiniya bhago”. (Fuori, fuori – fuori dal Tibet. A casa, a casa - cinesi andatevene a casa). Non proprio un grido in favore dello “ius soli”. Chiedendo ai tibetani di rinunciare alla richiesta di indipendenza, Pannella sembra voler completare l’opera portata avanti dal governo di Pechino. I cinesi hanno tolto ai tibetani la loro terra e la loro libertà. Adesso Pannella vuole togliere loro anche la speranza.


Pannella afferma che “gli stati nazionali non possono più fornire in termini di libertà e di benessere quello che hanno potuto offrire in altri contesti”. In soldoni ci dice che, nel mondo di oggi, da soli, non si va da nessuna parte. Ma nessun tibetano pensa oggi di fare ritorno allo “splendido” isolamento del passato. Ho discusso spesso questa cosa con i giovani tibetani dell’esilio in India. “Se un paese ci deve proprio annettere, che sia l’India a farlo” mi dicevano, usando il paradosso. Riprendendo una cosa detta spesso dal Dalai Lama, anche loro sostengono che il rapporto tra India e Tibet è quello tra “guru” e “chela” (discepolo). L’India, ricordano, ha dato al Tibet il buddhismo. L’India, dicono, ha offerto a loro e al Dalai Lama rifugio politico. L’India, aggiungono, è un paese democratico così come lo è il Tibet prefigurato nella bozza della loro costituzione. Un Tibet indipendente, pensano, entrerebbe inevitabilmente a far parte dei paesi della Saarc (l’Associazione dei Paesi dell’Asia meridionale) e la sua economia potrebbe così decollare. I giovani tibetani dell’esilio mostrano di avere le idee molto chiare. Insensato sarebbe chiedere loro di abbandonare i paesi democratici che li hanno accolti, per fare adesso ritorno in un paese retto da un regime totalitario.


Nel dibattito con Verni, Pannella riduce la figura di Gandhi a quella di un semplice “avvocato inglese”. E’ triste sentire il leader di un partito che ha l’effige di Gandhi nella propria bandiera, ridurre la figura del Mahatma a una semplice caricatura. Gandhi – dice Pannella – aveva la stessa ideologia del Viceré e quindi, quest’ultimo, non poteva che accettare il dialogo. L’intera lotta del popolo indiano per l’indipendenza è così ridotta da Pannella all’inevitabile accordo tra due “inglesi”: il Viceré e Gandhi stesso. Pannella ci fa sapere di “aver spiegato al Dalai Lama i limiti storici di Gandhi perché, morto lui, è finito tutto”. Qui si entra nel grottesco. Quali limiti storici? Gandhi ha vinto la sua battaglia. L’obiettivo del “purna swaraj” (la “completa indipendenza”) lo ha raggiunto in pieno. E’ stato poi lo stesso Gandhi ad affidare a Jawaharlal Nehru le sorti dell’India indipendente. E Gandhi conosceva perfettamente le idee del pandit Nehru. Probabilmente perché Gandhi stesso si rendeva conto che alcune delle sue stesse idee per la società indiana erano del tutto impraticabili. Come, per esempio, quando sosteneva che per abolire gli “scavengers” (i pulitori di latrine) ogni indiano, di buon mattino, sarebbe dovuto andare con il proprio vaso da notte nei campi per disperdere personalmente le proprie feci. Caro Piero, se il Mahatma Gandhi potesse vedere l’India di oggi, penso ne sarebbe in larga misura soddisfatto. Vedrebbe un paese - a più di 60 anni dall’indipendenza - retto da una solida democrazia parlamentare (malgrado una guerra con la Cina e tre guerre con il Pakistan), un paese con una libera informazione, una magistratura indipendente, dei liberi sindacati. Ai “problemi del traffico”, credimi, si troverà un rimedio.


Durante il colloquio con Pannella, Piero Verni dice di essere forse il giornalista che ha intervistato per più ore il Dalai Lama. Personalmente, per 30 anni, ho “intervistato” invece i profughi tibetani in esilio in India. Senza il loro aiuto non avrei potuto scrivere nemmeno una pagina del mio libro. Ho conosciuto tre generazioni di questi profughi. Non solo quelli di McLeod Ganj (Dharamsala) e Majnu ka Tilla (Delhi), ma anche quelli di Bylakuppe e Hansur nel sud dell’India dove ho soggiornato a lungo. Pannella afferma che “l’emigrazione (tibetana) nel sud dell’India ha offerto migliori condizioni finanziarie e imprenditoriali” e quindi questi profughi “tendono a essere soddisfatti della loro condizione” rinunciando così a interessarsi dei problemi che affliggono il loro paese d’origine. E’ falso. A Bylakuppe, soprattutto tra i monaci dei grandi monasteri “ricostruiti” da quelle parti, ho riscontrato le posizioni più radicali. Una conferma ce la dà Jamyang Norbu. Ospite di Shingza Rinpoche a Bylakuppe, l’estate scorsa Norbu ha presentato ai tibetani residenti in quelle zone la pubblicazione “Independent Tibet – The Facts”. Scrive Norbu a proposito di questi incontri: “I don’t think I can adequately describe the incredibile enthusiasm of the monks, lay people, college students, schoolchildren and new arrivals who attended these talks. The near unanimous fervour and eagerness of everyone to discuss the issue of Tibetan independence, cought me completely by surprise”. E’ proprio nel sud dell’India che i profughi tibetani, forse a causa della lontananza fisica dai condizionamenti di Dharamsala, chiedono con maggior forza l’indipendenza. (Va ricordato a questo proposito che è proprio qui, nel Sud India, che tra la comunità tibetana serpeggiano anche le posizioni pro-Shugden in contrasto con le direttive del Dalai Lama). Pannella, tutto preso dal suo fitto colloquiare con “Rinpòce” (qualcuno gli dica che si pronuncia “Rinpocé”) e cioè con il “kalon tripa” Samdhong Rinpoche, il primo ministro del governo tibetano in esilio, mostra di ignorare completamente quello che chiedono e vogliono i tibetani in esilio (per non parlare poi dei sei milioni di tibetani che vivono all’interno del Tibet).


A conclusione della “Conversazione straordinaria con Marco Pannella”, Piero Verni delinea una strategia politica. Prima si mettano dei “sassolini” nell’ingranaggio della Repubblica popolare cinese e solo successivamente – a cambiamento avvenuto in Cina – si affronterà il problema dell’autonomia o dell’indipendenza tibetana. Sbagliato. E’ proprio la lotta per l’indipendenza (come ha mostrato l’eroico 2008) a costituire il sasso che i tibetani possono mettere negli ingranaggi di Pechino, sperando che anche altri facciano altrettanto. Ho detto che quello tra Pannella e Verni è stato un utile dibattito. Utile perché ha fatto capire che i sostenitori della causa tibetana debbano a questo punto inevitabilmente dividersi. Dividersi (anche in vista del “Kalon Tripa 2011”) tra chi si batte per l’indipendenza del Tibet e chi sostiene invece le ragioni dell’autonomia. Le due posizioni sono ormai inconciliabili. Si dovrà poi cercare l’unità tra tutti coloro che ritengono la strada dell’indipendenza essere l’unica percorribile. E anche la comunità tibetana residente in Italia dovrà ormai uscire dall’ambiguità. Dovrà spiegarci cosa intende dire quando, nelle strade e nelle piazze italiane, grida: “Tibet – Libero!”. “Libero” vuole dire Tibet “autonomo” o Tibet “indipendente”?




Perché il Tibet viva

di Francesco Pullia

Desidero vivamente ringraziare Carlo Buldrini, scrittore e saggista di grande levatura nonché uno tra i più seri e preparati conoscitori del subcontinente indiano e dell'area himalayana (consiglio caldamente la lettura dei suoi libri “Nel segno di Kali. Cronache indiane”, Lindau, 2008; “Lontano dal Tibet. Storia di una nazione in esilio”, Lindau, 2006; “In India e dintorni”, Piemme, 1999), per l'appassionato e provocatorio apporto che, anche se talvolta con toni a mio avviso troppo aspri ed eccessivi, ha fornito al dibattito in corso sul futuro (ma soprattutto sul presente) del Tibet e dei tibetani.

Buldrini coglie al volo l'occasione dell'interessante dibattito tra Marco Pannella e Piero Verni, trasmesso da “Radio Radicale” venerdì 30 aprile e da reperire e ascoltare con attenzione nel sitoweb dell'emittente, per riproporre la questione se la scelta autonomistica perorata dal Dalai Lama nonché la strada intrapresa dal governo tibetano in esilio di un colloquio con la satrapia di Pechino (fermo restando che per dialogare bisogna almeno essere in due e non da soli) siano davvero giuste, efficaci e perseguibili alla luce dei reiterati insuccessi finora ottenuti.


Si chiede, in particolare, se non sia controproducente e mortificante per i tibetani continuare ad attendere invano un fantomatico Godot mentre ogni giorno che passa la Cina comunista si fa sempre di più arrogante, prepotente, imperialista, colonizzatrice, foriera di genocidi (nell'altopiano himalayano come nel Turkestan orientale degli uiguri), negatrice dentro e fuori i propri confini di diritto e diritti, sostenitrice delle peggiori tirannie (si pensi, tanto per essere espliciti, ai rapporti con l'Iran di Ahmadinejad).

Senza mettere in discussione la nonviolenza, che è e deve restare l'unico strumento di lotta politica, ci si interroga se, in un contesto come quello cinese, la prospettiva sovranazionale, quale si evince dal “Manifesto di Ventotene”, possa attuarsi senza rivelarsi in realtà legittimazione dello status quo, quindi acquiescente ad un regime totalitario che tra i vari primati negativi detiene quello delle pene capitali.

La validità e grandezza della nonviolenza sta nella sua mutevolezza, nella sua flessibilità, nella sua capacità di dimostrarsi vincente e determinante in situazioni diverse.

Quando ci si riferisce alla questione tibetana, dovrebbe risultare a tutti evidente che ci si riferisce ad un quadro estremamente differente da quello in cui si trovò ad operare Gandhi in India.

I colonialisti inglesi, anch'essi non poco efferati (valga tra tutte la strage ordinata il 13 aprile 1919 dal generale Dyer ad Amritasr dove milleseicento proiettili, in dieci minuti, uccisero trecentosettantanove persone, tra cui un numero impressionante di donne e bambini, ferendone millecentotrentasette), non possono minimamente essere paragonati ai cinesi per il semplice motivo che questi ultimi non possiedono affatto la concezione giuridica degli inglesi.
Nonostante tutto, Gandhi lanciò, con fermezza, la sua sfida non perché l'India acquistasse una propria autonomia all'interno del dominio britannico ma perché fosse indipendente a tutti effetti.


Quit India, lasciate l'India, andatevene. A maggior ragione bisognerebbe che il mondo intero aiutasse i tibetani quando agli invasori cinesi, agli aguzzini, in divisa e non, che hanno stravolto il paese, oppongono il loro Quit Tibet.


Che valore attribuire, allora, alla prospettiva sovranazionale? Non certo quella di avallare la persistenza di una gigantesca nazione che fagocita etnie e stati nel nome della propria supremazia.


La prospettiva sovranazionale deve, invece, riferirsi ad un ambito ultranazionale, in cui cioè più stati, accomunati da un'identica base democratica, convergano in un organismo unitario che superi barriere e confini. In Cina, in questa Cina, ci sono i presupposti perché ciò accada? No, almeno finché non si sgretolerà il mausoleo di Mao. Utopia? No. Bisogna che si diffonda la consapevolezza che quanto avvenuto nell'ex Unione sovietica può e deve ripetersi in Cina.


Perché accada è, però, necessario che si aiutino concretamente le resistenze tibetane, uigure, dei dissidenti cinesi tramite un satyagraha mondiale supportato anche da dieci, cento, mille Radio Londra. La Cina è un colosso con i piedi d'argilla, minacciato, tra l'altro, al suo interno da gravissimi problemi ambientali. Se fosse davvero saldo non vivrebbe nel terrore della libertà di comunicazione e informazione.

Autonomia o indipendenza, allora, per il Tibet? Non condivido affatto Buldrini quando afferma in modo apodittico che “i sostenitori della causa tibetana debbano a questo punto inevitabilmente dividersi” per “poi cercare l'unità tra tutti coloro che ritengono la strada dell'indipendenza l'unica percorribile”. Ritengo che i soli a dovere decidere del proprio presente e del proprio futuro siano i tibetani dentro e fuori il Tibet e che proprio per questo necessitino, ora più che mai, di non essere abbandonati. E, allora, si accenda e propaghi un satyagraha mondiale perché il Tibet viva.

(Fonte: Notizie Radicali)