martedì 4 maggio 2010

Perché il Tibet viva

I cinesi hanno tolto ai tibetani la loro terra e la loro libertà. Adesso Pannella vuole togliere loro anche la speranza?


di Carlo Buldrini

Venerdì 30 aprile è andata in onda, su “Radio Radicale” un’edizione straordinaria della conversazione che settimanalmente Marco Pannella conduce solitamente con il direttore Massimo Bordin. Venerdì, la conversazione, moderata da Paolo Martini, consisteva in un interessantissimo confronto con Piero Verni, esperto conoscitore di Tibet, le cui posizioni sono divergenti da quelle di Pannella e dei radicali; anche se, naturalmente, Verni è un sostenitore della causa tibetana. Per dirla in termini molto grossolani, obiettivo comune, ma da conseguire percorrendo strade diverse.
Carlo Buldrini, giornalista anche lui conoscitore ed esperto di quella parte di mondo che comprende Cina, Tibet, India, attraverso il nostro amico e compagno Francesco Pullia, ci ha fatto pervenire un intervento critico nei confronti di Pannella, ma certamente utile e prezioso per la riflessione di tutti. All’intervento di Buldrini segue una risposta dello stesso Pullia. Domani “Notizie Radicali” pubblicherà un intervento di Verni. Nel frattempo se altri vorranno intervenire e arricchire dibattito e confronto, benvenuti. (Va.Ve.)


Quello avvenuto a “Radio Radicale” tra Marco Pannella e Piero Verni - sul tema del Tibet - è stato un utile dibattito. Se fosse stato un incontro di boxe, Pannella l’avrebbe vinto ai punti. Ma non ci sono stati pugni. E’ stato un incontro rigorosamente nonviolento. Piero Verni è stato molto gentile. A volte troppo. Di fronte al florilegio di distorsioni e mistificazioni di Marco Pannella, Verni, solo raramente, ha reagito. Pannella ha potuto così far prevalere dialetticamente la sua nota posizione politica riguardante il Tibet. Una linea politica, nei fatti, filo-cinese e contraria alla volontà e agli interessi del popolo tibetano. Vediamo perché.


Il ritornello è sempre lo stesso: il “Manifesto di Ventotene” del 1941 di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Quest’ultimo paragonato da Pannella a “Ciro il Grande” (sic!). I tibetani, dopo 60 anni di resistenza contro l’occupazione cinese, dopo 1.200.000 morti, dopo aver visto la loro intera civilizzazione venire rasa al suolo, dopo il carcere, le torture e le condanne a morte dei dissidenti, dovrebbero adesso imparare a memoria il “Manifesto di Ventotene” (così come dovettero fare, durante la Rivoluzione Culturale, con il “Libretto Rosso” di Mao) e rinunciare al loro sacrosanto diritto all’indipendenza. Come Rossi e Spinelli che volevano “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali”, oggi, secondo Pannella, i tibetani dovrebbero andare nella stessa direzione auspicando quello che già esiste: una Grande Cina indivisa, che schiaccia e opprime i paesi conquistati con la forza delle armi e che rivendicano la loro perduta indipendenza. Mentre Rossi e Spinelli sognavano un’Europa che non c’era, Pannella chiede per la Repubblica popolare cinese lo status quo. Rossi e Spinelli volevano creare un “potere democratico europeo” contro i regimi totalitari di allora. Pannella chiede ai tibetani di rinunciare alla loro lotta per l’indipendenza per poter rimanere sotto il giogo del regime totalitario comunista esistente. Pannella non ha dubbi. Teorizza la superiorità dell’autonomia “contro il disastro dell’indipendenza”. Dice: “La richiesta di indipendenza nazionale non regge più neppure nei paesi del Terzo mondo”. Le sue argomentazioni sono risibili. “I cinesi – dice – temono molto di più la richiesta di autonomia, perché la potrebbero chiedere anche gli altri”. E l’indipendenza, allora? Non la potrebbero “chiedere anche gli altri”? Per sostenere la superiorità dell’autonomia, Pannella afferma che “i movimenti indipendentisti sono necessariamente anche violenti”. Evita così di cogliere la straordinarietà della lotta dei tibetani. Dal luglio del 1972, e cioè dal famoso messaggio registrato con cui il Dalai Lama metteva fine alla lotta armata riorganizzatasi nel Mustang, i tibetani lottano con la nonviolenza. Ed è grazie a questi 37 lunghi anni di lotta nonviolenta che i tibetani hanno conquistato la simpatia e l’appoggio morale della società civile di tanti paesi del mondo.


Sulla situazione odierna all’interno del Tibet, Pannella sembra essere più aggiornato di Verni (fermo a un viaggio del 1987). Verni parla di un turnover dei cinesi in Tibet, dopo soli 7 anni. Ha ragione Pannella: non è più così. “Hic manebimus optime”, sembra essere lo slogan anche dei cinesi hanno trapiantati a Lhasa. Per scrivere l’ultimo capitolo del mio libro (“Lontano dal Tibet”, 2° ediz. 2008, Lindau) ho visitato la capitale del Tibet tre volte. I viaggi sono tutti avvenuti negli anni Duemila. Sono riuscito anche a mettere le mani sulla documentazione relativa al nuovo piano regolatore di Lhasa. La pianificazione urbanistica della città prevede la completa distruzione dell’identità culturale tibetana. I quartieri tibetani costituiranno il due per cento dell’intera area edificata. Già oggi la “città vecchia” è stata ridotta a meno di un chilometro quadrato di superficie. E’ circondata, a ovest, dagli headquarters della People’s Armed Police. A sud, dall’enorme area destinata alla base militare della People’s Liberation Army (una superficie quasi doppia di quella dell’intera “città vecchia”). A est, dagli uffici del Public Security Bureau, della Tibetan Autonomous Region e del governo della prefettura di Lhasa. Infine, a nord, da casematte militari e dall’infame carcere di Drapchi. Così schiacciati, i tibetani di Lhasa rischiano la definitiva scomparsa. Tutta la pianificazione urbanistica voluta da Pechino mira a favorire la colonizzazione permanente del Tibet da parte dei cinesi di etnia han. Per i 200.000 uomini (ma forse sono molti di più) dell’Esercito di liberazione popolare sono state fatte arrivare centinaia e centinaia di prostitute (in realtà giovani ragazze poverissime) dalla vicina provincia del Sichuan. La ferrovia Golmud-Lhasa ha fatto sentire i coloni cinesi della capitale del Tibet meno isolati. Negozi, ristoranti, bar, karaoke, discoteche sono sorti dappertutto. I cinesi sono in Tibet per rimanervi. E cosa propone Pannella di fronte a questa drammatica situazione? Lo “ius soli” da contrapporre allo “ius sanguinis” e cioè la difesa dei “diritti” dei coloni cinesi contro la disperata protesta dei tibetani. Nei 30 anni in cui ho vissuto in India ho partecipato a un centinaio di manifestazioni assieme ai tibetani. Lo slogan più gridato da questi ultimi è sempre stato: “Choro choro, Tibbat choro. Bhago bhago, Chiniya bhago”. (Fuori, fuori – fuori dal Tibet. A casa, a casa - cinesi andatevene a casa). Non proprio un grido in favore dello “ius soli”. Chiedendo ai tibetani di rinunciare alla richiesta di indipendenza, Pannella sembra voler completare l’opera portata avanti dal governo di Pechino. I cinesi hanno tolto ai tibetani la loro terra e la loro libertà. Adesso Pannella vuole togliere loro anche la speranza.


Pannella afferma che “gli stati nazionali non possono più fornire in termini di libertà e di benessere quello che hanno potuto offrire in altri contesti”. In soldoni ci dice che, nel mondo di oggi, da soli, non si va da nessuna parte. Ma nessun tibetano pensa oggi di fare ritorno allo “splendido” isolamento del passato. Ho discusso spesso questa cosa con i giovani tibetani dell’esilio in India. “Se un paese ci deve proprio annettere, che sia l’India a farlo” mi dicevano, usando il paradosso. Riprendendo una cosa detta spesso dal Dalai Lama, anche loro sostengono che il rapporto tra India e Tibet è quello tra “guru” e “chela” (discepolo). L’India, ricordano, ha dato al Tibet il buddhismo. L’India, dicono, ha offerto a loro e al Dalai Lama rifugio politico. L’India, aggiungono, è un paese democratico così come lo è il Tibet prefigurato nella bozza della loro costituzione. Un Tibet indipendente, pensano, entrerebbe inevitabilmente a far parte dei paesi della Saarc (l’Associazione dei Paesi dell’Asia meridionale) e la sua economia potrebbe così decollare. I giovani tibetani dell’esilio mostrano di avere le idee molto chiare. Insensato sarebbe chiedere loro di abbandonare i paesi democratici che li hanno accolti, per fare adesso ritorno in un paese retto da un regime totalitario.


Nel dibattito con Verni, Pannella riduce la figura di Gandhi a quella di un semplice “avvocato inglese”. E’ triste sentire il leader di un partito che ha l’effige di Gandhi nella propria bandiera, ridurre la figura del Mahatma a una semplice caricatura. Gandhi – dice Pannella – aveva la stessa ideologia del Viceré e quindi, quest’ultimo, non poteva che accettare il dialogo. L’intera lotta del popolo indiano per l’indipendenza è così ridotta da Pannella all’inevitabile accordo tra due “inglesi”: il Viceré e Gandhi stesso. Pannella ci fa sapere di “aver spiegato al Dalai Lama i limiti storici di Gandhi perché, morto lui, è finito tutto”. Qui si entra nel grottesco. Quali limiti storici? Gandhi ha vinto la sua battaglia. L’obiettivo del “purna swaraj” (la “completa indipendenza”) lo ha raggiunto in pieno. E’ stato poi lo stesso Gandhi ad affidare a Jawaharlal Nehru le sorti dell’India indipendente. E Gandhi conosceva perfettamente le idee del pandit Nehru. Probabilmente perché Gandhi stesso si rendeva conto che alcune delle sue stesse idee per la società indiana erano del tutto impraticabili. Come, per esempio, quando sosteneva che per abolire gli “scavengers” (i pulitori di latrine) ogni indiano, di buon mattino, sarebbe dovuto andare con il proprio vaso da notte nei campi per disperdere personalmente le proprie feci. Caro Piero, se il Mahatma Gandhi potesse vedere l’India di oggi, penso ne sarebbe in larga misura soddisfatto. Vedrebbe un paese - a più di 60 anni dall’indipendenza - retto da una solida democrazia parlamentare (malgrado una guerra con la Cina e tre guerre con il Pakistan), un paese con una libera informazione, una magistratura indipendente, dei liberi sindacati. Ai “problemi del traffico”, credimi, si troverà un rimedio.


Durante il colloquio con Pannella, Piero Verni dice di essere forse il giornalista che ha intervistato per più ore il Dalai Lama. Personalmente, per 30 anni, ho “intervistato” invece i profughi tibetani in esilio in India. Senza il loro aiuto non avrei potuto scrivere nemmeno una pagina del mio libro. Ho conosciuto tre generazioni di questi profughi. Non solo quelli di McLeod Ganj (Dharamsala) e Majnu ka Tilla (Delhi), ma anche quelli di Bylakuppe e Hansur nel sud dell’India dove ho soggiornato a lungo. Pannella afferma che “l’emigrazione (tibetana) nel sud dell’India ha offerto migliori condizioni finanziarie e imprenditoriali” e quindi questi profughi “tendono a essere soddisfatti della loro condizione” rinunciando così a interessarsi dei problemi che affliggono il loro paese d’origine. E’ falso. A Bylakuppe, soprattutto tra i monaci dei grandi monasteri “ricostruiti” da quelle parti, ho riscontrato le posizioni più radicali. Una conferma ce la dà Jamyang Norbu. Ospite di Shingza Rinpoche a Bylakuppe, l’estate scorsa Norbu ha presentato ai tibetani residenti in quelle zone la pubblicazione “Independent Tibet – The Facts”. Scrive Norbu a proposito di questi incontri: “I don’t think I can adequately describe the incredibile enthusiasm of the monks, lay people, college students, schoolchildren and new arrivals who attended these talks. The near unanimous fervour and eagerness of everyone to discuss the issue of Tibetan independence, cought me completely by surprise”. E’ proprio nel sud dell’India che i profughi tibetani, forse a causa della lontananza fisica dai condizionamenti di Dharamsala, chiedono con maggior forza l’indipendenza. (Va ricordato a questo proposito che è proprio qui, nel Sud India, che tra la comunità tibetana serpeggiano anche le posizioni pro-Shugden in contrasto con le direttive del Dalai Lama). Pannella, tutto preso dal suo fitto colloquiare con “Rinpòce” (qualcuno gli dica che si pronuncia “Rinpocé”) e cioè con il “kalon tripa” Samdhong Rinpoche, il primo ministro del governo tibetano in esilio, mostra di ignorare completamente quello che chiedono e vogliono i tibetani in esilio (per non parlare poi dei sei milioni di tibetani che vivono all’interno del Tibet).


A conclusione della “Conversazione straordinaria con Marco Pannella”, Piero Verni delinea una strategia politica. Prima si mettano dei “sassolini” nell’ingranaggio della Repubblica popolare cinese e solo successivamente – a cambiamento avvenuto in Cina – si affronterà il problema dell’autonomia o dell’indipendenza tibetana. Sbagliato. E’ proprio la lotta per l’indipendenza (come ha mostrato l’eroico 2008) a costituire il sasso che i tibetani possono mettere negli ingranaggi di Pechino, sperando che anche altri facciano altrettanto. Ho detto che quello tra Pannella e Verni è stato un utile dibattito. Utile perché ha fatto capire che i sostenitori della causa tibetana debbano a questo punto inevitabilmente dividersi. Dividersi (anche in vista del “Kalon Tripa 2011”) tra chi si batte per l’indipendenza del Tibet e chi sostiene invece le ragioni dell’autonomia. Le due posizioni sono ormai inconciliabili. Si dovrà poi cercare l’unità tra tutti coloro che ritengono la strada dell’indipendenza essere l’unica percorribile. E anche la comunità tibetana residente in Italia dovrà ormai uscire dall’ambiguità. Dovrà spiegarci cosa intende dire quando, nelle strade e nelle piazze italiane, grida: “Tibet – Libero!”. “Libero” vuole dire Tibet “autonomo” o Tibet “indipendente”?




Perché il Tibet viva

di Francesco Pullia

Desidero vivamente ringraziare Carlo Buldrini, scrittore e saggista di grande levatura nonché uno tra i più seri e preparati conoscitori del subcontinente indiano e dell'area himalayana (consiglio caldamente la lettura dei suoi libri “Nel segno di Kali. Cronache indiane”, Lindau, 2008; “Lontano dal Tibet. Storia di una nazione in esilio”, Lindau, 2006; “In India e dintorni”, Piemme, 1999), per l'appassionato e provocatorio apporto che, anche se talvolta con toni a mio avviso troppo aspri ed eccessivi, ha fornito al dibattito in corso sul futuro (ma soprattutto sul presente) del Tibet e dei tibetani.

Buldrini coglie al volo l'occasione dell'interessante dibattito tra Marco Pannella e Piero Verni, trasmesso da “Radio Radicale” venerdì 30 aprile e da reperire e ascoltare con attenzione nel sitoweb dell'emittente, per riproporre la questione se la scelta autonomistica perorata dal Dalai Lama nonché la strada intrapresa dal governo tibetano in esilio di un colloquio con la satrapia di Pechino (fermo restando che per dialogare bisogna almeno essere in due e non da soli) siano davvero giuste, efficaci e perseguibili alla luce dei reiterati insuccessi finora ottenuti.


Si chiede, in particolare, se non sia controproducente e mortificante per i tibetani continuare ad attendere invano un fantomatico Godot mentre ogni giorno che passa la Cina comunista si fa sempre di più arrogante, prepotente, imperialista, colonizzatrice, foriera di genocidi (nell'altopiano himalayano come nel Turkestan orientale degli uiguri), negatrice dentro e fuori i propri confini di diritto e diritti, sostenitrice delle peggiori tirannie (si pensi, tanto per essere espliciti, ai rapporti con l'Iran di Ahmadinejad).

Senza mettere in discussione la nonviolenza, che è e deve restare l'unico strumento di lotta politica, ci si interroga se, in un contesto come quello cinese, la prospettiva sovranazionale, quale si evince dal “Manifesto di Ventotene”, possa attuarsi senza rivelarsi in realtà legittimazione dello status quo, quindi acquiescente ad un regime totalitario che tra i vari primati negativi detiene quello delle pene capitali.

La validità e grandezza della nonviolenza sta nella sua mutevolezza, nella sua flessibilità, nella sua capacità di dimostrarsi vincente e determinante in situazioni diverse.

Quando ci si riferisce alla questione tibetana, dovrebbe risultare a tutti evidente che ci si riferisce ad un quadro estremamente differente da quello in cui si trovò ad operare Gandhi in India.

I colonialisti inglesi, anch'essi non poco efferati (valga tra tutte la strage ordinata il 13 aprile 1919 dal generale Dyer ad Amritasr dove milleseicento proiettili, in dieci minuti, uccisero trecentosettantanove persone, tra cui un numero impressionante di donne e bambini, ferendone millecentotrentasette), non possono minimamente essere paragonati ai cinesi per il semplice motivo che questi ultimi non possiedono affatto la concezione giuridica degli inglesi.
Nonostante tutto, Gandhi lanciò, con fermezza, la sua sfida non perché l'India acquistasse una propria autonomia all'interno del dominio britannico ma perché fosse indipendente a tutti effetti.


Quit India, lasciate l'India, andatevene. A maggior ragione bisognerebbe che il mondo intero aiutasse i tibetani quando agli invasori cinesi, agli aguzzini, in divisa e non, che hanno stravolto il paese, oppongono il loro Quit Tibet.


Che valore attribuire, allora, alla prospettiva sovranazionale? Non certo quella di avallare la persistenza di una gigantesca nazione che fagocita etnie e stati nel nome della propria supremazia.


La prospettiva sovranazionale deve, invece, riferirsi ad un ambito ultranazionale, in cui cioè più stati, accomunati da un'identica base democratica, convergano in un organismo unitario che superi barriere e confini. In Cina, in questa Cina, ci sono i presupposti perché ciò accada? No, almeno finché non si sgretolerà il mausoleo di Mao. Utopia? No. Bisogna che si diffonda la consapevolezza che quanto avvenuto nell'ex Unione sovietica può e deve ripetersi in Cina.


Perché accada è, però, necessario che si aiutino concretamente le resistenze tibetane, uigure, dei dissidenti cinesi tramite un satyagraha mondiale supportato anche da dieci, cento, mille Radio Londra. La Cina è un colosso con i piedi d'argilla, minacciato, tra l'altro, al suo interno da gravissimi problemi ambientali. Se fosse davvero saldo non vivrebbe nel terrore della libertà di comunicazione e informazione.

Autonomia o indipendenza, allora, per il Tibet? Non condivido affatto Buldrini quando afferma in modo apodittico che “i sostenitori della causa tibetana debbano a questo punto inevitabilmente dividersi” per “poi cercare l'unità tra tutti coloro che ritengono la strada dell'indipendenza l'unica percorribile”. Ritengo che i soli a dovere decidere del proprio presente e del proprio futuro siano i tibetani dentro e fuori il Tibet e che proprio per questo necessitino, ora più che mai, di non essere abbandonati. E, allora, si accenda e propaghi un satyagraha mondiale perché il Tibet viva.

(Fonte: Notizie Radicali)

Nessun commento: